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1 Aprile 2007

Parisi: “In Afghanistan due missioni con volti regole troppo diversi”

Parla il ministro della Difesa: quella degli italiani non è una guerra ma è una situazione a rischio
Autore: Guido Rampoldi
Fonte: la Repubblica

ROMA — L’Occidente può stare in Afghanistan con due missioni mili­tari che divergono per modalità d’intervento e ipotesi da cui muo­vono? Secondo Arturo Parisi è ve­nuto il momento di affrontare il problema. QuellOccidente dop­pio, e tutto sommato un po’ schi­zofrenico, da una parte struttura attraverso l’Alleanza atlantica la missione Isaf, cui partecipa anche l’Italia; ma nel sud è presente in un’altra forma, con i contingenti anglosassoni e l’olandese. En­trambi questi Occidenti sono legit­timati da risoluzioni delle Nazioni Unite: ma ciascuno ha la sua filoso­fia d’intervento e le sue regole.

«Ci sono due interventi militari diversi per modalità e per ipotesi da cui muovono. Ritengo che in sede Isaf, cioè Nato, questo punto dovrà essere messo a fuoco. Già nella pros­sima riunione», dice il ministro della Difesa. E lo dice con la dovuta cautela perché la questione è spi­nosissima. Da tempo la diversità tra i due interventi occidentali è fonte di incomprensioni, per usare un eufemismo, tra gli anglosassoni e gli altri europei. I primi vorrebbero che i secondi partecipino ai combattimenti nel sud, accettan­do rischi e perdite. Ma gli europei non sono affatto convinti che la tradizionale muscolarità america­na sia la soluzione: anzi da tempo sospettano che sia un problema.


Riuscirà il prossimo summit della Nato a trovare un compromesso, a riportare a unità quell’Occidente diviso? Non ne saremmo sicuri. La diversità è già nelle premesse che orientano le due missioni. Gli uni conducono una guerra, per gli americani “guerra al terrorismo”; gli altri sono li per aiutare il gover­no afgano a consolidarsi. Se non si tiene a mente questa differenza “culturale risulta leziosa la questione lessicale che Parisi pone in questa intervista: per favore, non chiamiamola guerra. Sia perché quel che sta accadendo nell’Afghanistan occidentale, la nostra area di pertinenza, è un’altra cosa.


Sia perché, «lo dico soprattutto a chi ha a cuore la pace, dire guerra rischia di chiamare alla guerra, all’uso crescente di mezzi e di meto­di di guerra: e talvolta per questo solo fatto, di produrla».


Si spara, mandiamo soldati, blindati, unità d’elite: non è guer­ra? Non chiudiamoci dentro una parola, ribatte Parisi. Innanzitutto, «non tutte le forme di esercizio della violenza sono guerra. Non defi­niamo “guerra” l’uso della forza le­gittima che ogni Stato è chiamato ad esercitare nel suo territorio per difendere la sicurezza, in genere da solo ma nel caso dellAfghanistan con l’assistenza dell’Isaf, appunto “Forza Internazionale di Assisten­za alla Sicurezza”». Inoltre in Af­ghanistan «la guerra c’è stata e può tornare, come probabilmente è nelle intenzioni di alcuni aggresso­ri, ma oggi stiamo affrontando qualcosa di diverso. Non una guer­ra, semmai una situazione oggetti­vamente pericolosa che ci chiama ad un intervento militare commi­surato al pericolo».


Allora cerchiamo di dare un vol­to al pericolo: chi sono i Taliban? Sono un altro equivoco, risponde in sostanza Parisi. Quelli che chia­miamo “i Taliban”, dice il ministro della Difesa, in realtà sono «gruppi armati di natura diversa, non ri­conducibili ad un unico centro or­ganizzato riconoscibile». Anche per questo i pericoli variano per tipo e per intensità da zona a zona.

Così anche nella nostra area di competenza, le province di Herat, Badghis, Ghor c Farah. «Ad Herat la situazione è ragionevolmente tranquilla e la popolazione piutto­sto aperta nei confronti degli stra­nieri ingenerale. Altri distretti sono decisamente più problematici. So­prattutto perché scontano un lunghissimo isolamento, determinato dalla virtuale assenza di infrastrut­ture di comunicazione. In alcuni casi ci troviamo di fronte a realtà premoderne, in cui la conflittua­lità fra tribù è tuttora il principale elemento di instabilità».A questo quadro già caotico «bisogna aggiungere la particolare complessità etnica dell’intera Regione occidentale (dove opera il contingente italiano).


Non meno di quattro gruppi et­nici principali condividono le stesse terre, divisi da invisibili demarcazioni che nel corso dei secoli raramente sono state definite in maniera pacifica». Insom­ma quelle terre sono instabili dalla notte dei tempi, dice Parisi. E lo sono oggi ancora di più perché «pos­sono sommarsi altri elementi, qua-li lo spostamento di gruppi di traf­ficanti e linfiltrazione di gruppi ar­mati con finalità essenzialmente politiche – quelli che comune-mente vengono definiti i Taliban».


Invece Parisi non vede, al mo­mento, un rischio-Iran. Nella no­stra zona di pertinenza linfluenza persiana è forte: non pochi temono che la “crisi degli ostaggi”, i marinai britannici prigionieri a Teheran, si riverberi anche sullAfghanistan. Ma al ministro della Difesa non ri­sulta che nel settore italiano, appunto al confine con I’Iran, i livelli di sicurezza, odi insicurezza, siano peggiorati.

«Ovviamente ogni evento internazionale pub influire in positivo o in negativo. Però allo stato i rapporti fra Kabul e Teheran sono non conflittuali, e questo co­stituisce la migliore garanzia di si­curezza su cui possiamo contare». Inoltre Parisi confida negli effetti virtuosi che potrebbe produrre l’i­dea italiana di una Conferenza in­ternazionale. «Come ha detto D’Atema all’Onu la nostra proposta è pensata come uno stimolo ulteriore per imbastire un dialogo fra tutti i legittimi attori della regione e della comunità internazionale». Però anche qui il peso del passato è schiacciante: «Alcuni di quegli attori regionali sono coinvolti in di­spute bilaterali che durano da al­cuni decenni», dunque hanno dif­ficoltà a dialogare con gli avversari.


Considerando tutto questo come si può sperare che da qui a12011 sia possibile stabilizzare una na­zione così caotica? «Non è questio­ne di speranze, ma di scadenze. Come stabilito nel 2006 dalla Con­ferenza di Londra comunità internazionale e governo afgano hanno preso impegni precisi, inclusa una verifica (nel febbraio del 2011) dei progressi fatti entro il 2010. Gli ele­menti che mi ha messo a disposi­zione in febbraio ministro della Difesa afgano alimentano attese po­sitive.

Per esempio, il ritmo col quale sono ricostruiti l’esercito na­zionale e la polizia afgana. Lascia supporre che gli obiettivi prefissati possano essere raggiunti entro le scadenze previste, che ci auguria­mo possano essere in più punti anticipate. Negli ultimi mesi l’eserci­to ha ampliato di molto la sua ca­pacità di operare solo con un sup-porto esterno da parte dell’Isaf.

Quanto alla polizia, organici ed equipaggiamenti sono ancora ca­renti ma è probabile che lUnione Europea interverrà per potenziarli. Ovviamente forze armate e polizia più efficienti non basteranno a fare dell’Afghanistan un Paese com­pletamente sicuro. Ma dopo aver raggiunto quell’obiettivo, la comunità internazionale potrà concentrarsi su altri settori della ricostruzione. E la componente militare internazionale potrà ridursi progressivamente».


Nel frattempo però non sono in corso riduzioni, ma potenziamenti. Di recente, racconta Parisi, abbiamo mandato al nostro contingente veicoli antimina appena acquistati. «E proprio uno di questi nuovi mezzi ha salvato pochi giorni fa la vita a cinque no­stri militari». Calibrare ai rischi l’armamento dei contingenti ita­liani, spiega Parisi, è una priorità del governo.


Il problema è che la dotazione delle Forze armate oggi sconta quanto è accaduto negli anni pas­sati: «Malgrado i reiterati allarmi di Martino, gli stanziamenti per la Difesa sono stati decurtati oltre ogni ragionevolezza (dal governo Ber­lusconi), con il risultato di rendere impossibile l’acquisizione di nuo­vi mezzi olamanutenzione di quelli esistenti. Poiché nell’ultima fi­nanziaria abbiamo ripristinato un livello minimo di fondi, l’acquisi­zione è ripartita. E tuttavia siamo stati criticati con durezza per que­sto!».


Benché le prove offerte da que­sto parlamento non lo autorizzino a sperare, Parisi resta convinto che l’Italia possa discutere seriamente d’una politica di difesa. Lo richiede questo tumultuoso sovrapporsi di crisi a crisi che sempre più chiama l’Europa a svolgere un ruolo nel mondo e l’Italia nell’Europa. E lo vuole un obbligo morale. «In Af­ghanistan abbiamo perso nove soldati. Ciascuno di loro è morto nel nome dell’Italia. E l’Italia deve riflettere intorno a quella vita».