Professor Parisi, le elezioni segneranno una svolta democratica nel Paese oppure assisteremo ad una vietnamizzazione del conflitto?
Le elezioni sono una tappa importante. Non c’è legittimità senza legittimazione. Non abbiamo ancora inventato una procedura di legittimazione superiore al voto popolare. A cinque anni dalle presidenziali del 2004, giá il fatto che il voto si ripeta nella scadenza istituzionale prevista è una scommessa vinta. Da noi consideriamo ora tutto scontato. Ma il fatto che in uno stesso giorno gli afghani tutti e tutti assieme sia data la possibilità di esprimere una scelta così importante come persone e non come gruppi, senza distinzione di sesso è un altro passo in avanti. Ecco perchè attendiamo con ansia il risultato, a cominciare da quello della partecipazione.
E lei, che oltre a ministro della difesa, è stato come ricercatore Presidente della SISE, la società che raggruppa tutti gli sutdiosi italiani di studi elettorali, cosa prevede?
Non sarà una passeggiata. Consideri che in una popolazione pari alla metá della nostra ,dispersa in un territorio che è il doppio dell’Italia, per raggiungere il livello del 2004, più o meno quello nostro attuale, in ognuno dei 7000 seggi dovrebbero votare per ognuna della 9 ore di apertura 200 persone. Noi di seggi ne abbiamo 61mila e li teniamo aperti per 22 ore con una media di 25 persone l’ora. Una bella scommessa! Quasi un miracolo!
Lei già indicò il 2011 come data estrema per lasciare il Paese da parte delle truppe multinazionali. E’ ancora convinto che si possa fare?
Il 2011 non era il termine indicato da noi, ma quello concordato in sede Nato per tirare un bilancio e decidere assieme sul se il come e quanto a lungo continuare. E’ evidente che tutto quello che inizia prima o poi deve finire. Ma parlare oggi di exit strategy non è certo opportuno. Proprio chi investe su un approccio a bassa intensità militare è bene che si armi di pazienza, e si concentri sul come continuare piuttosto che sul quando lasciare.
Come è cambiato, se è cambiato, l’atteggiamento degli Usa verso l’Afghanistan con il nuovo presidente Obama rispetto a Bush?
La nuova amministrazione appare molto piùconsapevole delle difficoltà e delle enormi risorse necessarie, ma non meno determinata del passato, nonostante il 54% di americani contrari. Un passaggio di un discorso di qualche giorno fa di Obama agli ex-combattenti, mi sembra dica tutto. “Non è una guerra in cui c’è una scelta. E’ una guerra necessaria”.
Si sa che i caveat Nato sono tanti e soprattutto tesi ad evitare i cosiddetti “danni collaterali”, cioè che ci siano vittime civili nei bombardamenti. L’Italia, dunque, non spara o spara poco. Mentre invece i jet degli altri Paesi se devono sparare, sparano. C’è già qualcuno che, nell’ambito della coalizione, parla di “Paese imboscato”. Era così anche quando lei era a capo della Difesa?
La verità che bellicisti e pacifisti vanno stringendo da tempo da parti opposte una tenaglia che ci costringa a riconoscere che siamo in guerra. I bellicisti italiani e stranieri per invitarci ad agire “alla guerra come alla guerra”. I pacifisti per spingerci, visto che siamo in guerra, alla inevitabile conclusione di dover lasciare l’Afghanistan. L’accusa di imboscamento è nullaltro che una provocazione perchè noi come altri si esca dal quadro delle scelte che abbiamo fatto alla luce del sole. Mi dicano a quali impegni siamo mai venuti meno? L’Italia spara se e quanto è necessario per mantenere gli impegni che si èpresa all’interno dell’Isaf, la Forza Internazionale messa incampo per affiancare il nuovo Stato Afghano nel dotarsi di una autonoma capacità di sicurezza. Il sentiero è stretto, anzi strettissimo, perchè in Afghanistan c’è certo una guerra anche se particolare, visto che domani si vota. E noi operiamo in un territorio nel quale c’è una guerra, ma pur standoci da militari non ci siamo da belligeranti. Riusciremo a rispettare a lungo tutti e due i commi dell’art.11 della Costituzione, quello che ripudia la guerra e quello che ci chiama a spenderci per la pace e la sicurezza del mondo? Non è per nulla semplice. Ma non abbiamo scelta.
Un giorno, quando lei era ministro della Difesa, lanciò la sua “ricetta” per l’Afghanistan. Disse che occorreva “rafforzare il coordinamento tra le diverse organizzazioni e l’Onu, che era necessario affiancare all’intervento militare quello civile e che si doveva rendere conto dei risultati economico – sociali oltre che politico-militari”. Ritiene che questa sua idea sia stata seguita?
Io pensavo soprattutto alla contraddizione tra la Enduring Fredom la missione di guerra a guida americana, e quella di assistenza alla sicurezza Isaf, a guida Nato. Dal punto di vista operativo qualche passo è stato fatto, stimolati anche dalle gravi e ripetute perdite civili prodotte dai bombardamenti. Non penso tuttavia che l’unificazione delle due missioni in testa ad un unico comandante sia una soluzione sufficiente. Prima che il comandante è il fine che deve guidare l’azione.