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20 Agosto 2009

Parisi: gia’ andare alle urne e’ una scommessa vinta

Autore: Carlo Mercuri
Fonte: Il Messaggero

Professor Parisi,  le elezioni segneranno una svolta democratica nel Paese oppure  assisteremo ad una vietnamizzazione del conflitto?
Le elezioni sono una tappa importante. Non c’è legittimità senza  legittimazione. Non abbiamo ancora inventato una procedura di legittimazione  superiore al voto popolare. A cinque anni dalle presidenziali del 2004,  giá il fatto che il voto si ripeta nella scadenza istituzionale prevista  è una scommessa vinta. Da noi consideriamo ora tutto scontato. Ma il fatto  che in uno stesso giorno gli afghani tutti e tutti assieme sia data la  possibilità di esprimere una scelta così importante come persone e non come  gruppi, senza distinzione di sesso è un altro passo in avanti. Ecco  perchè attendiamo con ansia il risultato, a cominciare da quello della  partecipazione.
 
E lei, che oltre a ministro della difesa, è stato come ricercatore  Presidente della SISE, la società che raggruppa tutti gli sutdiosi italiani  di studi elettorali, cosa prevede?
Non sarà una passeggiata. Consideri che in una popolazione pari alla metá  della nostra ,dispersa in un territorio che è il doppio dell’Italia, per  raggiungere il livello del 2004, più o meno quello nostro attuale, in  ognuno dei 7000 seggi dovrebbero votare per ognuna della 9 ore di apertura  200 persone. Noi di seggi ne abbiamo 61mila e li teniamo aperti per 22 ore  con una media di 25 persone l’ora. Una bella scommessa! Quasi un  miracolo!
 
Lei già  indicò il 2011 come data estrema per lasciare il Paese da parte  delle truppe multinazionali. E’ ancora convinto che si possa fare?
Il 2011 non era il termine indicato da noi, ma quello concordato in sede  Nato per tirare un bilancio e decidere assieme sul se il come e quanto a  lungo continuare. E’ evidente che tutto quello che inizia prima o poi deve  finire. Ma parlare oggi di exit strategy non è certo opportuno. Proprio chi  investe su un approccio a bassa intensità militare è bene che si armi di  pazienza, e si concentri sul come continuare piuttosto che sul quando  lasciare.
 
Come è cambiato, se è cambiato, l’atteggiamento degli Usa verso  l’Afghanistan con il nuovo presidente Obama rispetto a Bush?
La nuova amministrazione appare molto piùconsapevole delle difficoltà e  delle enormi risorse necessarie, ma non meno determinata del passato,  nonostante il 54% di americani contrari. Un passaggio di un discorso di  qualche giorno fa di Obama agli ex-combattenti, mi sembra dica tutto. “Non  è una guerra in cui c’è una scelta. E’ una guerra necessaria”.  
 
Si sa che i caveat Nato sono tanti e soprattutto tesi ad evitare i  cosiddetti “danni collaterali”, cioè  che ci siano vittime civili nei  bombardamenti. L’Italia, dunque, non spara o spara poco. Mentre invece i  jet degli altri Paesi se devono sparare, sparano. C’è già  qualcuno che,  nell’ambito della coalizione, parla di “Paese imboscato”. Era così anche quando lei era  a capo della Difesa?
La verità che bellicisti e pacifisti vanno stringendo da tempo da parti  opposte una tenaglia che ci costringa a riconoscere che siamo in guerra. I  bellicisti italiani e stranieri per invitarci ad agire “alla guerra come  alla guerra”. I pacifisti per spingerci, visto che siamo in guerra, alla  inevitabile conclusione di dover lasciare l’Afghanistan. L’accusa di  imboscamento è nullaltro che una provocazione perchè noi come altri si esca dal quadro delle scelte che abbiamo fatto alla luce del sole. Mi dicano a  quali impegni siamo mai venuti meno? L’Italia spara se e quanto è  necessario per mantenere gli impegni che si èpresa all’interno dell’Isaf,  la Forza Internazionale messa incampo per affiancare il nuovo Stato Afghano  nel dotarsi di una autonoma capacità di sicurezza. Il sentiero è stretto,  anzi strettissimo, perchè in Afghanistan c’è certo una guerra anche se  particolare, visto che domani si vota. E noi operiamo in un territorio nel  quale c’è una guerra, ma pur standoci da militari non ci siamo da  belligeranti. Riusciremo a rispettare a lungo tutti e due i commi  dell’art.11 della Costituzione, quello che ripudia la guerra e quello che  ci chiama a spenderci per la pace e la sicurezza del mondo? Non è per nulla  semplice. Ma non abbiamo scelta.  

Un giorno, quando lei era ministro della Difesa, lanciò la sua “ricetta”  per l’Afghanistan. Disse che occorreva “rafforzare il coordinamento tra le  diverse organizzazioni e l’Onu, che era necessario affiancare  all’intervento  militare quello civile e che si doveva rendere conto dei risultati  economico – sociali oltre che politico-militari”. Ritiene che questa sua idea  sia stata seguita?
Io pensavo soprattutto alla contraddizione tra la Enduring Fredom la  missione di guerra a guida americana, e quella di assistenza alla sicurezza  Isaf, a guida Nato. Dal punto di vista operativo qualche passo è stato  fatto, stimolati anche dalle gravi e ripetute perdite civili prodotte dai  bombardamenti. Non penso tuttavia che l’unificazione delle due missioni in  testa ad un unico comandante sia una soluzione sufficiente. Prima che il  comandante è il fine che deve guidare l’azione.