L’ennesimo taglio in pochi anni al sistema di Difesa rischia di rendere l’Italia poco meno di una comparsa sul piano internazionale.Uno scenario che preoccupa Arturo Parisi, docente universitario e già ministro della Difesa prodiano, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché ridurre ulteriormente il numero di F-35 opzionati dalla Penisola (a cui si sommano sforbiciate ad altri programmi, come il Forza Nec) rischia di essere un boomerang per il Paese.
Onorevole Parisi, come commenta l’ulteriore taglio italiano al programma F-35 contenuto nel documento votato in Commissione?
Con una sola parola. Preoccupazione. Non certo sorpresa. Preoccupazione. Forte preoccupazione. Ma non per il taglio, al momento tutt’altro che deciso. Preoccupazione per le motivazioni che stanno dietro il suo auspicio. Per la cultura, forse sarebbe meglio dire, assenza o addirittura rifiuto di cultura della difesa che è stata messa a verbale nel documento che invoca l’ulteriore taglio degli F-35.
L’incapacità e il rifiuto, di rispondere alla domanda del perché delle armi che il Parlamento ha rappresentato perché travolto da un sentimento che attraversa da tempo il Paese, senza che nessun responsabile o forza politica sia capace di interloquire con esso. Peggio. Con le forze politiche in gara tra loro per intestarsi questo sentimento per massimizzare i propri consensi o almeno minimizzare i dissensi.
Questo almeno di giorno per corrispondere alle esigenze della rappresentazione. Riservandosi di aggirarlo di notte quando nel momento del governo toccherà fare i conti con le necessità della realtà. Quello che preoccupa è l’incapacità delle forze politiche e soprattutto di quelle di governo di accorgersi che il differenziale tra rappresentanza e realtà ha superato da tempo il livello di guardia. Quello che preoccupa è l’incapacità di capire che la prova contro gli F-35 non è contro questo specifico sistema d’arma, e neppure sul “quanto” e sul “come”, ma sul ”se” della Difesa. Ed è sul “se”, poiché da tempo abbiamo perso di vista il “perché” la Repubblica abbia necessità di disporre di una adeguata Forza Armata.
Sarebbe già un passo avanti se la linea pacifista che è oggi, almeno come ispirazione e tentazione, maggioritaria nelle aule parlamentari, riuscisse a parlare con la chiarezza con la quale il Comitato contro gli F-35 parla e agisce da tempo. ”Tagliamo le ali alle armi”, hanno scritto. Ed è quello che stanno facendo con successo. Solo questo può spiegare come, partiti per sostituire 254 velivoli con 131, si sia passati, prima con la scelta decisiva del Governo Monti a 90, per puntare ora a 45.
Pur con tutte le precisazioni sulla qualità dei mezzi bisogna riconoscere che passare in soli due anni da 254 a 45 può essere spiegato solo da un progetto “pacifista”, che, come dicono appunto con onestà i “pacifisti”, colloca il disarmo aereo dentro l’orizzonte di un disarmo totale. Ma allora parliamone. Almeno parliamone.
Pensa ci sia il pericolo per l’Italia di avere un ruolo meno importante sul piano internazionale a causa dei tagli nel settore della Difesa?
Pericolo? Diciamo pure certezza. Provi a chiederlo ad un bambino a partire dalla sua esperienza di cortile. Provi a chiedere dei bambini che di fronte ad aggressioni e ingiustizie fanno finta di non vedere. O, se incapaci di opporre una attiva resistenza non violenta, stanno continuamente ad invocare o minacciare l’intervento del ”big brother”, del fratello grande di turno. O vogliamo che la mamma non ci mandi più in cortile costringendoci a limitarci a guardare dalla finestra gli altri bambini che giocano?
La misura serve davvero a risparmiare (o a tarare il sistema d’arma sui bisogni dell’Italia) o, come sostengono alcuni analisti, è solo un’operazione demagogica?
Come in tutti i settori anche nella Difesa il riesame e la valutazione della spesa dovrebbe essere una funzione prioritaria. Nella Difesa, come in altri settori “straordinari”, direi anzi che la vigilanza debba essere addirittura maggiore che in altri.
Può infatti capitare, e capita, che gli argomenti della emergenza, e della eccezione, che contestano il confronto con le spese dei settori ordinari, possano incoraggiare orientamenti e prassi che favoriscono l’abuso. Ma proprio per questo, più che in ogni altro settore, abbiamo bisogno di metterci d’accordo prima sul fine delle scelte di spesa.
Solo a parità di fine possiamo chiederci se un sistema d’arma è più o meno adeguato, o più o meno costoso. E il fine prioritario di un sistema d’arma è la difesa e null’altro. Né l’occupazione, né gli utili di questa o quella industria. Se non ci mettiamo d’accordo sul fine di difesa, potremmo anche dire cose volta a volta sensate, ma il dibattito sarebbe comunque privo di senso.
Secondo lei eventuali tagli avrebbero comunque dovuto attendere o no il Libro bianco della Difesa?
Sì, per rimettere appunto ordine nel discorso. Prima dobbiamo metterci d’accordo sugli obiettivi, sugli scenari e le minacce, e poi interrogarci sui mezzi e sulle risposte. Ho condiviso e condivido totalmente la scelta della Ministra Pinotti di predisporre una analisi e una proposta che consenta al Parlamento un valutazione e una decisione a ragion veduta.
Non condivido perciò l’idea di partire dai mezzi, o, addirittura, mettere nel “Libro bianco” quelle che dovranno essere le conclusioni relative ai mezzi da scegliere come premessa al discorso sui fini.
Lei è stato ministro della Difesa e ha potuto toccare con mano come negli ultimi anni l’indirizzo strategico non sia mai stato oggetto di una significativa discontinuità. Crede che queste intese bipartisan – abbandonate dal Pd – vadano ora “rottamate” o difese?
Bisogna innanzitutto riconoscere che la natura bipartisan, o, meglio, la necessità del consenso più ampio possibile, è nel campo della politica estera e di difesa, una conseguenza della natura del tutto particolare di queste scelte.
Se è vero che la collocazione del Paese nel quadro delle relazioni e alleanze internazionali è suscettibile di interpretazioni che variano col variare delle maggioranze politiche, è bene che questo avvenga in un quadro di continuità. L’unità di misura del tempo è infatti in questo settore di gran lunga superiore agli anni di durata di una legislatura, il tempo massimo sul quale nei Paesi democratici un governo può fare affidamento.
Figuriamoci rispetto alla durata media dei nostri governi. (Da questo punto di vista la durata polidecennale della vita – dal “concepimento” alla fine – di un sistema d’arma come l’F35 è solo un esempio). È questo il motivo che ha sconsigliato finora in politica estera una impostazione di parte, per evitare che ogni cambio di governo e di maggioranza mettesse a rischio il sistema delle nostre relazioni internazionali, e quindi la coerenza con le scelte passate o l’affidabilità nelle scelte future. Non mi sembra che queste esigenze siano mutate.