ROMA — L’Occidente può stare in Afghanistan con due missioni militari che divergono per modalità d’intervento e ipotesi da cui muovono? Secondo Arturo Parisi è venuto il momento di affrontare il problema. Quell‘Occidente doppio, e tutto sommato un po’ schizofrenico, da una parte struttura attraverso l’Alleanza atlantica
«Ci sono due interventi militari diversi per modalità e per ipotesi da cui muovono. Ritengo che in sede Isaf, cioè Nato, questo punto dovrà essere messo a fuoco. Già nella prossima riunione», dice il ministro della Difesa. E lo dice con la dovuta cautela perché la questione è spinosissima. Da tempo la diversità tra i due interventi occidentali è fonte di incomprensioni, per usare un eufemismo, tra gli anglosassoni e gli altri europei. I primi vorrebbero che i secondi partecipino ai combattimenti nel sud, accettando rischi e perdite. Ma gli europei non sono affatto convinti che la tradizionale muscolarità americana sia la soluzione: anzi da tempo sospettano che sia un problema.
Riuscirà il prossimo summit della Nato a trovare un compromesso, a riportare a unità quell’Occidente diviso? Non ne saremmo sicuri. La diversità è già nelle premesse che orientano le due missioni. Gli uni conducono una guerra, per gli americani “guerra al terrorismo”; gli altri sono li per aiutare il governo afgano a consolidarsi. Se non si tiene a mente questa differenza “culturale“ risulta leziosa la questione lessicale che Parisi pone in questa intervista: per favore, non chiamiamola guerra. Sia perché quel che sta accadendo nell’Afghanistan occidentale, la nostra area di pertinenza, è un’altra cosa.
Sia perché, «lo dico soprattutto a chi ha a cuore la pace, dire guerra rischia di chiamare alla guerra, all’uso crescente di mezzi e di metodi di guerra: e talvolta per questo solo fatto, di produrla».
Si spara, mandiamo soldati, blindati, unità d’elite: non è guerra? Non chiudiamoci dentro una parola, ribatte Parisi. Innanzitutto, «non tutte le forme di esercizio della violenza sono guerra. Non definiamo “guerra” l’uso della forza legittima che ogni Stato è chiamato ad esercitare nel suo territorio per difendere la sicurezza, in genere da solo ma nel caso dell‘Afghanistan con l’assistenza dell’Isaf, appunto “Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza”». Inoltre in Afghanistan «la guerra c’è stata e può tornare, come probabilmente è nelle intenzioni di alcuni aggressori, ma oggi stiamo affrontando qualcosa di diverso. Non una guerra, semmai una situazione oggettivamente pericolosa che ci chiama ad un intervento militare commisurato al pericolo».
Allora cerchiamo di dare un volto al pericolo: chi sono i Taliban? Sono un altro equivoco, risponde in sostanza Parisi. Quelli che chiamiamo “i Taliban”, dice il ministro della Difesa, in realtà sono «gruppi armati di natura diversa, non riconducibili ad un unico centro organizzato riconoscibile». Anche per questo i pericoli variano per tipo e per intensità da zona a zona.
Così anche nella nostra area di competenza, le province di Herat, Badghis, Ghor c Farah. «Ad Herat la situazione è ragionevolmente tranquilla e la popolazione piuttosto aperta nei confronti degli stranieri ingenerale. Altri distretti sono decisamente più problematici. Soprattutto perché scontano un lunghissimo isolamento, determinato dalla virtuale assenza di infrastrutture di comunicazione. In alcuni casi ci troviamo di fronte a realtà premoderne, in cui la conflittualità fra tribù è tuttora il principale elemento di instabilità».A questo quadro già caotico «bisogna aggiungere la particolare complessità etnica dell’intera Regione occidentale (dove opera il contingente italiano).
Non meno di quattro gruppi etnici principali condividono le stesse terre, divisi da invisibili demarcazioni che nel corso dei secoli raramente sono state definite in maniera pacifica». Insomma quelle terre sono instabili dalla notte dei tempi, dice Parisi. E lo sono oggi ancora di più perché «possono sommarsi altri elementi, qua-li lo spostamento di gruppi di trafficanti e l‘infiltrazione di gruppi armati con finalità essenzialmente politiche – quelli che comune-mente vengono definiti i Taliban».
Invece Parisi non vede, al momento, un rischio-Iran. Nella nostra zona di pertinenza l‘influenza persiana è forte: non pochi temono che la “crisi degli ostaggi”, i marinai britannici prigionieri a Teheran, si riverberi anche sull‘Afghanistan. Ma al ministro della Difesa non risulta che nel settore italiano, appunto al confine con I’Iran, i livelli di sicurezza, odi insicurezza, siano peggiorati.
«Ovviamente ogni evento internazionale pub influire in positivo o in negativo. Però allo stato i rapporti fra Kabul e Teheran sono non conflittuali, e questo costituisce la migliore garanzia di sicurezza su cui possiamo contare». Inoltre Parisi confida negli effetti virtuosi che potrebbe produrre l’idea italiana di una Conferenza internazionale. «Come ha detto D’Atema all’Onu la nostra proposta è pensata come uno stimolo ulteriore per imbastire un dialogo fra tutti i legittimi attori della regione e della comunità internazionale». Però anche qui il peso del passato è schiacciante: «Alcuni di quegli attori regionali sono coinvolti in dispute bilaterali che durano da alcuni decenni», dunque hanno difficoltà a dialogare con gli avversari.
Considerando tutto questo come si può sperare che da qui a12011 sia possibile stabilizzare una nazione così caotica? «Non è questione di speranze, ma di scadenze. Come stabilito nel 2006 dalla Conferenza di Londra comunità internazionale e governo afgano hanno preso impegni precisi, inclusa una verifica (nel febbraio del 2011) dei progressi fatti entro il 2010. Gli elementi che mi ha messo a disposizione in febbraio ministro della Difesa afgano alimentano attese positive.
Per esempio, il ritmo col quale sono ricostruiti l’esercito nazionale e la polizia afgana. Lascia supporre che gli obiettivi prefissati possano essere raggiunti entro le scadenze previste, che ci auguriamo possano essere in più punti anticipate. Negli ultimi mesi l’esercito ha ampliato di molto la sua capacità di operare solo con un sup-porto esterno da parte dell’Isaf.
Quanto alla polizia, organici ed equipaggiamenti sono ancora carenti ma è probabile che l‘Unione Europea interverrà per potenziarli. Ovviamente forze armate e polizia più efficienti non basteranno a fare dell’Afghanistan un Paese completamente sicuro. Ma dopo aver raggiunto quell’obiettivo, la comunità internazionale potrà concentrarsi su altri settori della ricostruzione. E la componente militare internazionale potrà ridursi progressivamente».
Nel frattempo però non sono in corso riduzioni, ma potenziamenti. Di recente, racconta Parisi, abbiamo mandato al nostro contingente veicoli antimina appena acquistati. «E proprio uno di questi nuovi mezzi ha salvato pochi giorni fa la vita a cinque nostri militari». Calibrare ai rischi l’armamento dei contingenti italiani, spiega Parisi, è una priorità del governo.
Il problema è che la dotazione delle Forze armate oggi sconta quanto è accaduto negli anni passati: «Malgrado i reiterati allarmi di Martino, gli stanziamenti per la Difesa sono stati decurtati oltre ogni ragionevolezza (dal governo Berlusconi), con il risultato di rendere impossibile l’acquisizione di nuovi mezzi olamanutenzione di quelli esistenti. Poiché nell’ultima finanziaria abbiamo ripristinato un livello minimo di fondi, l’acquisizione è ripartita. E tuttavia siamo stati criticati con durezza per questo!».
Benché le prove offerte da questo parlamento non lo autorizzino a sperare, Parisi resta convinto che l’Italia possa discutere seriamente d’una politica di difesa. Lo richiede questo tumultuoso sovrapporsi di crisi a crisi che sempre più chiama l’Europa a svolgere un ruolo nel mondo e l’Italia nell’Europa. E lo vuole un obbligo morale. «In Afghanistan abbiamo perso nove soldati. Ciascuno di loro è morto nel nome dell’Italia. E l’Italia deve riflettere intorno a quella vita».