Professore Arturo Parisi, politologo, ex ministro della Difesa, “inventore” dell’Ulivo e sostenitore del riformismo renziano: nel Pd, al di là della diatriba sulle date del congresso, il punto vero sembra essere un altro. La minoranza pensa che Renzi e sinistra siano due concetti non conciliabili fra di loro. Condivide questo giudizio? O la vede diversamente?
Penso che lei abbia toccato il punto. In effetti la minoranza non riesce ancora, non dico ad accettare, ma neppure a spiegarsi come è accaduto che in quella che ritenevano per eccellenza la loro casa siano finiti alla pari con gli altri. Certo col suo “io-io-io” Renzi gli ha dato una mano. Ma dietro la stessa accusa di aver fatto del Pd il Partito di Renzi, più che il modo assertivo con cui Matteo calca la scena sta la crisi di una illusione.
Quale illusione?
In alcuni l’idea che il Pd fosse la continuazione del proprio partito con un nome diverso. In altri che, pur distinto dai partiti preesistenti, il nuovo partito potesse essere pensato come la somma di componenti diverse figlie e continuazione delle storie passate.
Le premesse era totalmente diverse. Cosa si è inceppato e ha strozzato le speranze?
Una cosa è stare nella nuova stagione senza dimenticare il proprio passato come accade ormai da tempo alla grande maggioranza dei dirigenti e dei militanti del Pd, un’altra starci a nome del proprio passato come accade appunto alla sinistra. Pur essendo minoranza non solo nel partito, ma ormai anche tra quanti provengono dai Ds, la minoranza continua infatti a pensarsi come rappresentante di tutta la sinistra e arbitra perciò della stessa natura di sinistra del partito. Quasi ritenesse di disporre di quella che nelle società per azioni viene chiamata la “golden share”.
A suo avviso, pare chiaro, in realtà la sinistra non ha alcuna golden share sul Pd …
L’”azione d’oro”, al di là del suo peso quantitativo, conferisce a chi ne dispone un potere decisivo sulle scelte strategiche e su quelle ad esse collegate. Le pare questo il caso? Chi si mette nei loro panni non può non riconoscere quanto profonda è la crisi. Una crisi politica e allo stesso tempo personale. Lo dico con comprensione e rispetto. In fondo non è passato ancora un decennio da quando i Ds e la Margherita decisero di porre fine alla loro esistenza liberando i propri militanti da appartenenze che si misuravano in decenni.
Quanto vede concreto il rischio scissione ora che siamo ormai alla vigilia dall’Assemblea?
Più che la scissione quella che temo è una esplosione. Una esplosione potenzialmente a catena anche se circoscritta a quella parte del gruppo dirigente che fa fatica a prendere commiato dal passato, dalle abitudini, dalle parole e dai ruoli nei quali si era finora riconosciuto. Ieri ho letto anche io con incredulità che la riunione della minoranza prevista per oggi è stata indetta all’insegna dello slogan “Rivoluzione socialista” col suo contorno di invito alla lotta anch’essa socialista. Forse le parole sono d’altri tempi, ma non i sentimenti. Se al posto di rivoluzione si legge rivolta, tutto diventa più chiaro. Dire rivolta è dire rifiuto, rabbia, dolore, nel prendere atto che il passato è passato. Che nel partito nuovo la qualità delle azioni non viene dal passato che si rivendica mentre la loro quantità dipende dal futuro che si riesce ad annunciare.
Quale via d’uscita vede?
Non certo un ulteriore rinvio del Congresso. Già la sera del 4 dicembre doveva essere chiaro a tutti, a cominciare da Renzi, che il risultato del referendum, prima della premiership, la guida del governo, aveva messo oggettivamente in discussione la leadership, la segreteria del partito, dalla quale peraltro derivava la stessa premiership. Come era possibile continuare come se nulla fosse avvenuto dopo una prova che aveva visto il partito diviso con la minoranza contrapposta su una questione nitidamente politica come le riforme istituzionali? E come ricominciare se non a partire da una scelta rinnovata e partecipata come è appunto il Congresso? Ripeto. Semmai siamo in ritardo. Altro che Congresso anticipato …
Quindi Congresso subito?
Diciamo in tempi ravvicinati. L’unico modo per risolvere i conflitti politici non sta nel negarli ma nel trasformarli in competizioni ordinate dalle regole della democrazia. Più che sul “se” fare o non fare il Congresso, mi concentrerei sul “come” per evitare che si riduca a una conta e muova invece da un confronto autentico tra le proposte in campo mettendole tutte su un piano di reale eguaglianza.
E pensa che ci siano ancora margini perché la rottura rientri?
Me lo auguro. Vivamente. Innanzitutto da cittadino. Il Pd è l’aggregato più grande che assomigli ad una vera comunità politica. La sua unità non può non influire sulla unità degli altri. Ogni frammentazione chiama frammentazione. Soprattutto in un passaggio storico come questo che vede la frammentazione crescere nella società prima che nella politica. Confido che chi rimane non perda mai la consapevolezza di quel che perderebbe con quelli che vanno. E mi auguro che quelli oggi tentati dalla rottura considerino la fatica delle potenziali divisioni future e soprattutto ricordino che fuori da un grande partito quello che oggi può apparire poco può presto ridursi a nulla.