La lunga marcia dem verso il 4 dicembre, giorno del referendum confermativo, allarga ogni giorno il fossato fra Matteo Renzi e l’opposizione interna, a cominciare dal troncone capeggiato da Pier Luigi Bersani, per arrivare a Massimo D’Alema, che gioca in proprio.
Oltre all’interrogativo su chi vincerà la consultazione e su che ne sarà del governo e dello stesso Renzi in caso di vittoria del No, si fa strada in molti osservatori anche la domanda su quale futuro avrà questo partito dopo il voto, quale che ne sia l’esito.
Interessante sapere cosa ne pensi Arturo Parisi, che quel partito l’ha fondato, così come fondò l’Ulivo più di 10 anni prima e, nel 2001, la Margherita. Classe 1940, già sottosegretario a Palazzo Chigi nel Prodi I e ministro della Difesa del Prodi II, Parisi trova il modo di rispondere in un andirivieni dalla sua amata terra adottiva: la Sardegna.
Domanda. Professore, Bersani si sta impegnando a testa bassa per il No. Dopo un lungo tergiversare – circolano ancora interviste di prima dell’estate si diceva convinto delle riforme (e c’era già l’Italicum) – l’ex-segretario sceglie di opporsi. Significa che vede possibile la sconfitta di Renzi e quindi il riassetto interno del Pd?
Risposta. Più che la probabilità della vittoria, credo che a spingere Bersani sia la presa di coscienza della indifferibilità della battaglia.
D. Addirittura.
R. Sì perché, anche se in ritardo, ha capito che il confronto tra le due linee che ormai da un quarto di secolo si contendono il campo del centrosinistra è ormai arrivato al dunque. Dico del centrosinistra perchè questo è il campo nel quale è più aspro, ma il confronto tra le due linee contrapposte attraversa tutte le formazioni e il ceto politico che si è formato nella prima repubblica, e ad essa continua a ispirarsi. Due visioni distinte della democrazia, tutte e due democratiche, ma profondamente distinte tra le quali è arrivato il momento di scegliere.
D. Proviamo a descriverle?
R. È difficile trovare una esplicitazione migliore di quella apparsa nel confronto tra Gustavo Zagrebelsky e Renzi.
D. Ossia?
R. Da una parte la democrazia consociativa, dove nessuno perde mai e nessuno vince, e tutti tessono e ritessono ogni giorno la stessa tela, facendo e disfacendo continuamente i governi in Parlamento.
D. Dall’altra?
R. Dall’altra la democrazia competitiva, dove ad ogni elezione c’è chi vince e c’è chi perde, e chi vince è chiamato al Governo, e a dar conto del suo governare certo ogni giorno in Parlamento, ma con un giudizio riservato al voto finale dei cittadini. Da una parte, cioè, la democrazia del proporzionale, fondata sulla negoziazione infinita tra i partiti su quale quota di potere corrisponda alla propria porzione di deleghe elettorali, dall’altra la democrazia del maggioritario, dove al centro della decisione sta il fare o il non fare le cose promesse ai cittadini al momento del voto. E potrei continuare…
D. Perché non lo fa, professore?
R. Perché mi accorgo che sto consumando le stesse parole che ci scambiamo inutilmente appunto da un quarto di secolo.
D. Storia vecchia, infatti. Se capisco, non sono dunque né la riforma in sé, né la persona di Renzi al centro della contesa, ma la forma complessiva del sistema politico.
R. Né la riforma, a mio parere piena di problemi e bitorzoli figli dei compromessi e padri dei problemi che ci attendono in futuro ma, men che meno, Renzi. Agli occhi dei Bersani, Renzi è semmai una risorsa.
D. Un tempo si diceva così.
R. Certo, nella impossibilità di batterlo dall’interno, la possibilità di farlo dall’esterno è una occasione ghiotta.
D. Quindi, secondo lei, non è la possibilità di liberarsi dell’intruso a motivare i vecchi leader sul No?
R. No, insisto, la cacciata di Renzi in sé non è l’obiettivo, anche se sufficiente a soddisfare le tentazioni delle stanche carni di tanti miei coetanei che, alla sua sola apparizione sugli schermi, la sera, si eccitano sui divani più dei tori nell’arena. No, ripeto, Renzi è una risorsa. E come si sarebbero mai fatti ritrarre riuniti tutti assieme attorno a D’Alema senza il suo appello? Appello di Renzi intendo, non di D’Alema.
D. Scusi, ma allora l’obiettivo qual è?
R. L’obiettivo dei Bersani è ben altro. Me lo faccia ripetere: il ritorno alla prima repubblica, o la presa d’atto della vittoria definitiva della seconda.
D. Professore, ancora con prima e seconda repubblica? A quel che capisco, il confronto di cui lei parla è iniziato coi referendum dei primi anni ’90 quelli per superare il proporzionale. Direi che sono un po’ in ritardo.
R. La verità è che all’inizio hanno adottato la tattica che, in Sicilia e in Calabria, è consigliata da sempre, sull’esempio del giunco calati juncu chi passa la china. E a lungo hanno atteso che la piena passasse.
D. E invece…
R. La piena si è fatta invece sempre più impetuosa, alimentata dallo scongelamento crescente degli assetti sociali passati, e contrastata alla foce dai marosi provenienti dal mondo. E i poveri giunchi, intanto invecchiati, cominciano a sospettare che durerà ancora a lungo, e che comunque quando passasse non avrebbero più la forza per rialzarsi.
D. Dunque i D’Alema e i Bersani si vogliono rialzare.
R. Capisce? Se vogliono rialzarsi l’occasione è questa. Una occasione unica, comunque l’ultima. Scommettere sulla occasione offertargli da Renzi, investire sulla diffusa reazione al suo stile «indisponente» e alla personalizzazione impressa irreversibilmente all’esito del referendum e alla campagna referendaria in corso, ma prima ancora alla impresa riformatrice. Distrarre così dalla «cosa», quella vera, che non è il testo della riforma, ma la sua ambizione non meno «sfrontata» di incanalare il fiume che li sommergerebbe definitivamente.
D. E poi?
R. E poi fare fronte comune per contrastare il progetto di affermare stabilmente anche nel nostro Paese un modello di democrazia governante. Uniti tutti assieme. Quelli che un tempo dissero le stesse cose, ma solo fin quando erano al Governo o in vista del Governo. Quelli che non essendo stati mai al Governo furono sempre contro ogni Governo. Quelli che oggi sanno che al Governo non andranno mai e quelli che sentono che non torneranno più.
D. Tutti insieme appassionatamente.
R. Gli uni e gli altri accomunati dalla idea che il governo serva per soddisfare le ambizioni dei governanti, e non per governare i problemi dei cittadini.
D. Parisi, però, in queste sue parole, mi pare di cogliere, oltre a una certa amarezza, anche un po’ di pessimismo. Dubita dell’esito del referendum, cioè sulla vittoria del Sì per il quale lei si è pronunciato da tempo?
R. Esattamente. Diciamo che la partita più difficile è quella del Sì. Direi che, al momento, la sua vittoria più che possibile non è impossibile.
D. Che vuol dire?
R. A stare ai sondaggi, è invece più probabile la vittoria del No. Molto dipende dalla partecipazione, dallo scongelamento del silenzio di chi attende la fine per scegliere.
D. E come si immagina il giorno dopo una vittoria del No, nel Paese e nel Pd? Cosa farebbe Sergio Mattarella?
R. Senta, non è il giorno dopo che mi preoccupa. Per quanto più giovane rispetto a quella britannica, anche la nostra democrazia dispone di regole e di precedenti sufficienti a indirizzare nell’immediato i nostri passi. Il fatto che a guidarli sia una persona con la competenza, l’esperienza, e la prudenza del presidente Mattarella è di conforto per tutti. Se il Regno Unito è uscito dal voto per il Brexit, usciremo in qualche modo anche noi dalla stretta.
D. E dopo?
R. Dopo finiremmo in una «Terra incognita», mi verrebbe da dire. Ma mi correggo subito, perché la nostra appare invece come una terra conosciutissima. Tutto d’un tratto un salto indietro di trentanni. Che bello!
D. Questo dei tre decenni indietro è un giochino che sui social spopola, elencando un bel po’ di certezze degli anni ’80.
R. Sì leggo anche io, in Rete e sui media, tutto un fiorire di frizzi e lazzi. Come se a ognuno di noi fosse condonato all’improvviso un trentennio d’età. Ma, piegati per trent’anni, neppure i vincitori riuscirebbero a tornare diritti. Nessuno si faccia illusioni. Finiremmo in una terra più incognita che mai. Riaffidati a una democrazia dei partiti, dei partiti di un tempo, defunti da troppo tempo, non riusciremmo neppure a ritrovare le sedi né a decifrare le insegne.
D. Beh, allora immaginiamo anche il giorno dopo la vittoria del Sì.
R. In questo, almeno, lo spartito è scritto. Quanto all’esecuzione niente è scontato. Ma almeno la direzione è stata tracciata.
D. E Renzi?
R. Anche il suo futuro è tutto da vedere. Leggo in giro profezie che troppo in fretta lo danno morto nel caso di vittoria del No e, all’opposto, troppo in fretta annunciano come inevitabile una sua egemonia indefinita.
D. Lei cosa vede?
R. Io penso invece che, con un ritorno al proporzionale, si potrebbe altrettanto plausibilmente ipotizzare – ripeto ipotizzare – una sua indefinita permanenza al tavolo della decisione politica e invece, in un sistema diventato compiutamente maggioritario, aprirsi una contesa per la sua posizione ormai compiutamente contendibile. Come la vita…
D. Come la vita?
R. Come la vita, la politica è soprattutto dinamica. Le regole contano ma, a decidere del gioco, sono i giocatori. In un caso dipenderebbe dalla capacità di Renzi a giocare come uno tra molti.
D. Nell’altro?
R. Nell’altro caso dalla disponibilità di leader alternativi capaci di sfidarlo.