Le stragi di Parigi hanno segnato un cambio di passo del terrorismo fondamentalista. Come si risponde a questa nuova minaccia?
“Innanzitutto riconoscendo che di questa minaccia si può dire tutto fuorchè sia nuova. Solo la maggiore prossimità geografica può proporre i tragici fatti di Parigi come un cambio di passo. E cosa sono mai le recentissime stragi di Ankara, del Sinai, Beirut degli ultimi giorni se non i rintocchi di una stessa campana? La verità è che in quella regione che sotto l’acronimo MENA raccoglie il Medio oriente e il Nord Africa c’è un fiume di sangue che scorre ormai da decenni.Ignorato e dimenticato ogni volta dalla indifferenza dei più e troppo spesso alimentato dal cinismo di pochi. Ora che i media portano nelle nostre case ogni sera la notizia di una nuova strage dobbiamo volgere l’antico proverbio riconoscendo che ciò che è “lontano dal cuore è lontano dagli occhi”, dagli occhi che guardano ma non vogliono vedere.”
Vedere che cosa?
“Che va crescendo a dismisura il differenziale tra quella che con molte virgolette possiamo chiamare la civiltà occidentale, vecchia e allo stesso tempo ringiovanita dalla tecnica e dalla finanza, e quella islamica, vecchissimma e allo stesso ringiovanita dalle materie prime e dalla demografia. E che la tensione che da questo differenziale deriva va alimentando dentro le due distinte aree una competizione per la guida del campo in funzione del rapporto col campo opposto. Nell’Islam tra sciiti e sunniti, e dentro ognuno di questi tra l’ultimo fondamentalista e il penultimo, penso allo scontro tra l’Isis e AlQaeda. Conflitti interni che alimentano ed esasperano il conflitto esterno. Lo dico ai fedeli del “divide et impera” che combattono da sempre l’amico di ieri alleati col nemico di domani. Dimenticando che l’inasprimento dell’attacco esterno ha spesso come obbiettivo più che quello apparente proprio la competizione col concorrente interno per l’egemonia del campo.”
Anche nel nostro campo?
“Anche nel nostro. Penso alla iniziativa sempre più pressante della Russia, ma anche alla Francia.”
In che senso?
“Chi ha auscultato, ripeto auscultato, il canto della Marsigliese col quale il Parlamento di Parigi ha dichiarato guerra all’Isis, non può non aver sentito assieme alla necessità di reagire al terribile colpo subito, la tentazione di prendere la guida del nostro campo contro il nemico che a parole tutti definiamo nemico e nemico comune. Quel canto ci interpella anche per questo. Certo per la condivisione del dolore dei nostri fretelli d’oltralpe, certo per la solidarietà alla quale il patto che con loro abbiamo stretto dentro l’Alleanza Atlantica e dentro l’Unione europea. Ma anche per difenderli dal richiamo che viene dalla loro “grandezza” passata. Guai per noi e per l’Europa se la Francia dovesse cedere alla tentazione dell’antico primato. Per questo dobbiamo stringerli forte dicendo che se è guerra quella che è stata a loro dichiarata, quella guerra è stata dichiarata anche a noi. E che in nome dell’art.11 che ci chiama al ripudio di guerre che non siano di difesa, la loro difesa è la nostra difesa.”
L’intervento militare, come ha detto il capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, è solo una parte, ma comunque, è un parte. Come muoversi?
“Vorrei essere chiarissimo. Innanzitutto, lo ripeto, solo se il nostro campo è unito e forte possiamo permetterci di lavorare per un incontro con gli altri, e governare la tentazione di dividerci tra noi e allo stesso tempo l’illusione di investire sulla esasperazione delle divisioni del campo avverso. Pur dentro questa ispirazione ci sono tuttavia momenti nei quali non possiamo non considerare nemico e combattere chi nemico si dichiara e da nemico si comporta. Combattere con tutti i mezzi a nostra disposizione per costringerlo a non nuocere più. Tutti. Compresi quelli militari ma sapendo che oggi più che mai la guerra chiama in causa la finanza, l’industria, le comunicazioni, la cultura, gli approvvigionamenti.”
Ma dobbiamo comunque prepararci anche al confronto militare?
“Ma noi dentro questo confronto ci siamo già e ci siamo in prima linea. Se lo guardiamo con una visione, come ha detto giustamente Renzi, “complessiva”, che lo considera cioè contemporaneamente in tutte aree della regione, dall’Afghanistan all’Irak, dal Libano, al Sinai, alla Libia, esattamente come lo pensa il cosiddetto Califfato noi siamo già schierati. Schierati dentro missioni multinazionali con i nostri “scarponi sul terreno”, con una presenza che per quantità di militari e responsabilità di comando vede l’Italia prima tra tutti i Paesi europei. Non è quindi del futuro che parliamo in questi giorni, ma del presente. Lo dico pensando agli italiani della missione Unifil, schierata come forza di interposizione dentro un’area rischiosa come poche e come poche vicine alla Siria in fiamme.”