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23 Settembre 2010

PARISI: ALTERNANZA E ALTERNATIVA SONO DUE CONCETTI DIVERSI. IL PAESE HA BISOGNO DI UNA DEMOCRAZIA COMPETITIVA

Riportiamo di seguito il testo di un
dialogo-intervista apparso su VASTOVIVA in risposta ad alcune domande
formulate dopo la sospensione dell’iniziativa prevista a Vasto il
23 settembre, e poi non svolta per il prolungarsi della Direzione Pd
dello stesso giorno.
 
 
Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una graduale
diminuzione della credibilità del governo nazionale, al punto che, dopo
la cacciata dei Finiani dal PdL, nelle prossime settimane verrà
effettuata in parlamento una decisiva verifica che sancirà la tenuta o
meno di questa maggioranza. Tale circostanza in teoria dovrebbe
risultare un vantaggio per le forze di opposizione; per la opportunità
delle stesse di avere più possibilità di presa sull’opinione pubblica
nella proposizione della propria ricetta alternativa. Al contrario
sembra invece contribuire a far insorgere, soprattutto nel PD, tutte le
contraddizioni interne. Considerato che ciò succede spesso, anche a
parti invertite, nei governi di regioni, provincie e città, lei come si
spiega questo fenomeno?
 
Il fatto e’ che nel sistema bipolare troppi sembrano
confondere l’alternanza con l’alternativa. Alternanza e’ attendere che
prima o poi venga il tuo turno, perche’ succede qualcosa agli altri: si
logorano, si dividono, spingono con le loro contraddizioni e
inadempienze una parte significativa del proprio elettorato a lasciare
il campo per delusione. Alternanza e’ scommettere sul fatto che si vinca
non grazie alle proprie ragioni o all’aumento dei propri consensi, ma
perche’ perde il concorrente. Alternativa e’ invece avanzare una
controproposta a partire dall’analisi delle insufficienze della
maggioranza, comunicate e spiegate mentre dall’opposizione si tallona il
governo con una contestazione puntuale delle sue politiche, e la
formulazione di controproposte. Alternativa e’ nel nostro sistema
alternativa di governo, non semplice alternativa al governo. Non e’
contestazione radicale guidata dal principio del “tanto peggio tanto
meglio” che punta allo sfascio immaginando che solo la catastrofe possa
mettere le premesse per un rivolgimento appunto radicale, augurandosi
magari di non dover mai andare al governo. Alternativa di governo e’
l’azione critica di chi svolge compiutamente la funzione di vigilanza
che tocca all’opposizione, e quindi non gioca a fare il governo piu’ o
meno ombra, ma, sapendo che si propone di tornare al governo, esercita
la sua cultura di governo chiedendosi difronte ad ogni problema e ad
ogni provvedimento “cosa farei se al governo ci fossi io”.
Costruire l’alternativa significa pero’ innanzitutto
ispirarsi ad una democrazia competitiva, fondata cioe’ su una
competizione tra proposte di governo, che consenta al cittadino di
scegliere quella che interpreta meglio la sua identita’ e i suoi
interessi. Chi invece si ispira ad una democrazia consociativa, che teme
la competizione e punta a collocarsi in una permanente posizione di
governo, invece di impegnarsi in una proposta migliore e piu’ credibile
preferisce puntare alla costruzione di un cartello di partiti che si
spartiscano il governo e impediscano la competizione. Tutti gli sforzi
sono percio’ concentrati nella scomposizione del campo avversario, e
nella ricerca di alleanze utili a questo scopo. Che poi, partiti per
dividere gli altri ci si divida tra noi, oppure, che inseguendo gli
altri, si perdano i nostri e’ un’altra questione.
Ispirarsi ad una democrazia competitiva nel Paese
presuppone infine che la stessa sia praticata nel partito. Il miglior
modo per dar forza ad una proposta che valga per tutti domani, e’ praticarla tra
noi oggi.
 
Nella sua ultima lettera aperta al segretario
Bersani, definisce un segno di vitalità il plurarismo presente nel
nostro partito, purché lo stesso venga ricondotto ad unità negli organi
dirigenti attraverso il confronto pubblico e la decisione democratica.
Non ritiene però che il più delle volte la sintesi democratica sia
problematica in quanto tale pluralismo è più riconducibile a pulsioni
personali, sentimenti, risentimenti, disagi e calcoli, piuttosto che a
idee e posizioni espresse e condivise da uomini e donne liberi?
Come in tutti gli ambiti della esistenza, anche nella
politica, che pur aspirando a portarli a sintesi e’ di essi una
espressione, le idee camminano sulle gambe degli uomini, e gli uomini
camminano spinti, come ha appena detto, da pulsioni personali che non
necessariamente sono di per se’ negative. Politica e’ portarle ad unita’
e indirizzarle verso il bene comune. Ma per evitare i personalismi,
cioe’ a dire, per spingere le pulsioni personali verso l’interesse
generale, bisogna chiedere alle persone di aiutarci a scegliere a
partire dalle loro proposte e non dalla loro persona. Ogni decisione che
ci dica e ci chieda solo chi sta con chi, ma non su che cosa,
impoverisce la politica fino al punto di negarla. La fatica e la
grandezza della politica, come arte e come scienza, sta comunque nella
sua capacita’ di ricondurre la pluralita’ ad unita’. In democrazia il
primo passo e’ il riconoscimento della esistenza delle diversita’ anche
quando queste sono divisioni e non semplici distinzioni, o addirittura
conflitti. E’ a partire da questo riconoscimento che nasce il confronto e
poi la decisione. Tutte le altre forme di politica diverse dalla
democrazia negano in qualche misura l’esistenza della diversita’ e del
conflitto e mettono in essere strumenti e procedure per comprimerli e
annullarli, talvolta con la coercizione, piu’ spesso attraverso
strumenti culturali. Nei partiti di impronta totalitaria questo e’
ottenuto incoraggiando l’unanimismo, il gregarismo, il conformismo,
esaltando il valore dell’unita’ per l’unita’, e intimidendo la
rappresentazione del disagio o la diversita’ di opinioni. La regola “e’
meglio sbagliare assieme che avere ragione da soli”, che rappresenta la
sintesi piu’ efficace della negazione del pensiero liberal democratico
finisce cosi’ per essere proposta paradossalmente, come una massima
virtuosa, e, addirittura, una massima democratica.
 
Lei pensa che la crisi del sistema bipolare in
Italia possa pure dipendere dal fatto che i due maggiori schieramenti,
anche a causa della anomalia Berlusconi, non siano convinti “portatori”
di due differenti modelli socio-economici e di conseguenza non si
“spendano” troppo a coltivarne le differenze, favorendo fenomeni di
trasformismo e nascite di terzi poli?
Che il sistema bipolare sia in crisi non ne sono cosi’
sicuro. Se fosse per la testa dei cittadini lo considerei anzi
affermato. Sono le regole e l’arretramento dello schema varato
all’inizio degli anni ’90 che sta aprendo una contraddizione tra la
cultura e la prassi. Questo e’ dovuto al fatto che una quota
significativa del ceto dei politici di professione, ha difficolta’ ad
accettare l’idea dell’alternanza, cioe’ a dire, che si possa stare fuori
da governo anche solo per un giro. Per troppi e’ preferibile governare
meno ma governare sempre, che governare meglio ma uno alla volta. La
stabile instabilita’ che ha contrassegnato la politica italiana nei
primi cinquantanni della repubblica continua ad essere per questi la
condizione ideale, la situazione alla quale tornare dopo questo, per
loro, sciagurato quindicennio. Peccato che il loro interesse di ceto sia
l’esatto opposto dell’interesse del Paese. Si immagini come sarebbe
l’Italia se i nostri comuni, invece di godere dello stabile assetto di
governo prodotto dalla rivoluzione delle riforme istituzionali dei primi
anni ’90, fossero nella situazione del governo nazionale.
La realta’ e’ che anche nel mio campo politico sono
ancora troppi quelli che vorrebbero buttare questo bipolarismo ancora in
fasce con l’acqua sporca del berlusconismo, per tornare alla democrazia
della delega ai partiti, per tornare alle giunte e ai sindaci che
duravano un anno, e alle trattative permanenti.
 
Ci spiega perché la sua mozione di sfiducia al
premier Berlusconi è opportuna politicamente?
Se rovesciassimo la domanda forse capiremmo meglio
dove siamo finiti. Perche’ mai l’opposizione non chiede di verificare la
permanenenza della fiducia nel governo? Presentare una mozione di
sfiducia dovrebbe essere infatti per l’opposizione la regola, anzi un
dovere preciso. Soprattutto di fronte alla prospettiva che rifiuti di
farlo il governo, o che, per mettere in scena una finzione di unita’
della maggioranza, pretenda di misurarla con un voto su questioni
diverse da quelle che l’hanno mostrata divisa in questi ultimi mesi.
Perche’ non ci ripassiamo questi ultimi 55 giorni dal
punto di vista del cittadino comune?
Rileggiamo insieme i giornali.
Due mesi di intimidazioni e lusinghe, faide e ricatti;
due mesi di fango, due mesi nei quali ai cittadini e’ stato trasmesso
il messaggio che ognuno dei parlamentari ha il suo prezzo, ognuno di
noi. Quelli che chiedono cosa mi dai se mi sposto di schieramento, di
partito, o di componente, quelli che chiedono cosa mi dai se resto nello
stesso schieramento, nel stesso partito o nella stessa corrente nella
quale gia’ sono. Quelli che pensano a un posto di governo, di
sottogoverno o, piu’ semplicemente, all’inserimento del suo nome negli
elenchi dei nominati in parlamento.
Tutto questo si e’ svolto sui giornali, nelle piazze,
nei bar. Ma non e’ stato portato nelle istituzioni. Nessuno ha sentito
la responsabilita’ di dire, ripetilo in Parlamento, cosi’ come si dice
ripetilo avanti al giudice. E cosi’ e’ cresciuto il caos nel Paese, e, a
causa del silenzio del Parlamento, il fossato tra le istituzioni e i
cittadini si e’ ulteriormente allargato e, di pari passo, lo spazio
dell’astensionismo e dell’estremismo.
E poi diciamo centralita’ del Parlamento! Dimenticando
che prima di rivendicare la sua centralita’ e preminenza sul governo,
il Parlamento deve dimostrare la sua centralita’ nella societa’.
E’ giunto il momento che alle parole seguano i fatti.
Perche’ non chiediamo a Fini di ripetere con noi in Parlamento le dure
parole che ha detto a Mirabello contro Berlusconi facendo seguire alle
sue parole nitidi atti conseguenti.
E’ giunto il momento di chiedere ai parlamentari, a
tutti, di rispondere pubblicamente alle domande che decideranno della
sopravvivenza del governo Berlusconi, non con un generico voto politico
che muove dalle domande formulate e magari concordate con Berlusconi, ma
dalle domande formulate da noi. Io conosco le obiezioni alla mia
proposta e anche la ridicola idea di presentare una mozione di sfiducia
non su Berlusconi presidente ma su Berlusconi ministro ad interim.
 
Ma purtroppo si sentono anche altre voci.
C’e’ chi dice che tanto perderemo. Ed altri che la
verita’ e’ che abbiamo paura di vincere, perche’ vincendo potremmo
precipitare nelle elezioni, delle quali abbiamo paura. Noi sappiamo
infatti che l’ipotesi del governo di transizione, che oggi e’ stata riproposta
come una cosa che e’ stata decisa definitivamente assieme, e’ priva
della meta che dichiara e impervia e contradditoria nella strada per
arrivarci.
Ebbene e’ giunto il momento di misurare lo spessore di
queste parole, di misurarle pubblicamente avanti agli italiani, di
misurare se dietro le stesse parole ci sta lo stesso significato che
anche noi ad esse diamo. A chiedere di misurare la sfiducia questa volta
dobbiamo essere noi: misurare quanta fiducia ha la maggioranza nel
governo Berlusconi, a misurare quanta fiducia puo’ avere il Paese in
questa maggioranza.
 
Per quanto riguarda la legge elettorale, si ha
l’impressione che nonostante le critiche alla maggior parte dei partiti
quella attuale non dispiaccia affatto. Lei ritiene che in tempi non
biblici il Parlamento riuscirà a modificarla, magari a favore di un
sistema uninominale che porterebbe ad un maggior legame degli eletti con
il territorio?
Il mio pessimismo sul tema e’ totale. La mia paura e’
che alla fine l’unica soluzione che finirebbe per accordare tutti
sarebbe il ritorno alla “proporzionale con preferenze” dalla quale siamo
partiti ventanni fa. Al massimo potrebbero introdurre qualche soglia di
sbarramento. Ma la definirebbero sulla misura delle convenienze del
piu’ piccolo tra i partiti seduti al tavolo del negoziato. Se questi
avesse il 4%, scriverebbero 3. Se avessero a cuore gli interessi del
Paese basterebbe reintrodurre il Mattarellum. Basterebbero pochi giorni.
Non e’ certo per me la legge ideale. Basti ricordare che con gli altri
referendari consideriamo ancora il Referendum del 99′ che voleva
modificarlo come la nostra piu’ cocente sconfitta. Ma la legge
rappresenta il compromesso piu’ avanzato ancora disponibile. Oltretutto
ha consentito di vincere sia al centrodestra che al centrosinistra. Con
Ceccanti ho presentato una proposta di un solo articolo, che ha raccolto
la firma di un quinto dei parlamentari. Ma ai capipartito va meglio
quella attuale.
 
Lei può essere considerato il padre delle
primarie: ci può dire come ha maturato l’idea di proporle in Italia e
quali significati ed opportunità ci offrano per la vita democratica del
paese?
Fu durante il periodo che da professore ho trascorso
negli Stati Uniti nei primi anni ’90 che maturai, cioe’ misi alla prova
l’idea che coltivavo da tempo e che gia’ girava per conto suo in Italia.
Il processo di dissoluzione accelerata impresso dalla smobilitazione
del nostro sistema partitico nel corso degli anni ’80 mi indusse ad
andare in America per vedere da vicino come funzionava un sistema che
andava proponendosi anche da questo punto come un modello di
riferimento. Colsi l’occasione della campagna presidenziale dalla quale
usci’ poi vincitore Clinton che seguii sul campo nel New England fino al
novembre del 1992, a partire dal turno parlamentare del 1990. Difronte
alla dissoluzione dei nostri partiti, dei gloriosi partiti che nel
dopoguerra avevano suscitato guidato e incanalato la partecipazione
democratica delle masse, ormai chiusi nelle loro pratiche oligarchiche
fondate sui tesseramenti e le procedure manipolate e consumati dalla
corruzione, l’unica possibilita’ di salvezza era aprire le porte esterne
alla partecipazione diretta dei cittadini. Lo strumento che alcuni
avevano pensato per distruggere i partiti poteva diventare l’unico modo
per mettere alla prova la loro residua vitalita’ e costringerli a
rinnovarsi.
 
Come devono essere organizzate e quali
elementi minimi devono contenere per costituire primarie “vere” e far si
che una grossa fetta di elettori possano sentire il desiderio di
parteciparvi?
Prima di ogni tecnica organizzativa e regola
procedurale deve esserci la convinzione che l’unico modo per difendere
la democrazia e far crescere la democrazia e’ praticarla. La verita’ e’
che le primarie hanno sfondato facilmente come idea e sono diventate
popolari perche’ rispondono alla domanda insoddisfatta di partecipazione
che, nonostante tutte le delusioni, e’ piu’ forte che mai. A rafforzare
l’idea che esse possano essere una risposta sta l’esempio americano.
Per farsi una idea di che cosa fossero, un tempo bisognava andare in
America o almeno all’Universita’. Grazie ai mass media e alla Rete ora
gli italiani rischiano invece di sapere piu’ sul funzionamento della
democrazia americana che su quella italiana. Tutti abbiamo assistito
alla appassionante vicenda della galoppata che, rovesciando i pronostici
iniziali, ha portato Obama alla Presidenza. E tutti, al di la’ delle
nostre preferenze e dei nostri pronostici sul futuro, abbiamo capito che
quella era una cosa vera. Tutti ci siamo sentiti o abbiamo desiderato
almeno un momento, essere americani.
Abbiamo infatti assistito ad una competizione tra
persone che era un competizione tra idee rappresentate da persone. Nella
societa’ moderna grazie ai media la politica torna ad essere un
rapporto personale. Di questa tendenza che chiamiamo personalizzazione
noi dobbiamo essere in condizione di esaltare gli aspetti virtuosi
difedendoci da quelli deteriori. E la virtu’ piu’ importante della
personalizzazione e’ rappresentata dal fatto che solo una persona puo’
incarnare quella democrazia responsabile, quella democrazia che
risponde, alla quale tutti puntiamo. In particolare in Italia forse piu’
che altrove, abbiamo tutti bisogno di imparare in politica ad usare il
pronome “io”, anche se senza gonfiare il petto. Solo chi ha il coraggio
di dire “io” puo’ prendere impegni, solo a chi ha detto “io” possiamo
chiedere di rispondere degli impegni presi.
Se la forza di questa
potenzialita’ l’hanno capita i cittadini, figuriamoci i politici, quelli
che di politica vivono e aspirano a continuare a vivere. E’ per questo
che le primarie sono diventate popolari. Certo grazie ai cittadini, ma
ancor piu’ grazie ai politici che hanno capito che conveniva cavalcarle.
E’ cosi’ che abbiamo assistito alla moltiplicazione degli Obama
italiani, della comunicazione all’americana, e della imitazione degli
aspetti deteriori della personalizzazione della politca. Pero’. Il pero’
e’ che a noi piace troppo fare gli americani all’italiana. Le nostre
primarie assomigliano infatti in tutto a quelle americane all’infuori
che nel fatto che esse sono una competizione aperta tra persone che
rappresentano visioni e progetti politici. Almeno al momento, se si
escludono alcune eccezioni, e penso soprattutto alle due primarie di
Vendola e a quella di Renzi, esse hanno assunto la forma di “plebisciti”
di conferma del candidato predestinato alla vittoria dagli apparati di
partito. Da cio’ l’incertezza sul loro svolgimento, il loro rinvio
continuo fino a quando il predestinato non e’ concordato, la
manipolazione del processo, la moltiplicazione delle candidature di
testimonianza al solo fine di indebolire i competitori del candidato
vincente etc. Non a caso le primarie sono spesso definite primarie
“per”, Prodi, Veltroni etc. appunto perche’ pensate fin dall’inizio
“per” quel vincitore.
 
E quindi?
Per il momento mi accontenterei di poco. Non diciamo
parole che pensiamo di non riuscire a mantenere. Manteniamo le poche che
abbiamo dette. Se, come capita in troppe situazioni, qualcuno e’
affezionato al vecchio modello di partito che indirizza e guida i
cittadini bisognosi di guida, abbia il coraggio di dirlo. Meglio un
avversario leale di un amico imbroglione. Se il Pd crede veramente nelle
primarie come mezzo per mobilitare la creativita’ e la partecipazione
sociale son sicuro che trovera’ le parole per convincere gli altri. Ma
soprattutto rassicuri tutti che le primarie sono un mezzo per scegliere
assieme una persona che sia un riferimento per tutti al di la’ delle
appartenenze, e non una gara tra candidati di partito che anticipa la
gara tra partiti. E’ per questo che il partito, e nessun partito in
quanto tale, deve astenersi dallo schierarsi e consentire ai cittadini
di esprimersi in liberta’. Altrimenti tanto varrebbe dire: il candidato
lo indichiamo noi. Fatevene una ragione.
 
Analisi pessimista 
No. Non bisogna essere pessimisti. Penso che la
verita’ alla fine si imporra’, perche’ restano in campo i fattori che
hanno aperto il cammino. La crisi evidente dei partiti, la necessita’
dei capipartito di continuare a promettere cose nelle quali non credono,
l’accresciuta capacita’ dei cittadini di vedere e giudicare. Chi ha
voglia di impegnarsi per l’avanzamento della democrazia sa quindi che
questa e’ una battaglia che si puo’ vincere. E’ bene tuttavia che
nessuno si illuda che questa vittoria e’ scontata, che le cose cioe’
accadono da sole. La mia esperienza diretta e quella acquisita
attraverso i miei studi mi consentirebbero infatti di raccontarvi
purtroppo anche storie che non finiscono bene. Oligarchia da una parte e
qualunquismo dall’altra segnano e restringono il sentiero lungo il
quale i democratici camminano da sempre. L’ottimismo della volonta’ non
deve mai dimenticare il pessimismo della conoscenza.