«La parte difficile deve ancora venire» per la formazione del governo. Arturo Parisi, ministro della Difesa del governo Prodi II, ideologo dell’Ulivo, non si attende soluzioni a stretto giro, «penso che l’obiettivo di questa fase sia per tutti dimenticare da dove si è partiti. Solo quando e chi comprenderà di essere ormai finito in alto mare e soprattutto che non si può più tornare indietro capirà che non si può che andare avanti».
Domanda. Il capo dello stato ha assegnato al presidente della camera, Roberto Fico, l’incarico esplorativo. Questa volta il perimetro è quello di M5s e Pd. A che punto siamo nella formazione di un nuovo governo?
R. Mano a mano che ci allontaniamo dal punto di partenza, il voto di cinquanta giorni fa, l’unica cosa certa è che il mare si fa sempre più profondo. Da questa sensazione e dalla difficoltà di riconoscerci in una meta e di conseguenza misurare la distanza da essa i più derivano sentimenti di impotenza e frustrazione. Io penso invece che l’obiettivo di questa fase sia per tutti dimenticare da dove si è partiti. Solo quando e chi comprenderà di essere ormai finito in alto mare e soprattutto che non si può più tornare indietro capirà che non si può che andare avanti.
D. Mi sta dicendo che anche questa volta non vede soluzioni a breve?
R. Gli esploratori possono soltanto fare domande, non avanzare proposte. È già molto se Fico riesce a certificare l’inesistenza di un pregiudiziale rifiuto ad ogni confronto. È già molto. Ma la parte difficile viene dopo. Ogni giorno che passa il trattamento che Di Maio ha riservato al «secondo» forno incoraggia ad aggiungere all’ammontare del debito di partenza una quota di interessi.
D. Ma un’alleanza tra centrodestra e M5s è definitivamente tramontata?
R. Diciamo pure che non è mai esistita. Una cosa è governare assieme la transizione come è accaduto per le cariche parlamentari, un’altra governare assieme il Paese. Scommettere su una Lega separata da Berlusconi onestamente è troppo. Così come immaginare un Pd alleggerito del passato e del presente di Renzi.
D. La Lega finora ha tenuto l’asse con Fi. Resisterà la coalizione anche in futuro?
R. Il Molise non è certo l’Ohio, e neppure l’Italia. Ma chi smonta il meccanismo che ha prodotto domenica scorsa la riconquista della regione da parte del centrodestra, lo stesso annunciato per le prossime elezioni del Friuli, vedrà in atto lo stesso schema di gioco seguito dal 1994. Costruire il totale vincente a partire dalla somma del maggior numero possibile di liste e di candidati. Ribadire che da solo ognuno non va da nessuna parte. Ricordare che la vittoria viene prima della sua spartizione.
D. La Lega può diventare il partito unico o comunque maggioritario del centrodestra?
R. Partito unico lo escluderei. Troppo strutturato, troppo connotato, e con un gruppo dirigente troppo definito perché questo possa avvenire in tempi brevi. Maggioritario ed egemone dentro la coalizione è invece un’altra cosa. Senza la sopravvivenza del pluralismo e della competizione interna al centrodestra la sua nuova quantità potrebbe tuttavia diventare addirittura un problema.
D. Forza Italia è alla fine?
R. Mi faccia sorridere. Dichiararne la fine è, come minimo, prematuro. Diciamo che di certo siamo entrati in una stagione nuova.
D. Il professor Giacinto Della Cananea, incaricato da Di Maio di analizzare le compatibilità dei programmi M5s-Lega e M5S-Pd, ha stimato in entrambi i casi un basso tasso di coesione di un eventuale governo.
R. Lo dico con rispetto. Non mi sembra una gran scoperta. Inventariare le proposte è utile. Ma il «chi» viene prima del «cosa», il «se» prima del «come». E la politica riguarda il «se» e il «chi». Il resto lo lascia appunto ai tecnici.
D. Alla vigilia del voto del 4 marzo, molti scommettevano sul depotenziamento del M5stelle dopo l’esperienza di Roma. Il Movimento è stato sottovalutato?
R. E si sono sbagliati. Ci siamo tutti sbagliati. Perfino i 5S si chiedevano se sarebbero sopravvissuti alla prova di Roma. Ricorda quando la Taverna ipotizzò che ci fosse un complotto per farli vincere a Roma e sconfiggere poi nell’intero paese. Non sono i 5S che sono stati sottovalutati. È la crescita di un Paese troppo a lungo ignorato. Un Paese alla ricerca di uno strumento per far sentire la sua voce.
D. Il Movimento è nato al motto del «vaffa». Oggi è arrivato al cuore delle istituzioni parlamentari. Cosa è diventato?
R. Cosa sia diventato lo vedremo più avanti. La verità è che sta cambiando sotto i nostri occhi, proprio mentre si allontana dal porto di partenza. Ricorda l’ammutinamento dell’equipaggio contro Colombo? Anche allora l’Europa era ormai troppo lontana. Fortunatamente per lui la vedetta gridò «Terra! Terra!».
D. Lega e M5s rappresentano il malessere e il malcontento del paese. Anzi di due paesi, il Nord e il Sud. Che Italia è quella che è uscita dalle urne del 4 marzo?
R. Diciamo meglio: il Sud, il Sud, il Sud, e il Nord. È speranza e progetto? O rabbia, protesta? O semplice malcontento. O, come temo, qualcosa di più profondo. Il male oscuro della depressione, la crisi diffusa di progettualità personale e collettiva che, soprattutto nel nostro Mezzogiorno, grida la sua disperazione sul governo di turno colpevole di ogni guaio, dalla pioggia in giù. Lo sapremo presto. Lo saprà soprattutto 5S se sarà caricato della sfida del governo come chiede con impazienza.
D. Lei ha definito il voto di marzo un cataclisma e un’apocalisse.
R. Per la sua quantità un cataclisma, per la sua qualità un’apocalisse. Un cataclisma se sulle carte elettorali si guarda al cambiamento dei colori della superficie. Terremoto poteva bastare a descrivere il mutamento dei rapporti di forza alla vigilia del compromesso storico. Non certo la misura di questa serie di scosse aperte dallo sconquasso del 2013. Apocalisse se si guarda al Paese troppo a lungo ignorato che si è disvelato.
D. Il Pd delle europee del 2016 arrivò al 40%. Nel 2018 alle politiche è sotto il 20. Che cosa è successo?
R. Ora è meno oscuro a tutti. Ma è comunque un «senno di poi». È più chiaro che il problema grillino che sembriamo scoprire oggi si era manifestato nella sua pienezza già nel 2013. La novità non sono certo i voti che si sono aggiunti ora nel Sud. È più chiaro che è stata l’enormità di spazio regalata dal Porcellum, in esposizione mediatica e in potere reale, a distrarre dalla inconsistenza del consenso reale. È più chiaro che la risposta-Renzi che, con quel 40% e con i 1.000 giorni di governo, non era «la» soluzione che non per poco parve a non pochi. Sopravvalutava la disponibilità di un paese a seguirlo nella sua ambizione riformatrice, sottovalutava il problema di partenza, e non aveva ritegno a mostrare di sopravvalutare se stesso.
D. Poi è sembrato che da soluzione Matteo Renzi sia diventato problema.
R. Capita. Quando una soluzione non funziona è inevitabile che diventi a sua volta problema. Basterebbe tuttavia considerare l’esito elettorale della secessione della sinistra di D’Alema e Bersani a dimostrare che può andare peggio.
D. Da dove ripartire? Il Pd appare un partito privo di energie, incapace di comunicare anche con il suo vecchio elettorato.
R. Prendere finalmente possesso di una sconfitta. Guardarla negli occhi. Son dieci anni che il Partito salta a piè pari l’analisi di un risultato. Disabituato a un vero confronto politico ha preferito celebrare le poche vittorie, e volta a volta ignorare le molte sconfitte. Non illudersi che prima o poi il voto che un tempo fu definito «in libera uscita» torni in caserma. I 5S hanno infatti dimostrato che non solo non esistono più le caserme dei partiti di appartenenza ma neppure quelle delle aree politiche. E tuttavia comprendere che, pur gravemente ridimensionato quantitativamente, senza una ambizione generale il partito è finito.