Arturo Parisi, 65 anni, ministro della Difesa, è uno dei pochissimi che, elmetto in testa, non ha mai abbandonato la trincea del Partito democratico. Sarà perché l’Ulivo è un’idea sua. O perché è difficile pensarlo in un partito nonostante di partiti ne abbia fondati due :Democratici e La Margherita. Ma mentre gli alleati del centrosinistra da un decennio sparano scadenze e poi nascondono il fucile, promettono accelerazioni e poi all’improvviso tirano il freno a mano, Parisi se ne sta lì acquattato e con sardissima testardaggine non cede di un passo: il partito si farà, anche se ha le spalle strette.
Ministro, lei quando pensa che finirà questo balletto democratico?
“Ho sempre usato con cautela il termine partito, ma è stato ritirato fuori recentemente da Francesco Rutelli e quindi…”
Quindi?
“Il dibattito non può durare troppo”.
Una data.
“Entro la fine della legislatura dobbiamo trovare una soluzione”.
Traduco: al massimo nel 2011 ci sarà un partito democratico.
“Al massimo nel 2011 dovremo chiudere la vicenda. Abbiamo un gruppo unico alla Camera e al Senato. Per tre volte Ds e Margherita si sono presentati uniti sotto lo stesso simbolo alle elezioni. Entro le prossime politiche dobbiamo fare un passo in più: il partito”.
Tutti d’accordo?
“Per rispetto del travaglio altrui, pur impaziente nel partire sono sempre stato paziente nell’arrivare. Invece mi trovo di fronte a persone che preferiscono parlare dell’arrivo, purché questo consenta di rimandare la partenza”.
Parliamo di molti ex popolari e di molti diessini.
“Io a questo obiettivo ci lavoro da 17 anni. E dal 1999 ho messo nero su bianco: l’Ulivo sarebbe dovuto diventare il partito democratico. Il problema è che la distinzione tra chi vede l’Ulivo come un cartello di partiti e chi, come me, lo vede come un soggetto unitario, è ancora forte”.
Massimo D’Alema nel 1998 a Gargonza disse: “L’Ulivo non esiste”. Ora sembra un fan del partito democratico. E durante il dibattito deiDs al Teatro Eliseo ha dichiarato che è in corso una battaglia di egemonia.
“Se intendeva come io credo una battaglia per l’egemonia di una linea è la normalità della lotta politica. Se avesse inteso l’egemonia di un partito sull’altro, sarebbe allora molto più che è un passo indietro”.
Giuseppe Fioroni, della Margherita, attuale ministro dell’Istruzione una volta ha detto: “Il partito dell’Ulivo? Non è un sogno,,, E’ un incubo”.
“E’ sicuramente una frase preistorica. Oggi è in nome di quell’incubo che siediamo al Governo”.
Un altro suo collega della Margherita, Pierluigi Castagnetti sostiene che ci sono alcuni temi (come i Pacs o la fecondazione assistita) su cui Ds e Margherita hanno opinioni troppo diverse per creare un partito unitario.
“Se questi sono problemi che riguardano il governo del Paese la loro soluzione non può che essere una soluzione unitaria. Se il partito vuole essere il baricentro del governo, di questa unitarietà deve farsi carico”.
Se dovesse pensare a un candidato premier del partito democratico nel 2011 che nome farebbe? Veltroni, D’Alema e Rutelli, Enrico Letta e Renato Soru hanno titolo di rappresentare la coalizione?
“Certamente. Ma perché limitarsi solo a questi nomi”?
Ha in mente altri nomi?
“Non è mio compito lanciare candidature. Quello che mi piacerebbe è che qualcuno alzasse la mano e dicesse: ho un’idea per il futuro del Paese, chiedo il vostro sostegno per realizzarla. Mi piacerebbe che fosse una donna”.
A proposito. Nel 2004 lei parlò di un Ulivo femmina e auspicò un en plein di capilista in gonnella. L’Ulivo al governo però alle donne ha riservato solo 5 ministeri su 26.
“E’ l’effetto del combinato tra la frammentazione a cui ci ha portato la legge elettorale e il maschilismo dei partiti”.
E i 102 posti di governo, di chi sono colpa?
“In gran parte della legge elettorale”.
Troppo facile. L’Unione batte tutti i record come numero di ministri e sottosegretari ed è colpa di Berlusconi.
“Diciamo che avremmo potuto resistere di più al meccanismo della spartizione. Questa volta la legge elettorale lo ha certamente ingigantito”.
Un ministro in difesa, più che un ministro della Difesa.
“Diciamo un ministro in libertà vigilata. Le mie abitudini sono improvvisamente cambiate. Approfittando del fatto che non avevo neppure la patente prima giravo in treno o in autobus. Passeggiavo curiosando per la città. A causa delle ragioni di sicurezza tutto questo sembra ora interrotto”.
Basterebbe dimettersi.
“No, purtroppo, non basta neppure questo. A causa delle norme vigenti la scorta sarebbe chiamata a garantire la sicurezza del ministro per tre anni anche dopo le dimissioni”.
Un incubo. Da quando è arrivato nel ministero di via XX settembre è spuntata una sua formazione giovanile militaresca.
“Ne ho sempre parlato. Mio padre era un nel Corpo Forestale. Un tecnico in divisa. Dal comò continua a guardarmi nella foto che lo ritrae da ufficiale di fanteria”.
Ha avuto un’educazione marziale?
“Marziale non direi. Ma la morte di mio padre durante la guerra segnò profondamente il clima e i valori della mia formazione”.
Il servizio militare l’ha fatto?
“Se intende il servizio di leva non l’ho fatto perché esonerato come orfano di guerra, ahimè a cinque anni mi sono trovato tra capo e collo la promozione a capo famiglia che ancora mi pesa”.
Questo non le ha impedito di frequentare la Scuola militare della Nunziatella.Dica la verità l’hanno spedita lì perché era troppo vivace.
” La Nunziatella fu una mia scelta. Ma… sì, ero un ragazzo problematico”.
Arturino l’attaccabrighe?
“Ricordo due fughe drammatiche da casa e qualche episodio di devianza”.
Devianza?
“Forse qualche rissa, qualche furto campestre. Cose sulle quali oggi mi viene da ridere. Ma che testimoniano certo una qualche selvatichezza”.
Nell’annuario della Nunziatella la prima parola che compare sul suo profilo è “Ahio-lla-baga’…”.
“Una esortazione colorita in sassarese che usavo allora come intercalare”.
Sull’annuario c’è anche scritto che lei era un acceso socialista cattolico.
“Una definizione dell’estensore dell’annuario, il mio compagno di letto a castello. Io avrei scritto socialista “e” cattolico”.
A proposito. L’adolescenza inquieta si concilia poco con un’altra immagine che i giornali hanno dato spesso della sua infanzia: il piccolo Arturo, chierichetto della parrocchia di Don Masia a Sassari.
“Per quanto possa apparire sorprendente il mio impegno da cattolico praticante nasce come una scelta personale nel periodo della Nunziatella”.
Ma è vero che frequentavano la stessa chiesa anche Francesco Cossiga, Mario Segni, Luigi Manconi e la famiglia Berlinguer?
“Intorno a quello che noi chiamavano allora dottor Masia, come in tutte le parrocchie, c’era una comunità”.
Cossiga racconta che a quei tempi la portava sulle ginocchia.
“Un’immagine improbabile del tempo della mia infanzia. Quello che è vero che frequentavamo una casa di amici comuni”.
E lui la chiamava Altullo.
“E’ un suo ricordo solitario”.
Più recentemente i dalemiani le hanno attribuito un altro nomignolo: il Negus. Per la sua somiglianza con l’etiope Heila Selassiè. Lei ha pure detto che il paragone non la turbava.
“Mi hanno chiamato pure Ali il Chimico. Negus però in fondo mi piaceva: era considerato dal suo popolo l’espressione della resistenza al colonialismo.
Che combatteva contro l’esercito italiano. Torniamo alla Sassari anni Cinquanta. Lei era coetaneo di Mario Segni, l’ex leader referendario.
“Condividemmo un’amicizia elettiva: lui era a capo della Giac sassarese (i giovani dell’Azione cattolica) e io guidavo il partitino degli universitari cattolici, la Nuova Intesa. Per qualche anno vivemmo praticamente insieme. Politica e azione cattolica, azione cattolica e politica”.
Chissà che divertimento. Di donne non se ne parlava?
“Diciamo che quello con le ragazze era certo un impegno secondario. Assolutamente secondario. Rigorosamente affidato al senso della vista e dell’udito”.
Poca roba, insomma.
“Pochissima. Tra noi e le fanciulle c’era allora una distanza di sicurezza che oggi è inconcepibile”.
All’inizio degli anni Sessanta lei divenne dirigente nazionale della Giac.
” Erano gli anni del Concilio. A capo dell’Ac c’era Vittorio Bachelet. Anni segnati dall’ossessione della distinzione tra il piano politico da quello religioso”.
E’ vero che lei in quel periodo cercò di stoppare il rampantismo di Clemente Mastella?
“Ma non scherziamo. Clemente era allora un dirigente di una diocesi nella quale la contiguità tra Azione cattolica e Democrazia cristiana forse allora poteva apparire a noi eccessiva”.
Il Sessantotto Parisi dove lo fece?
“Di età ero più grande dei veri e propri sessantottini. Ma come dirigente di una organizzazione giovanile avevo un rapporto anche con quei ragazzi. Ero a Milano”.
A Milano allora si gridava: “A noi piace il pensiero / di Capanna e di Cafiero…”.
“Ricordo sia Mario Capanna, sia Manconi, che a Sassari era mio vicino di casa. Io stavo alla Statale e cominciavo in quegli anni la mia carriera accademica con il professor Alessandro Pizzorno: nel gruppo c’erano anche Laura Balbo, ex ministro delle Pari opportunità, Michele Salvati e Bianca Beccalli”.
Non ha mai pensato di entrare in una delle formazioni extraparlamentari.
“A Bologna partecipavo ai dibattiti. Quello del Manifesto mi sembrava il gruppo più maturo”.
E’ vero che del Manifesto lei fu anche “diffusore”?
“No, sono solo stato tra i primi abbonati. Ricordo ancora quegli articoli di due paginate: ci voleva una pausa spuntino per finirli”.
A Bologna Parisi comincia un ventennio di studio matto e disperatissimo. Fa la spola tra l’Università, l’Istituto Cattaneo e Il Mulino. Conosce Romano Prodi. In quel periodo collaboraad un programma in Rai. Insieme con Roberto Ruffilli è autore di un programma sui 30 anni della Costituzione. La speaker è Flavia Franzoni, moglie di Prodi e Parisi tra le altre cose sceglie le musiche: Guccini, De Gregori, De André, Bennato. Nel 1989 si unisce a Segni nella battaglia referendaria. Rimane con lui per quattro anni. Fino a quando nel 1993 Mariotto rifiuta di accordarsi con il Pds.
“La biografia di Segni gli impediva un passo che invece la storia rendeva obbligatorio. Io invece sono sempre stato per il superamento delle barriere tra laici e cattolici e di quelle tra comunisti e anticomunisti”.
Tanto che nel 1995 inventò l’Ulivo. E’ vero che l’idea le venne alla fine di una messa.
“Quello che ricordo è che era la prima domenica di febbraio”.
Paura che l’Ulivo risulti un’idea che viene da un’ ispirazione divina?
“Al contrario. E’ perché dovrei testimoniare che non seguivo la messa con la dovuta attenzione”.
Già. Nel 1999, un anno dopo l’arcidiscussa caduta del governo Prodi, Parisi viene eletto deputato, durante le suppletive del collegio Bologna 12.
“Ricordo come fosse ieri il mio primo giorno a Montecitorio. A un certo punto vidi Berlusconi attraversare l’Aula. Mi fece i complimenti e poi, a sorpresa, mi disse che avremmo dovuto unire le forze dei moderati. Moderati? Forse non gli era chiaro quanto diverso fosse il nostro orientamento politico”.
Forse. Fatto sta che oggi l’azzurro Giulio Tremonti ripropone una Grossa Coalizione delle forze moderate. Non solo. Enrico Letta ha detto che bisogna allargare i confini dell’alleanza perché non si può fare sempre affidamento sui senatori a vita.
” Concordo sul fatto che in politica estera sarebbe utile una convergenza che va oltre i perimetri della maggioranza, ma…
Ma?
“Se la maggioranza dimostrasse di non saper dare prova di unità e capacità di governo, sarebbe inevitabile ripensare la nostra proposta davanti agli elettori”.
Come vive il fatto che nell’Unione ci sono persone che abolirebbero volentieri il suo ministero. Una parte degli italiani non ha un buon rapporto con le forze armate.
“Vivo come un adulto in mezzo ai bambini. Ho sentito qualcuno dire che non si può inviare in una missione di pace un aereo da ricognizione che si chiama Predator”.
E’ stata la verdeTtana De Zulueta.
“Beh, sarebbe come preferire i Carabinieri alla Polizia perché i primi hanno le Gazzelle e i secondi le Pantere. La mia principale preoccupazione è che gli italiani capiscano a che cosa serve la Difesa e qual è il ruolo delle Forze Armate”.
Addirittura. Guardi che Gino Strada, amatissimo leader di Emergency, che lei ha incontrato a Kabul, ha detto che lui brinderebbe alla caduta di un governo sulla guerra.
“Quel che mi dispiace è che Gino Strada pensi che l’attuale governo e quello talebano la differenza sia irrilevante. Ma governare vuol dire anche saper scegliere tra il bene e il meglio così come tra il male e il peggio”.
Fausto Bertinotti e Rifondazione Comunista invece sembrano averlo capito.
“Sono consapevoli della responsabilità di governo”.
E’ vero che la pacificazione tra Prodi e Bertinotti è passata attraverso molti incontri tra lei e il Comandante Fausto nella sede del Prc?
“E’ vero che abbiamo parlato molto. Siamo coetanei e abbiamo molti riferimenti culturali comuni”.
Tra questi c’è il socialista Riccardo Lombardi. Lombardiano Bertinotti e appassionato di Lombardi, Arturo Parisi. Ministro, ma lei prima di inventarsi un partito da votare dove metteva la X?
“Ho votato di tutto. La sinistra Dc, il Psi, il Psiup, il Pci. Nel 1972 votai il Movimento politico dei lavoratori”.
Quello del presidente delle Acli, Livio Labor, molto poco amato dalla Conferenza episcopale?
“Si.Proprio quello”.