2222
14 Ottobre 2015

PD, OTTO ANNI DOPO. DISCUTENDO CON ARTURO PARISI.
Intervista a Mario Lavia, L’Unità.tv

Otto anni, compie il Pd. Sembra ieri ma al tempo stesso sembra tanto tempo fa. Strada fatta, parecchia. Errori, parecchi. E domande da porsi, parecchie. Ne abbiamo fatta qualcuno a uno dei “teorici” del Partito democratico ben prima che il Partito democratico nascesse: Arturo Parisi è un uomo che ha sempre qualcosa di interessante, di originale, su cui riflettere.

Professore, otto anni dopo, secondo lei il famoso amalgama è finalmente riuscito? Non tanto nel senso del superamento della dialettica Ds/Margherita (o Pci/Dc) ma nel senso dell’affermazione di un unico “comune sentire” democratico?

Se vuol chiedermi quanta strada abbiamo fatto, pensando che gli anni alle nostre spalle sono solo otto, dovrei dirle: “troppa”. Ma subito aggiungendo: questo perché la gran parte della strada fatta alla ricerca del “comune sentire” l’avevamo già fatta. Era appunto questo quello che si voleva dire quando si diceva che il Pd era nato in ritardo. Che non si capiva cioè perché mai un popolo già da tempo unito avesse dovuto aspettare così tanto per proclamarlo in pubblico. Solo l’abitudine e la pigrizia può infatti descrivere il campo di centrosinistra al momento della sua nascita come una somma tra la tradizione democristiana e quella comunista ancorché ridenominate Ds e Margherita. La verità è che, al momento della nascita del Pd di quelle tradizioni si era persa da tempo quasi ogni traccia. Come minimo a livello del pensiero politico e del discorso pubblico.

D’accordo, ma non può negare che il peso di certe abitudini, eredità dei “genitori” del Pd, si sconta ancora oggi…

Però cosa c’entrava quella che giustamente era definita la “Ditta” col Pci di Togliatti? E, ancor più, la Margherita di Rutelli col Partito di Sturzo e con quello di De Gasperi? Ripeto, se amalgama in questi anni c’è stato, e di certo c’è stato, è perché il grosso era già avvenuto. Prima nella disarticolazione dell’inizio degli anni ’90 delle formazioni del dopoguerra. Poi nella riorganizzazione delle componenti superstiti imposta dall’avvento del maggioritario. Infine nel rimescolo all’ombra dell’Ulivo tra vecchie appartenenze e appartenenze nuove. Ma soprattutto perché, mentre noi ci incontravamo e tardavamo ad unirci, i ragazzi ci guardavano.

I ragazzi?

I ragazzi. I figli del trentennio aperto dal ’75, la seconda generazione post-bellica, quelli che hanno votato per la prima volta nel ’94 col maggioritario, quelli che in un campo bipolare hanno percepito prima la nostra unità che le nostre divisioni, quelli che ci hanno ascoltato e ci hanno creduto, e hanno creduto che credessimo nelle cose che dicevamo di credere. Quelli che, figli della Prima repubblica, sono ora destinati ad essere i padri della Seconda. Sono loro che, liberi dalle fedeltà e convenienze passate, e, perciò interessati al cambiamento, di fronte ad un gruppo dirigente che faceva finta di marciare ma segnava invece il passo, fermi da troppo tempo sulla stessa mattonella, hanno dato alla fine il vero “avanti march”.

E oggi, professor Parisi? C’è chi vede il rischio che il Pd abbandoni il suo ancoraggio al centrosinistra per andare verso un indistinto centro. Come risponde?

Rispondo di sì. Sì se l’amalgama che sicuramente è cresciuto sul piano oggettivo non si trasforma appunto nella stessa misura in quel “comune sentire” democratico del quale mi ha chiesto prima. Se infatti è vero che la dissoluzione delle vecchie appartenenze ha consentito, favorito, e prodotto quell’amalgama nuovo non riducibile al passato, questo è, al momento riconoscibile più all’interno del ceto politico che tra i cittadini, più tra gli eletti che tra gli elettori. E soprattutto quel “sentire comune” è al momento ancora appunto un “sentimento”. Solo se questo sentimento si fa ragionamento può dar vita ad un nuovo sentimento riconoscibile e condivisibile con gli elettori. Su questo piano siamo ancora in ritardo. L’azione non ha alle sue spalle un pensiero adeguato e, soprattutto, condiviso. Questo consente all’azione una grande libertà ma la rende prigioniera di se stessa.

Quindi c’è un deficit, come dice lei, di pensiero. Di elaborazione comune, si diceva una volta a sinistra.

Esattamente. Dal momento che il risultato, e in ultima analisi quello elettorale, diventa l’unica vera prova della efficacia e verità dell’azione, siamo costretti ad anticiparlo nella comunicazione e ad annunciarlo nella manovra politica, con un ritmo incalzante che è interpretabile solo da leadership sempre più individualizzate. In questo contesto ogni ancoraggio ad un pensiero comune è per definizione un freno e una remora.

Se capisco bene, secondo lei il Pd non può limitarsi a guardare solo alla percentuale elettorale ma deve evitare che la leadership si isolo dalla propria tradizionale base di riferimento

Certo, senza il riferimento ad un “comune sentire” come “comune pensare” il rischio è l’aumento della distanza tra elettori ed eletti: una distanza sulle politiche sempre meno colmabile dal comune riferimento ai politici. Risultato: gli elettori che non si riconoscono nelle proposte a non si accontentano di riconoscersi nei soli proponenti rischiano di affidare il proprio disagio a formazioni di mera protesta o in alternativa estraniarsi dalla partecipazione politica. Mentre dobbiamo ribadire la necessità e il dovere di rivolgere la nostra proposta di governo a tutti, il partito non può perciò dismettere il compito di costruire un “sentire comune” come “pensare comune” non solo tra leader ed eletti, ma tra eletti ed elettori.

Serve ancora, dunque, un partito.

Anche se la categoria di partito è sempre più lontana e, aggiungo, fortunatamente lontana da quella entità che un  tempo chiamammo Partito con la P maiuscola, per quanto con la p minuscola il partito conserva un senso e una utilità irrinunciabile, non perché garantisce ed impone un “pensiero” comune, ma appunto perché consente e favorisce un “pensare” comune sulle cose comuni.

Il Pd è nato con le primarie. I giornali hanno avevano scritto che Renzi le avrebbe voluto evitare, soprattutto a Roma, ma lui le ha confermate dicendo “il sindaco lo scelgono i romani”. Che ne pensa?

Non avevo dubbi che avrebbe trovato il modo di correggere la posizione che gli era stata attribuita: pensando al suo percorso passato e alla sua ispirazione iniziale. Tuttavia la sua chiarissima dichiarazione mi ha regalato un respiro di sollievo. A partire da giugno, nonostante le ripetute smentite, al riparo e con l’alibi di un suo supposto ripensamento e di una sua improvvisa ostilità verso le primarie si sentiva risuonare sempre più forte nella base del partito un funebre rintocco di campane a morto.

Parisi, se dovesse dare un consiglio a Renzi che gli direbbe?

Di metter fine per sempre alla incertezza che ci sta logorando. Non posso che ripetere ancora una volta quello che vado ripetendo da anni. Abbiamo detto che le primarie come ulteriore espansione della democrazia dei cittadini sono una nostra cifra distintiva? Lo abbiamo detto? E allora, prima ancora di applicarci a qualche ritocco delle regole ribadiamolo coralmente, esattamente come lo ha fatto lui per la designazione del candidato Sindaco di Roma e – quindi inevitabilmente – nell’immediato di tutte le cariche apicali di governo locale, e, in futuro, anche di quelle sottratte al voto dei cittadini. Evitiamo allora di dividerci ogni volta sul “se” fare o no le primarie, alimentando sui media uno spettacolo figlio di incertezze passate che appartengono alla stagione che ha preceduto la nascita del Pd. Ribadito il “se” stabiliamo anche definitivamente un “quando”.

Ha una proposta?

Fare le primarie ad una distanza dalle elezioni finali che consenta di farle e di dimenticarle, lasciando al vincitore un tempo per ricucire il rapporto con i vinti. Perchè non pensare allora, nell’immediato, di farle, come le ultime primarie nazionali, nella settimana che precede l’inizio dell’anno giubilare, aprendo anche per noi un tempo di “misericordia”?