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10 Settembre 2008

Parisi: in America chi perde va a casa. E’ una soluzione non una punizione

Autore: Arturo Parisi

«Se io sono uno scioglipartiti, mi viene da rispondere che questo è un terreno sul quale Veltroni mi batte: in pochi mesi ha sciolto il governo, la coalizione, la sinistra. Non a caso l’elettorato di destra voleva farlo “santo subito”». Febbricitante ma sempre pugnace, Arturo Parisi è tornato per gli ultimi giorni di vacanza in Sardegna, a Sassari, dopo aver sollevato col suo duro intervento alla Festa nazionale del Pd a Firenze una girandola di polemiche e di voci sui piani di scissione degli ulivisti doc. Parisi è pronto ad andarsene? Alle europee correrà un Asinello bis o un Ulivo bonsai come ironizza Beppe Fioroni? «Forse qualcuno se lo augura. Ma questo partito è casa mia, io non me ne vado, mi devono cacciare», risponde il professore. Il quale, prima di spiegare al Riformista le sue idee per il rilancio del Pd, ci tiene a ribattere su un paio di questioni in sospeso: «Con una certa dose di vigliaccheria hanno spacciato per apprezzamento di Berlusconi quella che era ahimè una valutazione politica. Nel tragitto verso una democrazia governante, un bipolarismo a vocazione bipartitica, Berlusconi ha saputo proseguire il suo cammino a dispetto delle difficoltà, noi invece al primo intoppo torniamo sempre indietro: è successo nel 1998, nel 2000, sta accadendo di nuovo oggi. Se non riconoscessimo la sua bravura dovremmo ammettere che noi siamo degli incapaci.». Parisi non ritiene di aver offeso nessuno con questo giudizio, tantomeno «il popolo del Pd», come gli ha rimproverato Veltroni: «Dopo avermi paragonato a Trotsky, mi hanno additato a nemico del popolo, una prassi tipicamente stalinista. Non male per uno che dice di non essere mai stato comunista. Franceschini mi accusa invece di “tirare calci sugli stinchi”. Può capitare, come capita anche gli asinelli più pacifici quando qualcuno cerca di distoglierli a forza dal loro sentiero». Che naturalmente è il sentiero ulivista. E per imboccarlo di nuovo l’ex ministro della Difesa è pronto a candidarsi alle prossime primarie per la leadership democratica: «Lo farò, ma a una condizione, che non siano primarie truccate come le ultime, dove un caminetto decide a priori chi investire del potere e poi imbastisce la finzione del voto».

«Quando si invoca la lezione americana, bisogna aver il coraggio di seguirla fino in fondo. Non è tollerabile che dagli Stati Uniti si copino le formule, e in tempo reale persino gli slogan, ma poi ci si fermi davanti alla sostanza del modello americano, che è la democrazia competitiva. Da noi si preferisce invece sempre la consociazione, tra i partiti e ancor più dentro i partiti. Io spero che alle prossime primarie del Pd i candidati si facciano avanti alzando la mano, senza accordi preventivi, e avanzando la loro idea di paese prima che di partito. Vorrei primarie in cui alla fine può vincere un candidato sfavorito come Obama mentre una candidata sconfitta come Hillary si fa da parte, invece di finire cooptata come vice nel ticket per questione di equilibri di potere. E vorrei ricordare che negli Usa il leader sconfitto fa un passo indietro, come ha fatto persino Al Gore dopo una sconfitta più apparente che reale. Quando prima delle ultime primarie ho fatto presente che non si trattava di una consultazione vera, che si erano truccate le regole in partenza, Fassino mi ha risposto che non era possibile “fare le foche al circo” solo per accontentarmi».

D’altra parte è anche vero che, se nessuno si fa avanti apertamente per contendere a Veltroni la leadership questo non può essere certo imputato all’ex sindaco di Roma. Cosa dovrebbe fare, inventarsi un antagonista? «Questo è vero solo in parte. Ma il problema è più profondo. Quando sento dire da Franceschini che un’alternativa non è possibile perché Veltroni si è intestato tutte le risposte a tutte le domande, penso che questa è insieme una difesa e un’accusa, perché conferma che la cifra ultima del veltronismo è il “ma-anchismo”, che accontenta tutti e nessuno».

Parisi avrebbe volentieri anticipato all’autunno il dibattito congressuale e un chiarimento sulle linee di fondo, che a suo giudizio, in estrema sintesi, sono: ruolo dell’Italia nel mondo, unità nazionale messa a rischio dal federalismo, modello di governo (dove l’alternativa parisiana di fondo resta quella classica ulivista: governo scelto dai cittadini vs. governo partitocratico). «Ma mi addolora constatare che nella vera agenda politica del Pd sono presenti solo due date, il giorno delle elezioni europee e il giorno dopo. A questo punto tutti si sono ormai rassegnati a rinviare a giugno 2009 il momento per affrontare la crisi. Ma in questo modo non solo si trasformano le europee in un surrogato di elezioni nazionali, ma adirittura di un congresso di partito, e si affida tutto alla magia di un numero. Oggi infatti l’unico vero dibattito rischia di vertere su quale sia la percentuale sotto la quale si può parlare di sconfitta del Pd. Ma questa non è politica, questa è democrazia della superstizione. Mi ricorda gli aruspici che per decidere di torti e ragioni s’affidavano al volo degli uccelli o alla lettura delle viscere degli animali. Solo questo spiega il Veltroni che mette le mani avanti denunciando nientemeno che come “bulimia”, le critiche di chi non s’accontenta di un Pd al 30 per cento. Come se in un sistema bipolare, quale ancora siamo, non servisse arrivare al 50 per cento per vincere…».

Il problema è che per raggiungere la maggioranza servono alleati, anche quelli più scomodi della sinistra radicale. E a ricercare i vecchi soci dell’Unione c’è il rischio di dar ragione a chi dice che Parisi è nostalgico di Diliberto. «Io sono nostalgico del confronto anche se faticoso, in nome di un dovere, prima ancora che di un piacere. Una fatica, che da ministro della difesa ho pagato in prima persona, spazzata via dalla fretta e dall’impazienza del volontarismo. Se poi vogliamo entrare nel merito, dico che Ferrero era un grande ministro e che il ministro indicato da Diliberto (Bianchi, <+cors>ndr<+tondo>) era tanto estremista che è entrato nel Pd».

Anche su Di Pietro Parisi ha idee diverse dalla maggior parte dei colleghi: «Sarò alla raccolta di firme per il referendum contro il lodo Alfano. Certo, è una battaglia che ha un’alta probabilità di essere perduta, ma una battaglia che va combattuta. Esattamente come abbiamo fatto quando all’inizio di agosto siamo tornati in Parlamento dalle vacanze per l’ultimo voto di fiducia, l’ho fatto, anche se non c’erano dubbi sull’esito. Essere opposizione comporta regole e doveri».

Infine, siccome Parisi non sarebbe Parisi se non annunciasse i prossimi «sfracelli», come dice lui stesso con una buona dose d’autoironia, ecco i prossimi due fronti che il sociologo è pronto ad aprire: «Altro che calci sugli stinchi, se alle europee si introducono le liste bloccate sono pronto a entrare a gamba tesa. Ma come! Si chiacchiera da mesi sul fatto che il Porcellum ha espropriato i cittadini della possibilità di scegliere i propri rappresentanti e poi si copia la legge anche per l’Europa? Io non sono certo un amante delle preferenze, ma questo è troppo… E sono contrario pure alla soglia di sbarramento usata come una ghigliottina. Lo capirei se fosse in gioco la governabilità del governo europeo. Ma la funzione del Parlamento europeo è innanzitutto la rappresentanza». Altro nodo è il federalismo: «Mi auguro che al tavolo della riforma si faccia chiarezza, perché qui sta passando sotto silenzio il fatto che il 2011, invece di ricordare i 150 anni dell’Unità rischiamo di celebrarne la fine. E mi chiedo come possa accettarlo un partito che per sottolineare la propria vocazione nazionale ha scelto fino nel simbolo di portare i colori della bandiera della Repubblica».