Arturo Parisi, ideologo dell’Ulivo ed ex ministro della Difesa, in Sicilia è cronaca di una sconfitta annunciata?
«Chiarito che la competizione a cui si era iscritto il Pd non era per la guida della Regione ma per rappresentare i propri voti, se si guarda ai risultati di lista, sconfitta è sul piano elettorale un termine improprio. Certo, associare il nome Pd ad un valore così inferiore a quello della lista M5S e terzo in graduatoria, per un partito che sul piano nazionale ha la responsabilità che ha il Pd non è cosa da poco. Ma può un partito a vocazione maggioritaria come sulla scia di Veltroni si definisce con orgoglio far coincidere la sua statura con la misura della sua porzione? Questa sì sarebbe una sconfitta. Hanno perciò fatto bene i dirigenti Pd a riconoscere il dato siciliano come sconfitta».
Sconfitta di quale livello di gravità?
«Quello che fa del risultato più che una sconfitta una disfatta, è il disfacimento del centrosinistra, questo si un dato annunciato. Un disfacimento del quale il Pd non ha le colpe maggiori, ma porta per definizione la maggiore responsabilità. Vocazione maggioritaria non è la semplice pretesa di intestarsi la maggioranza dei consensi ma il riconoscersi chiamato ad aggregare la maggioranza dei cittadini».
Da dove si riparte? La leadership di Renzi è in discussione anche se ha appena vinto il congresso?
«Non credo che la leadership di Renzi abbia al momento alternative. Non solo perché ha appena vinto il congresso con una misura indiscutibile, ma perché non vedo attorno a lui mane alzateche si intestino il rischio di proposte credibilmente competitive. Ma, a causa della piega presa dopo la sconfitta referendaria, il Renzi dal quale si riparte non è più come prima in condizione di annunciare azioni da capo del governo presente o futuro, né è ancora promotore di nuove o rinnovate aggregazioni politiche da leader».
La strada sono primarie di coalizione? O i giochi si faranno dopo le urne?
«La seconda. Sarà perché la legge Rosato è stata promulgata da pochi giorni, ma la gente non ha capito che è tutto cambiato. È come se fossimo passati dal tennis al football americano. Non c’è una sola parola che abbia il significato evocato negli ultimi 20 anni. Da candidato premier a candidato nei collegi residui decisi col maggioritario. Ma soprattutto non ha più lo stesso senso la coalizione. Quelle del Rosatellum non sono coalizioni per il governo, ma semplici apparentamenti elettorali pensati anzitutto per massimizzare i seggi e spartirli tra partiti apparentati ai danni degli altri. Sulla scheda l’elettore non troverà più la domanda su chi vuole che guidi il Paese ma a quale partito delega questa risposta. Assieme alla coalizione per il governo entra in crisi anche l’idea di un capo della coalizione che sia allo stesso tempo capo del governo. E, per me, lutto che si aggiunge a lutto, anche la stessa idea di primarie di coalizione».
Ma davvero, al di là del candidato, si può ricucire con Mdp?
«Ci si deve provare. Con Mdp e tutti quelli che non si escludono pregiudizialmente dal confronto. Anche se la sconfitta referendaria e le vicende successive hanno frammentato in porzioni il quadro politico esaltando la logica divisiva del proporzionale, dobbiamo favorire la riaggregazione. Altrimenti anche i livelli regionali e locali dove resta la logica di coalizione finiranno coinvolti nell’instabilità e nella disgregazione. A questo fine, pur se guidati dalla convenienza elettorale, anche gli apparentamenti della legge Rosato possono aiutare».
Lei dopo l’approvazione del Rosatellum era appunto “a lutto”. La Sicilia è anteprima delle elezioni politiche nazionali?
«La Sicilia è la Sicilia e le regionali sono regionali. Detto questo, la lezione può giovarci anche a livello nazionale. Se il campo di centrosinistra avesse trovato una sua unità attorno un candidato comune oggi la storia sarebbe tutt’altra. Forse saremmo stati sconfitti come capita quando si gioca, come fa il centrosinistra in Sicilia, fuori casa. Saremmo finiti sconfitti, ma non disfatti».
C’è anche Ostia. Un nuovo bipolarismo da cui la sinistra è tagliata fuori o semplici contingenze?
«Se la Sicilia è la Sicilia, figuriamoci Ostia. A chi trova nella partecipazione un denominatore comune con la Sicilia, ricordo il crollo che nelle ultime regionali ha portato al 37% i votanti in Emilia Romagna. Dato più basso della Sicilia e ben più grave di Ostia, sul quale è stato steso con troppa fretta un velo pietoso».
Il presidente del Senato Grasso è uscito dal gruppo Pd dopo la “violenza” della fiducia sul Rosatellum e forse sarà candidato premier di Mdp. Ha fatto bene o male?
«Se l’ha ritenuta una violenza mi sono chiesto se non fosse stato meglio sollevare il problema ben prima. Quando si avverte un conflitto insanabile tra le proprie convinzioni politiche e quello che si ritiene un dovere istituzionale, non potendo rinunciare su un tema così rilevante alle proprie convinzioni ci si può forse chiedere se non sia il caso di riconsiderare il ruolo. Lo dico con rispetto. Non è semplice tenere assieme gli obblighi di terzietà che derivano da una funzione così importante e la vicinanza a una parte».
Lei sta ancora con il Pd?
«Senza dubbio e nonostante tutto. Non si può lavorare per un’unità più grande mettendo a rischio quella esistente. Salvare il salvabile, per me, vuol dire anche salvare il Pd».