Parliamo con Arturo Parisi, dopo il brutto risultato, per il Pd, delle amministrative di domenica, a partire da un dato politico, ai più evidente, secondo cui il renzismo ha subito una battuta d’arresto. Qualcuno si spinge a dire che la sua spinta si è esaurita.
È così, professore?
Approfittando del risultato sicuramente negativo delle elezioni locali, questa è di certo la profezia che i suoi avversari stanno provando a diffondere con la speranza che imponendosi finisca per avverarsi. Io parlerei piuttosto di un passaggio di fase che sembra imporre un cambio di passo. Dopo una fase percorsa al galoppo, in qualche tratto addirittura sfrenato, è difficile non riconoscere che il terreno consiglia di passare ora al trotto. In un tempo nel quale la dinamica politica è come mai affidata alle parole, la narrazione renziana sembra in qualche modo costretta a pagare oltre il dovuto quello che in passato ha incassato oltre il merito. Così come il 40,8 per cento dei voti validi alle Europee era nella realtà molto inferiore a quello che Renzi è riuscito a dare ad intendere, il risultato di questo turno di elezioni è certamente superiore a quello che i suoi avversari vorrebbero credere e far credere.
Ora all’interno del Pd volano gli stracci e sembra di assistere a scenari già visti. Crede che il partito sia destinato ancora una volta ad esercitarsi nello sport di fare fuori il proprio capo?
Che ci stiano provando è assolutamente evidente. Non altrettanto probabile che ci riescano. Se Renzi è riuscito ad imporre con tanta facilità il suo racconto, più che grazie alla sua forza è stato a causa della debolezza dei suoi avversari. Innanzitutto di quelli interni. Deboli per la quantità di consensi, inadeguati per la qualità della iniziativa politica. Questi sono stati almeno finora i rapporti di forza interni al partito.
È possibile che approfittando delle difficoltà la minoranza riesca a superare il suo isolamento unendosi alle voci critiche finora silenti. È anche possibile che lo stimolo delle vicende esterne riesca a rinnovare la sua proposta liberandola da quella nostalgia delle appartenenze passate che ha finora rappresentato il tratto comune. Dubito tuttavia che Renzi si faccia da parte da solo o arretri intimorito abbandonando i punti qualificanti della sua linea politica. È perciò possibile che si apra una nuova stagione di dialettica interna. Non vedo invece il rischio di un colpo di palazzo che sfoci nello spodestamento del capo. Se qualcuno ha in mente di sostituire Renzi non ha che da alzare la mano. Il conto alla rovescia dal prossimo congresso è già iniziato. Il tempo è questo.
Non le sembra che quello che non ha pagato in termini di voti sia stata la politica delle mance (dagli 80 euro all’abolizione dell’Imu) associata a un processo riformistico, riferito in particolar modo alle istituzioni, molto lontano dai bisogni reali del paese?
Se l’apparenza, ripeto, sicuramente negativa, del risultato delle elezioni locali dovesse coincidere con la sua realtà effettiva, e se i voti locali potessero essere letti come un giudizio sul governo nazionale, e sottolineo i due “se”, verrebbe da dire che quello che ha funzionato non ha pagato, e che invece Renzi ha pagato quello che non ha funzionato. Dovremmo infatti concludere che di quello che Renzi ha fatto sul piano della riforma della politica compresi i diritti civili non interessi molto, mentre interessa invece e molto quello che non è riuscito a fare nella economia. Ma, prima che questo o quel provvedimento, a non aver funzionato è la promessa nel suo complesso, il tono col quale è stata comunicata, la reazione a chi ha difficoltà a riconoscere che è stata mantenuta.
Portare a termine le riforme nel campo politico e istituzionale è una impresa difficilissima. E lo vedremo ancor di più nei prossimi mesi a proposito del referendum che ci attende ad ottobre. Ma in questo Renzi ha dato il meglio di sé. Grazie alla sua determinazione ed abilità politica, è riuscito a far fare un salto ad un processo che altri avevano aperto e avviato da decenni ma non erano riusciti a svolgere in modo adeguato, sciogliendo nodi che nel frattempo si erano stretti ulteriormente. Ma si tratta pur sempre di azioni politiche e istituzionali che nell’immediato appartengono e si esauriscono nell’ambito politico istituzionale interno.
Quando si opera sull’economia e sulla società, o ad una scala sovranazionale nel sistema delle relazioni esterne è invece tutto enormemente più complesso. Il tempo dei processi economici e sociali non è infatti il tempo del processo legislativo. La distanza tra le promesse e i fatti debbono in questo caso fare i conti con la fiducia, la volontà, i calcoli di un numero indefinito di attori che non ci consente di confondere il dopodomani con il domani. In questo campo dire che una promessa è stata mantenuta quando non è evidente, anticipare nelle parole il futuro a dispetto dei fatti, chiamare gufo chi non collabora alla narrazione può trasformare in poco tempo la fiducia in sfiducia, il credito in debito, la vicinanza in ostilità.
Il voto nelle periferie delle grandi città ha penalizzato il Pd. Dopo due anni di governo Renzi non si è intaccata l’area del disagio né si è data l’impressione di difendere la classe media. Del resto i risultati economici del governo son quel che sono.
Due anni non sono nulla. Il problema non è la mancata riduzione dell’area del disagio, che in due anni sarebbe stato impossibile, ma la riduzione dell’area della speranza. Il fatto è che con lo sviluppo del processo di globalizzazione il numero di persone che pensa di uscirne perdente cresce in misura incomparabile rispetto a quelli che sperano di potervi partecipare da vincenti. Mentre i primi crescono velocemente i secondi crescono invece lentamente.
È proprio pensando ai perdenti che bisogna misurare le parole trattenendo le parole del desiderio o della propaganda per vendere come acquisiti risultati nel migliore dei casi ancora lontani. Altrimenti è inevitabile che si concluda che “se i risultati promessi sono già acquisiti e io non me ne sono minimamente accorto, allora vuol dire che più che perdente io sono già perduto”. Una conclusione tanto più amara se viene il sospetto che mentre tu perdi ci siano altri che vincono. Non solo: che la vittoria che tu dai per raggiunta o a portata di mano, sia quella raggiunta da altri e di altri è la mano della quale è alla portata. È a questa divaricazione tra vincenti e perdenti che attinge la contrapposizione tra Pd e M5S. Una divaricazione sociale che si fa contrapposizione politica nella misura in cui il Pd dovesse apparire come il partito dei vincenti.
È una divaricazione drammatica della quale, son sicuro, nessuno sorride. Ma di fronte alla quale è bene governare comunque il sorriso. Soprattutto per un partito che rivendicando la sua ispirazione di sinistra vuol ricordare di essere schierato per definizione dalla parte dei perduti.