Fra una settimana si vota il referendum costituzionale, ma più che sulla riforma, è diventato un voto su Renzi e su cosa accadrà dopo. Si poteva evitare?
«Si doveva. Che in un referendum il “che” della domanda si mescoli col “chi” non è una novità. Penso per tutti a Fanfani sul divorzio. Ma, interessata alla confusione, in genere, è l’opposizione. Se questa volta la confusione è stata troppa è grazie al contributo determinante di Renzi. Purtroppo».
Arturo Parisi, ideatore dell’Ulivo, ex ministro della Difesa, forse l’uomo più vicino a Romano Prodi, sta girando la Sardegna, terra dove è nato, per sostenere il Sì al referendum costituzionale. «Ieri mi sono fatto quattro ore in treno da Cagliari a Sassari, delle quali quasi due in piedi». Eppure, come ha sempre fatto, non rinuncia al suo spirito critico. Nei confronti di Renzi, ma anche di Bersani, del fronte del No e del progetto europeo.
Il premier parla di bivio, di scelta tra passato e futuro, tra la casta e chi vuole tagliarla. È così?
«Lasciamo stare la casta e i costi della casta, un tema sbagliato e fuorviante che finisce per favorire Grillo. Che siamo a un bivio è, invece, a mio parere giusto. Se vince il Sì non sarà una passeggiata. Ma se vince il No più che al passato torneremo al trapassato».
Mi dica una cosa che le piace della riforma e una, invece, che non le piace.
«A piacermi di più è il superamento del bicameralismo paritario, il punto centrale. A piacermi di meno la composizione del Senato. Avrei preferito una soluzione che assomigliasse il più possibile al Bundesrat, la Camera dei Länder, gli Stati federati della Germania, ad un organo che evitasse ogni equivoco di continuità tra il vecchio e il nuovo: dal mantenimento della stessa denominazione di Senato alla difesa dei senatori a vita».
Bersani, D’Alema: un pezzo importante del Pd vota contro. Perché?
«Nella sinistra, se escludiamo Napolitano, D’Alema è quello che nei fatti più di tutti si è speso per le riforme con realismo e visione. Se vota contro non è perciò di certo per il merito. Per Bersani ed altri invece è più complesso. In loro pesa ancora l’originaria ispirazione culturale estranea ad ogni idea di democrazia competitiva e la troppo lunga pratica consociativa che per mezzo secolo assegnò stabilmente alla loro parte il monopolio dell’opposizione di governo».
Il 5 dicembre, comunque vada, il Pd sarà lacerato.
«Di certo si aprirà un confronto serio. Almeno è quello che in altri tempi sarebbe accaduto. Se la parola partito, che la minoranza ha pronunciato a lungo senza aggettivi e con la P maiuscola, ha ancora un senso, affrontare una prova nitidamente politica come quella presente su posizioni contrapposte, richiede un chiarimento definitivo».
Il fronte del No ha un progetto? Quale?
«Progetto è una parola grossa, ed anche linea. Direi piuttosto che sembra accomunato da una stessa pulsione quella che Maurice Duverger chiamò la nostalgia dell’impotenza. O, meglio, il ritorno a una gara a chi è il partito meno piccolo e grazie alla legge proporzionale alla spartizione del potere tra di loro nel disprezzo della potenza del Paese».
Molti accusano Renzi segretario di non essere stato abbastanza “inclusivo”. Hanno ragione?
«Se è all’inclusione dei singoli è un’accusa infondata. Pochi come Renzi hanno coinvolto persone senza guardare a passate posizioni politiche. All’opposto sta invece la chiusura e il contrasto del ritorno al riconoscimento delle cordate e componenti partitiche in quanto tali. Una linea che ha favorito quel mescolo che un partito che si diceva nuovo attendeva invano da tempo, ma nel contempo anche l’esercizio di una leadership esclusiva e solitaria».
Lei ha detto che voterà “Sì” in continuità con le tesi dell’Ulivo. Però Romano Prodi non si è pronunciato.
«Proprio perché in questo passaggio abbiamo avuto finora approcci diversi, debbo stare alla scelta da lui dichiarata in pubblico. Al suo desiderio di essere, almeno all’interno del Paese, null’altro che un cittadino privato, un cittadino ritornato normale. Uno che sente il dovere di votare e difende come privato il diritto di proteggere la segretezza del suo voto».
Da destra a sinistra, perfino nel Pd, si assiste a una spinta per un ritorno al proporzionale. Andremo in quella direzione?
«In caso di vittoria del No mi sembra inevitabile. Una vera sciagura che azzererebbe le faticose e incompiute conquiste di quest’ultimo quarto di secolo. Immagini cosa succederebbe se il masso che, con tanta fatica, abbiamo spinto verso la cima rotolasse d’improvviso all’indietro fino a travolgere la stabilità degli stessi governi locali, la prima conquistata in questa marcia infinita».
Renzi pare disposto a togliere il ballottaggio dall’Italicum per scongiurare una vittoria del M5S. Farebbe bene?
«Il ballottaggio è per me l’aspetto migliore dell’Italicum, quello che consente di sminuire i suoi gravi difetti e rinviare anche se solo per un momento la necessaria battaglia per correggerli. La sola idea che lo si tolga per paura di perdere con M5S sarebbe comunque il maggior regalo che si può fare a Grillo».
Se dovesse vincere il No, consiglierebbe a Renzi di restare o di dimettersi?
«Aspettiamo prima il voto. Manca solo una settimana. Il risultato cambierà il nostro modo di guardare al futuro. Tutto il resto ne verrà di conseguenza. Non è il caso di sfasciarsi né montarsi la testa prima del tempo».
Renzi ha commesso degli errori? Quali?
«La personalizzazione. Lo ripetono tutti. Lo riconosce anche lui. Ma non quella di intestarsi il risultato che è una conseguenza inevitabile, quella della quale fa ora ammenda. La personalizzazione della riforma come se fosse una sua invenzione solitaria e un affare personale, e l’iperpersonalizzazione della campagna che ne è stata una conferma. Io sono per il Sì più deciso che mai. Se è grazie alla sua giovinezza che siamo arrivati qua, con la sua ragazzaggine faremmo poca strada. Se il risultato fosse nelle mani dei suoi coetanei sarebbe già perduta. A stare ai sondaggi siamo nelle mani della tenuta delle pantere grigie, di quelli che come Checco Zalone non hanno scordato cosa fu al suo tramonto la Prima Repubblica e si preoccupano per i propri nipoti».
E l’Economist, che auspica una vittoria del No e il ritorno di un governo tecnico, può influire?
«Se potesse influire, dovrebbe essere a favore del Sì. Gli “economist” non sanno di che parlano. Tecnico significa solo che non è politico, uno che sa molto su poco, ma già di fronte a un semplice diverbio chiama i carabinieri. Capace di governare a breve quando il conflitto sociale è basso, non certo a lungo con un conflitto già alto».
Come giudica quello che sta avvenendo nel centrodestra?
«Un disastro. È questa la principale causa politica della crisi del nostro bipolarismo: della crescita impetuosa di M5S, della frammentazione crescente dell’intero quadro partitico, della stessa solitudine della guida renziana, priva di alternative all’interno e all’esterno. E per completare il disastro all’origine di questa nostalgia del proporzionale. Fin quando il centrodestra non ritornerà a coniugare i suoi tempi al futuro ognuno dei partiti che lo compongono preferirà accontentarsi della propria porzione impedendo la riapertura di una sfida reale per il governo».
Lei è un europeista. Ma questa Europa che, come ha detto Prodi, “raccoglie i naufraghi nel Mediterraneo” per poi “portarli tutti in Italia” ha senso?
«Preferirei dirmi un europeo federalista, uno che cerca l’unità del governo del mondo muovendo dal proprio comune senza saltare e senza fermarsi in nessuno dei passaggi intermedi. È il momento di riscoprire la grandezza dell’idea federalista lasciandoci alle spalle l’idea di uno Stato Unito di Europa non perché non ancora attuale, perché sbagliata».
Renzi attacca ogni giorno l’Europa. Fa bene?
«Fa bene quando attacca l’attuale costruzione europea da europeo, nell’interesse di tutti e, quindi, anche del nostro Paese. Non altrettanto quando sembra che l’attacco sia invece all’Europa a difesa dei nostri difetti più che a favore delle nostre virtù. Fortunatamente ha riconosciuto che non si può chiedere solidarietà mentre si ammaina alle proprie spalle la bandiera nel cui nome la si pretende.
L’immigrazione sta diventando il problema numero uno. La risposta del Pd è adeguata?
«L’immigrazione è il problema numero uno, quello che meglio riassume tutte le nostre contraddizioni. Se fosse il Pd il partito nel quale sono più evidenti sarebbe solo perché il Pd è al centro del cambiamento impegnato a governarlo e non solo ad agitarlo. La verità è che tutta la nostra società non dispone di un giudizio in qualche misura comune e, soprattutto, di un progetto conseguente. Viviamo alla giornata. Se fosse un’invasione potremmo provare a trattare con gli invasori. Ma è un’alluvione».