Il nome della cosa. La parola al padre delle primarie. Che il voto dell’8 dicembre al quale sono chiamati gli elettori del PD corrisponda alla “cosa” evocata di norma dal “nome” di primarie mi sembra ampiamente discusso perché fondatamente discutibile. Innanzitutto perché il voto non è indetto in vista e in funzione di elezioni “secondarie”, visto che la posizione in palio non è, appunto, quella di candidato a premier per la coalizione di centrosinistra, ma solo quella di guida del partito principale. Secondo, perché di quelli che sono considerati i due principali candidati alle eventuali elezioni “secondarie” uno – Renzi – si limita ad alludere, mentre l’altro – Cuperlo – sembra addirittura escluderle.
E tuttavia è impossibile non riconoscere che, almeno per quel che riguarda la guida del governo nazionale, la distanza tra il “nome” e la “cosa” non è stato mai come questa volta così ridotto. Mai come ora emerge infatti nitida l’alternativa tra le proposte in campo: in ordine al tipo di democrazia e alla forma istituzionale che la organizza, in ordine all’idea del partito che la incarna, in ordine al giudizio sul governo in carica. Partiti con l’illusione di lasciare al riparo dalla contesa il precario equilibrio del governo presente, e gli assetti istituzionali futuri, mano a mano che si avvicina il voto, alla scelta sul “chi” si è inesorabilmente associato il “che cosa”.
Questo per la competizione tra le proposte; non di meno per quella tra i proponenti. Pur in presenza di un prevalente pronostico, nessuno potrebbe ridurre infatti il risultato atteso a semplice conferma di una decisione già presa, come è invece capitato in passato. E questo certo grazie all’azione soggettiva degli attori, ma prima ancora a seguito dell’oggettivo processo di istituzionalizzazione che in modo incrementale dalla iniziale idea incorporata nel “nome” sta incontrando nei fatti la “cosa”. Se si pensa ai nove anni che ci separano da quando, nell’estate del 2004, Prodi riuscì a strappare alla coalizione la disponibilità a mettere in discussione quello che in quel momento era e appariva un fatto scontato, questo processo può apparire infinito. Ed è stato certamente estenuante per chi lo ha sollecitato, e indirizzato, e analizzato da vicino.
Non altrettanto se si pensa invece al percorso, peraltro non ancora compiuto, che l’istituzionalizzazione delle elezioni primarie ha richiesto negli stessi Stati Uniti d’America, che di certo rappresentano per la nostra esperienza il modello normativo. Prima primarie confermative di proponente e proposta, poi confermative del primo ma non altrettanto per la seconda, le primarie che questa volta ci attendono vedono in campo proposte e proponenti realmente alternativi.
Di certo il processo è ancora lungi dall’essere concluso, a causa del rilievo delle questioni ancora aperte. Per prima la questione dell’efficacia del potere riconosciuto ai titolari dell’elettorato attivo, questa volta di nuovo, come nella prima attuazione, aperto a tutti gli elettori, ma tuttavia ristretto tra la riserva ai soli iscritti delle alternative di scelta, e il rischio del rinvio della scelta finale all’Assemblea a causa della presenza di un terzo candidato. Ma soprattutto un processo ancora aperto per l’assenza nell’ordinamento pubblico della previsione formale della elezione diretta del capo dell’esecutivo senza la quale tutto il processo resta privo di guida e, prima ancora, di senso.
E tuttavia nove anni non son passati invano. Grazie a queste “primarie”, discusse e discutibili, la talpa della democrazia dei cittadini ha continuato a scavare: a valle del processo che negli stessi anni si è andato sviluppando per l’elezione dei sindaci e dei governatori, e a monte di quello per ora solo abbozzato nelle “primariette” per i parlamentari.
In questo caso, più che mai, vale la regola che fino a quando tutto non è concluso niente è definitivamente acquisito. E tutto potrà dirsi concluso solo quando il processo avrà coinvolto tutto il sistema partitico, e troverà sanzione nel sistema istituzionale. Tornare indietro sarà tuttavia sempre più difficile.