19 Novembre 2003
Perché tanta pena? Ora la risposta
Autore: Arturo Parisi
Fonte: Europa
E adesso. Adesso che abbiamo accompagnato i nostri fratelli caduti alla loro ultima dimora. Adesso che abbiamo riconsegnato le famiglie alla solitudine del loro dolore: mentre il ciclo del pianto pubblico si trasferisce dalla Patria alle piccole patrie delle comunità di appartenenza.
Adesso, mentre attendiamo che venga il momento della riflessione critica e di nuovo quello delle decisioni, il rispetto dei morti ci dice che è giunto almeno il momento delle domande se non ancora quello delle risposte. Adesso che ci siamo ritrovati uniti nel dolore è il momento di confrontarci almeno con lo sconforto del familiare sconosciuto che sfuggito al servizio d’ordine nella Basilica di San Paolo ci ha oggi indirizzato il suo grido: «Oh! Dio mio! Tanta pena per niente». Un grido che ci interpella uno per uno e tutti assieme.
Non è per causa di malattia, a seguito di un evento naturale, o per un incidente imprevedibile che diciannove nostri fratelli sono morti e diciannove famiglie sono nel lutto. È invece in nome della nostra Polis e per iniziativa della politica che le loro vite sono state sacrificate. Giustamente Francesco Rutelli in parlamento ha ricordato con Etchegaray che «le cause per le quali non si muore più sono cause morte». Giustamente lo ha ripetuto a Bologna aprendo la nostra assemblea.
Non è una verità facile in un tempo e in una società che riconosciamo segnata da una crisi e da una domanda di senso. Ma è una verità nella quale ci riconosciamo.
Ma dire che le cause per le quali nessuno è disposto a morire sono cause morte, non ci assicura all’opposto che le cause per le quali si muore sono cause vive e neppure che sono cause giuste. È perciò che dobbiamo custodire nella nostra memoria la provocazione dello sconosciuto di oggi. «Perché tanta pena?».
È per questo che quando sarà ancora una volta in parlamento il momento della decisione è da questa domanda che dovremo partire. Ma dovremo farlo di fronte ai nostri caduti chiamandoli per nome uno per uno, facendo scorrere magari su uno schermo l’immagine della loro concreta umanità, così come abbiamo fatto oggi durante il rito funebre, come abbiamo fatto a Bologna. «Perché tanta pena?».
Solo la capacità di riconoscere la morte nel volto dei morti, dei singoli morti, è infatti la condizione principale che ci costringe a dar conto delle cause per le quali li chiamiamo a morire. Solo le cause delle quali siamo in condizione di dare conto compiuto sono cause per le quali val la pena di morire. Il resto è retorica.
«Perché tanta pena?».
Oggi è il giorno della domanda. Solo le risposte che sapranno confrontarsi con essa sono degne di questo nome.