Quando
parla dei primi due anni (scarsi) di vita del Pd, Arturo Parisi
utilizza un termine che certo non difetta di sintesi: «Disastro». Pochi
sono stati più critici di lui sulla gestione Veltroni, ma anche sulle
vicende sarde del partito. E ora che si torna alle primarie, l’ex
ministro vuol vedere bene le carte prima di concedere il suo esigente
consenso.
Ai candidati alla segreteria regionale, in particolare,
chiede di smarcarsi dai leader nazionali, tirare fuori proposte
autonome: altrimenti non godranno del favore degli ulivisti sardi, che
in un documento diffuso in questi giorni – primo firmatario lo stesso
Parisi – parlano di «evidenti limiti delle proposte in campo».
A quali limiti alludete?
«Diciamo
che al momento è più facile capire chi si oppone a chi. Meno chiaro è
il perché, la linea politica che distingue veramente gli schieramenti».
Eppure la polemica interna è molto intensa.
«Non
è che non si possa intravedere differenze nelle parole. Ma le parole
sono solo una parte della storia. Altrimenti Marini non potrebbe
sostenere Franceschini e poi aggiungere che comunque la linea a cui si
sente più vicino è quella di Bersani. Spero proprio che col tempo il
confronto si precisi e si corregga».
Perché allora non c’è una vostra candidatura?
«Non
è più tempo di candidature di testimonianza. Questa volta è una
competizione che chiama gli elettori a partecipare a una vera scelta,
non alla celebrazione di scelte già prese. Abbiamo perciò deciso di
mettere la nostra libertà al servizio dell’avanzamento di una
democrazia dei cittadini, spingendo i candidati a confrontarsi
politicamente, e aiutando gli elettori a scegliere a ragion veduta, non
per appartenenza o ordini di scuderia».
Dopo tante critiche a Veltroni, non la immaginiamo votare Franceschini. È dunque scontato il sostegno a Bersani?
«Se
il voto fosse solo il giudizio sul passato non potrei certo votare
Franceschini, ma neppure nessun altro candidato che ha condiviso con
Veltroni le decisioni che ci hanno portato al disastro. Ma il voto è un
auspicio che riguarda il futuro. Aspetto perciò che le parole di uno
aiutino a capire le parole di un altro».
In Sardegna non vi siete ancora schierati per nessuno dei candidati. Perché? Cosa pensa dei nomi in campo?
«Quando
i candidati illustreranno la loro posizione le potrò dire cosa penso
della proposta di ognuno. Quel che proprio non si può accettare è che i
candidati a segretario regionale vengano descritti come proiezioni dei
candidati nazionali. Dopo tutto quel che andiamo dicendo sull’autonomia
del Pd sardo, addirittura sulla sua indipendenza, dire che le risposte
alle domande sarde sono quelle formulate a Roma è decisamente troppo».
Da cosa dipenderà la scelta degli ulivisti?
«Dalla
risposta, dal giudizio, dalla proposta che i candidati daranno sul
passato e il futuro del partito e della Sardegna. Son due anni che ci
dividiamo e ancora non siamo riusciti a parlarci. In particolare in
questo anno è successo di tutto, ma ancora non siamo riusciti a
spiegarci in pubblico il perché e, soprattutto, come assicurare che non
si ripeta».
Teme una nuova spaccatura tra soriani e antisoriani?
«Quello
che deve preoccuparci è soprattutto la spaccatura tra noi e i nostri
elettori. L’unico modo per evitarlo è riconoscere le diversità,
circoscrivere le distinzioni di natura politica, e confrontarle. Guai
se le primarie fossero solo una conta o, addirittura, una chiamata alle
armi».
Lei sintetizza proprio nella linea del “meglio Soru” le
scelte che hanno portato il Pd a dividersi e perdere le Regionali. Che
cosa intende?
«Quando spiegavo ai continentali che “meglio Soru”
alludeva e solleticava la nostra tentazione alla solitudine, non
riuscivano a crederci. La realtà è che proprio questo atteggiamento,
questa linea, ci ha portato alla sconfitta».
Cioè il leaderismo spinto?
«La
totale identificazione della proposta in una persona e allo stesso
tempo l’illusione dell’autosufficienza, ancorché fondata su buoni
risultati dell’azione di governo, è all’origine della divisione interna
al partito e di quella interna alla coalizione. Una linea perdente
perché sbagliata, non sbagliata perché perdente».
Quale alternativa propone?
«La
linea esattamente opposta. Contro la pretesa del “meglio soli”, contro
l’illusione del “meglio pochi ma buoni”, che pur rappresenta una parte
importante e riconosciuta del carattere dei sardi, dobbiamo rispondere:
meglio insieme che soli. Meglio molti che pochi».
Chiede di «allargare la democrazia» nel partito: primarie su tutto, comprese le candidature al Parlamento?
«Stiamo
a quello che abbiamo deciso tutti assieme, da Marini a Bersani, almeno
per un po’. Ma chiamano primarie solo le elezioni propedeutiche ad
altre elezioni. Quanto al Parlamento, non ci sono primarie che possano
correggere i difetti dell’attuale inqualificabile legge. L’unica
soluzione è tornare ai collegi uninominali per consentire ai cittadini
di votare o bocciare i candidati».
Torniamo alla Regione. C’è chi ritiene troppo debole, finora, l’opposizione in Consiglio. Condivide?
«La
forza dell’opposizione è la prospettiva dell’alternativa e la
probabilità dell’alternanza. Fino a quando non metteremo riparo al
disastro prodotto in Sardegna dalla convergenza della vicenda regionale
e da quella nazionale, più che gridare conviene ragionare».
Come valuta i primi mesi della giunta Cappellacci?
«Ha un’altra domanda?»
Allora parliamo del dialogo tra i poli nato attorno alla vicenda Eni: servirà? O è solo un fuoco di paglia?
«Il
dialogo non è tra noi, ma di ognuno con la società sarda e in
particolare con i più deboli. Ogni volta che la Giunta sarà veramente
dalla parte della Sardegna, ci troverà dove dobbiamo essere».
Ormai molti leader del Pd parlano apertamente di accordo con l’Udc: lei lo ritiene praticabile?
«I
problemi che abbiamo di fronte non possono accontentarsi di soluzioni
di tempo breve. Un progetto di tempo lungo non può essere costruito da
alleanze occasionali, fondate su convenienze occasionali. Abbandonando
ogni tentazione di solitudine e pretesa di autosufficienza, il Pd deve
mettersi al servizio dell’alleanza più ampia e più stabile possibile,
escludendo solo chi si esclude: ma muovendo innanzitutto da un
confronto con tutto il campo di centrosinistra».