Si è occupato di questioni strategiche, essendo stato ministro di Difesa del governo Prodi II, ma Arturo Parisi, 75 anni, professore universitario, fondatore dell’Asinello e poi del Pd, è un uomo che ha sempre guardato con attenzione al quadro internazionale, anche lontano dalla emergenze come quella che stiamo vivendo.
E mentre ci parliamo, rimbalzano dal Mali le notizie di un nuovo attacco alla Francia e ai Francesi.
Domanda. Professore, sui fatti di Parigi, l’Europa mostra il suo lato debole: Francois Hollande ha riscosso manifestazioni di solidarietà e poco più.
Risposta. Altro che lato debole. Se parliamo dell’Unione Europea e non dei paesi europei che la compongono, diciamo pure semplicemente che l’Europa dimostra l’assenza di una spina dorsale.
D. Vuol dire che prevalgono i sentimenti di resa?
R. No. Non ho detto priva di spina dorsale, come quando si dice che ci mancano «gli attributi». Ho detto priva di «una» spina dorsale.
D. Ossia?
R. Perché appunto, in questo, sta la sovranità e la capacità di proporsi come un soggetto unitario nei rapporti con i soggetti esterni, nel campo della politica estera e di difesa: disporre di una spina dorsale. Disporre di uno scheletro che dia unità all’organismo e sostenga il corpo ogni giorno più pesante che descrive al momento la pretesa della nostra unità.
D. Ma non potrebbe essere appunto la sfida alla Francia l’occasione di un salto in avanti?
R. Potrebbe. Peccato tuttavia che dell’assenza di questa spina dorsale la Francia sia stata nel tempo la principale responsabile. Da quando, nel 1954, i gollisti alleati con i comunisti bocciarono la nascita della Comunità europea di Difesa fino al referendum che, nel 2005, disse no alla Costituzione Europea, passando per la scelta di dotarsi dell’arma nucleare a garanzia non tanto della propria autosufficienza ma del proprio primato. Certo, la sfida terrorista potrebbe proporsi come il nemico che ci unisce.
D. Appunto.
R. Ripeto: potrebbe. Nel canto orgoglioso della Marsigliese col quale la Francia ha denunciato e chiamato alla guerra ho tuttavia sentito più la voce del passato francese che quella del futuro europeo.
D. E dunque?
R. E dunque non vorrei che la sfida presente finisse non solo per evidenziare le nostre divisioni, ma addirittura per alimentarle. Ho paura che la tentazione degli altri paesi di fermarsi alla solidarietà formale vada di pari passo alla tentazione francese di fermarsi alla richiesta di comprensione sui vincoli economici, cedendo invece sul piano militare al richiamo egemonico della grandezza passata.
D. Che fare? Eterna domanda, buona anche per l’oggi. Di fronte all’appello francese dobbiamo dunque far finta di nulla?
R. L’opposto. È per questo che dobbiamo abbracciare stretti i Francesi. Condividendo con loro il contrasto della minaccia, dobbiamo aiutarli a difendersi dalla tentazione dell’egemonia solitaria. Nell’interesse nostro, loro e soprattutto dell’Unione.
D. Angela Merkel pare essere sparita. La Cancelliera. che ha stupito l’Europa sui profughi, generando anche problemi agli Stati che ne subivano la spinta, ora tace.
R. La Merkel è di certo una grande leader tedesca, ma purtroppo non ha ancora dimostrato di essere una leader europea.
D. Però…
R. Sì, proprio la conduzione della politica relativa alla immigrazione, troppo tedesca e troppo contradittoria, ne è una delle prove più evidenti. Lasciando perciò da parte la Merkel e guardando al paese Germania, il problema è che anche in questo caso il passato fa fatica a passare.
D. Eppure l’asse franco-tedesco sembrava il motore dell’Unione.
R. Questa è la prova che il motore dell’Unione può essere solo l’Unione. Fino a quando il futuro è pensato come somma di passati, è il passato che finisce per guidare la marcia. Soprattutto…
D. Soprattutto?
R. Soprattutto per le questioni che chiamano in causa la spada. Il passato di sangue che respinge i Tedeschi è lo stesso che attira i Francesi. È evidente che non possiamo continuare così. Con un motore diviso tra un gigante economico e un altro che si pensa ancora come un gigante politico, l’aereo Europa è continuamente a rischio di stallo.
D. E rischiamo di precipitare. Veniamo all’Italia, professore. Matteo Renzi non si è nascosto, ma, sulla Francia, ha sfoderato una cautela che ha sfiorato il terzismo.
R. È una cautela che interpreta da una parte il sentimento del Paese di fronte alla guerra e, dall’altra, la necessità di cercare e difendere, dentro un intrico di interessi nazionali, il filo degli interessi italiani evitando di finire al rimorchio degli interessi di altri.
D. C’è solo questo?
R. No, a questo si aggiunge la preoccupazione che, al posto di quel «pensare positivo» che ha costituito finora la cifra dominante della narrazione renziana, si sostituisca una congiuntura psicologica cupa. Questo per non parlare della sua cultura di fondo, che, per usare all’ingrosso categorie passate, potremmo definire fanfaniana all’interno, ma andreottiana all’esterno.
D. Ma l’atteggiamento del premier non è dettato anche dalla consapevolezza dei nostri limiti militari?
R. Diciamo, meglio, dalla consapevolezza diffusa nel paese. Una consapevolezza che, anche pensando al da fare è poco consapevole di quello che stiamo già facendo. E che l’affidabilità di un Paese, e noi in questo campo lo abbiamo e lo stiamo dimostrando, consiste nel mantenere gli impegni già presi e prendere gli impegni che si sa di poter mantenere.
D. Qual è dunque oggi il nostro impegno difronte alla sfida dello Stato islamico?
R. Se consideriamo l’ambito della sfida aperta in Iraq e in Siria dall’Is, nel momento in cui si è proposto come Califfato, dobbiamo riconoscere che la sua ambizione, la quale nella declinazione religiosa è per definizione illimitata, si è comunque già dispiegata ben oltre l’area dalla quale è partita. Diciamo che, anche se in una misura solo incipiente, la presenza dell’Is si è già manifestata nell’intero arco dei paesi che sotto l’acronimo «Mena» compongono il Medio oriente e il Nord Africa.
D. Quadro difficile.
R. Certo e considerando questo fronte, in modo «complessivo» le Forze Armate del nostro paese già oggi offrono alle operazioni multinazionali – me lo faccia scandire – un contributo che tra i paesi europei non ha rivali. Un contributo che, dal punto di vista quantitativo, ci vede presenti con migliaia di «scarponi sul terreno», e in prima fila anche per responsabilità di comando. Un contributo che dobbiamo innanzitutto consolidare. Lasciando questa volta da parte l’Afghanistan.
D. E perché professore?
R. Perché in quell’area la competizione tra Al Qaeda e Is può svilupparsi a nostre spese. Ma, dicevo, lasciando da una parte l’Afghanistan, basta considerare la missione Unifil, guidata da nostri comandanti e schierata in un’area come poche vicina alla Siria, che va surriscaldandosi ogni giorno di più. Senza considerare la Libia, dove la nostra attenzione e vigilanza contro la minaccia fondamentalista deve mantenersi allertata e preparata ad ogni evenienza.
D. Forse questi impegni sono più noti che conosciuti.
R. Di certo conosciuti e riconosciuti più a livello internazionale che da noi. Eppure il contributo che noi stiamo offrendo, mentre mette a disposizione della sicurezza internazionale risorse umane di primissimo piano, ci consente di disporre all’interno di un personale che grazie alla competenza ed esperienza affinata in anni di missione nell’area sanno di che cosa stiamo parlando.
D. A chi pensa?
R. Penso certo ai comandanti, a cominciare dagli attuali vertici militari, con curricula internazionali sperimentati, ma anche alla qualità delle truppe che dobbiamo difendere come un patrimonio prezioso. Forse i nostri concittadini non sanno che, a differenza di altri Paesi, tra i nostri «volontari in ferma prefissata», il tasso di diplomati e laureati è in molte unità prossimo al 100%».
D. Possiamo fare di più?
R. Certo. Ma non solo nella dimensione più propriamente «combat». La difesa della sicurezza, all’esterno come all’interno, chiama in causa competenze e dimensioni sempre più ampie, dalla finanza alla logistica alle comunicazioni, che debbono essere potenziate coordinate e concentrate contro la minaccia in modo chirugico.
D. E quindi?
R. Quindi, oltre e direi prima che di chiarezza e deteminazione negli obiettivi e di risorse materiali da mobilitare per il loro perseguimento, noi abbiamo bisogno di una consapevolezza condivisa e di un consenso che nell’Occidente sta venendo meno dovunque ma in pochi paesi come nel nostro. Quali impegni potremmo mai aggiungere ai tanti già presi in un paese nel quale una quota, forse maggioritaria, della popolazione pensa e si comporta come se la guerra fosse uscita dalla storia, ed ogni euro speso per la Difesa è un euro sprecato?
D. Come si contrasta questo sentimento?
R. Questo è appunto il compito dei politici e della politica. Spiegare ai cittadini perchè questa convinzione che si è andata diffondendo purtroppo non è vera.
D. Quali ne sono le cause?
R. Sono altre, sono molte e sono remote. Ma che ci sono momenti nei quali la priorità è fermare la violenza e contrastare la minaccia incombente a tutti i costi. E che, per fermare la minaccia dobbiamo essere forti e uniti, i più forti possibili e i più uniti possibili. Perchè è la sfida dei deboli che sfocia in violenza scomposta. Ecco a cosa serve la difesa europea. Dire che la guerra purtroppo non è uscita dalla storia è la premessa per cambiare di segno la cultura politica che domina il paese nel campo della difesa, ma non basta.
D. Cos’altro ci vuole?
R. Immediatamente dopo i cittadini vanno rassicurati, con autorevolezza, che dietro l’attuale drammatico spasmo, del suo sviluppo, e della sua permanenza, non c’è in alcun modo la nostra mano o calcoli e interessi di nostri alleati. Non vede la sera, in tv, le verità, le analisi e i dibattiti che vanno alimentando ogni giorno di più lo sconcerto e il disorientamento?
D. Vero. Che cosa la preoccupa di più?
R. Non vorrei che al superficiale pacifismo di massa che ha dominato finora il sentimento comune si sostituisse pian piano un radicato scetticismo e cinismo di massa. Sarebbe la fine.