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1 Febbraio 2009

Parisi al Pd: occorre una soluzione nuova

Autore: Barbara Romano
Fonte: Libero

«Che Veltroni sia il segretario del Pd é fuori
discussione. Leader é un’altra cosa. É del tutto evidente che nella
leadership del partito si é aperta una crisi che richiede una soluzione
nuova». Dalla sua turris eburnea, di Piazza Santi Apostoli, giá
sede dell’Ulivo e dell’ Unione, Arturo Parisi si ostina a difendere
l’ultimo avamposto ulivista, su cui oggi campeggia la targa “ I
Democratici”. Dal suo ufficio, che fu di Romano Prodi, nel quale dal
suo ufficio della Difesa ha trasferito lo spadino e i ricordi della
Nunziatella, continua a fare a fette “Uolter”. «Quando mai tra i 12
milioni di democratici é impossibile trovare uno che possa sostituirlo
alla guida del Pd?». Ma non sembra pensare a Renato Soru, il
governatore uscente della Sardegna, che pure qualcuno immagina come il
delfino dei prodiani…


Cosa ci sta a fare lei nel Pd?

«Dove
vuole che cerchi di costruire il Pd se non ci provo innanzitutto nel
partito che si chiama Pd? Se é vero che tra i miei pregi e difetti c’é
la tenacia se non proprio la testardaggine, abbandoneró l’idea per la
quale sono entrato i politica solo quando abbandoneró la politica».

Ma
del Pd lei ha sconfessato il leader, la linea politica, il processo
costitutivo. Non abita neppure al Loft. Non faceva prima ad andarsene e
basta?

«I partiti debbono consentire al loro interno lo
svolgimento della democrazia che propongono all’esterno. A maggior
ragione deve farlo un partito che ha scelto l’aggettivo “democratico”
per definire la sua identità. Io faccio nel Pd quello che ritengo il Pd
debba fare nel Paese».

Perché ce l’ha tanto con Veltroni?
«Perché
non ha fatto quello che aveva promesso di fare e che insiste nel dire
di aver fatto: la costruzione di un partito nuovo e democratico, che
lavora per la democrazia del Paese».

Sicché per lei il Pd non è un partito nuovo.
«Di
certo non rappresenta quella novità che Veltroni ha promesso di
perseguire. Questo non lo dico io, ma gli italiani. Se Veltroni ha
scommesso che la sua novità attraesse elettori nuovi, poiché questo non
é successo, dobbiamo come minimo riconoscere che questa novitá non è
riuscito a spiegarla. Non é una obiezione che ho avanzato ieri, ma giá
al momento del primo passo. Tutto é purtroppo iniziato dall’inizio».

E perché il Pd non è neppure democratico?
«
Non siamo mica il partito di Berlusconi, anzi siamo scesi in campo
contro la sua idea di politica. Invece, a dispetto del suo nome, non
dispone di luoghi di confronto e di decisione democratica. Veltroni
rivendica di essere stato eletto dai 3,5 milioni di italiani delle
primarie. Dimentica che In quella stessa occasione fu eletta assieme a
lui una assemblea nazionale. Peccato che nei fatti sia stata subito
sciolta. Cosa direbbe se la stessa cosa fosse capitata al Parlamento o
a un Consiglio regionale? Purtroppo nel mio partito nel denunciare
questo scandalo siamo rimasti in pochi. Non certo per sfiducia nella
democrazia, ma forse perché si crede che non sia questa una domanda
alla quale questo Partito Democratico puó dare una risposta».

Non si starà vendicando della caduta del governo Prodi?
«La vendetta é un sentimento che muove dal passato. Queste cose io le ho dette fin dall’inizio pensando al futuro, sin dal giugno 2007».

Lei ritiene che Veltroni abbia qualche responsabilità nella caduta del governo Prodi?
«Assolutamente sì, e non solo qualche».

Quali sono le sue colpe?
«Non
essersi impegnato per risolvere i problemi e le indiscutibili tensioni
che a vevamo difronte, preferendo investire sulla loro mancata
soluzione».

Si può sapere cosa vuole lei dal Pd?
«Un
partito che non sia riconducibile alla somma dei partiti precedenti e
delle loro componenti, che riesca a convincere gli italiani di questa
novità e quindi a recuperare, attraverso questa nuova qualità, una
quantità di elettori che gli consenta di svolgere il ruolo di
competitore contro il campo a noi avverso.».

Con chi dovrebbe allearsi il Pd?
«Innanzi
tutto dovrebbe farsi carico di costruire intorno al suo programma
l’unità del centrosinistra. Esattamente come Silvio Berlusconi ha fatto
dall’altra parte in questi 15 anni. Un partito non può affidare la sua
identità agli alleati occasionali».

Reputa ancora opportuna l’alleanza con Antonio Di Pietro?
«Confrontarsi
con tutti quelli che non sono alleati con la parte avversa, prima che
una necessitá é un dovere. Ma il confronto non comporta necessariamente
la condivisione, altrimenti si starebbe nello stesso partito».

Se Casini realizzasse il suo progetto del centro drenando pezzi del Pd, lei ci andrebbe? E a che condizioni?
«Se
il progetto di Casini é quello che sembra perseguire da anni, il suo
progetto non potrebbe mai essere il mio. Io sono portatore di una
posizione rigorosamente bipolare che non riconosce l’esistenza di un
centro così come lo pensa Casini, che decide di volta in volta di
allearsi secondo le convenienze».

Anche nella Margherita lei
divenne la spina nel fianco di Francesco Rutelli quando lui strinse
l’asse con i Popolari. Cos’è la sua, idiosincrasia per il leader o
sindrome del professore?
«È la difesa delle mie
convinzioni. Io sono stato per due anni il segretario di un partito che
abbiamo sciolto non per insufficienza di consensi – in quegli anni tra
il 5,5 e il 7,5 – ma in nome del progetto in cui mi sento ancora
impegnato. Siamo ancora qua a chiedere conto del credito che in tanti
avevamo aperto prima alla Margherita e ora al Pd in nome dell’Ulivo. Si
puó dire che abbiamo dato la pecunia, ma il cammello non è ancora
arrivato».

L’unico leader in cui lei si sia mai
riconosciuto è Prodi. Però, quando il suo governo ormai era alle
battute finali, girava voce che ci fosse freddezza tra voi. È vero?
«Io
e Prodi siamo amici da un numero imprecisato di anni. Come fanno le
donne, non li conto perché sono talmente tanti che inizio a
vergognarmene. Abbiamo condiviso un disegno. Il nostro è un rapporto
tra adulti che hanno sempre dibattuto sul “come”, ma non hanno mai
messo in discussione il “se”».

Ora come va tra voi?
«Benissimo. Viviamo nella stessa città, continuiamo a frequentarci come fanno gli amici. Ogni volta che é possibile».

L’ultima volta che l’ha visto?
«Sabato scorso».

Rosy Bindi ha detto che nessuno può parlare a nome di Prodi. Le sono fischiate le orecchie?
«La
Bindi ha ragione. Prodi è sempre stato Prodi, Parisi è sempre stato
Parisi. Non ho mai preteso di parlare a nome di Prodi e credo non lo
abbia fatto nessun altro».

La Bindi ha anche criticato il
suo atteggiamento dicendo che lei, «limitandosi alla polemica e
chiamandosi fuori dai momenti decisionali nella vita del partito, si
preclude la possibilità di incidere».
«Pur avendo condiviso
con la Bindi un passaggio che mi ha indotto a sostenere la sua
candidatura alle primarie del Pd contro la linea di Veltroni, nel
momento in cui lei ha abbandonato quella posizione, non ho potuto che
prenderne atto».

Perché voi prodiani andate in ordine sparso?
«Lei
lo chiama “ordine sparso” io lo difendo come un valore, perché non
siamo una corrente. Noi vogliamo che tutto il Pd sia ulivista, non che
si costituisca una fazione ulivista nel partito».

Lei si considera un “cattolico adulto” come Prodi ?
«Adulto,
ahimé, lo sono anche troppo. Mi considero un laico che proprio dalla
sua formazione cattolica si sente chiamato ad assumere personalmente le
sue responsabilità».

La prima volta che Prodi andò sotto, sul voto fiducia, nel ’98, fu per colpa sua che aveva fatto male i conti.
«Chi
conosce i fatti sa che è semplicmente una calunnia. Quella fu una
decisione che prendemmo assieme. Poiché, col secondo governo Prodi
siamo caduti in parlamento ello stesso modo, dovrebbe essere chiaro che
quello non fu un errore ma una scelta. Il fatto é pur guidati da una
intenzione calunnniosa verso i dilettanti come e come Prodi, i
professionisti che misero allora in giro questa voce pensavano e
pensano che un governo non cade per un errore, ma solo nel momento in
cui è pronto a succedergli un altro governo e chi lo guida si è giá
assicurato un qualche futuro».

Ogni riferimento a D’Alema…
«Nessun
riferimento. Noi semplicemente riteniamo che un governo debba nascere
per decisione degli elettori e morire davanti agli elettori».

Lei ha condiviso ogni decisione del governo Prodi?
«Se rispondessi di sì, sarei un bugiardo».

Ha condiviso i Dico?
«Riconoscevo
nei Dico lo sforzo più avanzato di farsi carico della necessità di
riconoscere il valore della famiglia tradizionale e allo stesso tempo
la libertà di tutti i cittadini di condividere progetti di vita in
forme nuove».

Le coppie omosessuali hanno diritto di vedersi riconosciuto lo status di famiglia?
«Non
ho nessuna difficoltà a sostenere che la famiglia tradizionale abbia
connotati che la collocano su un piano diverso. Questo non esclude che
le coppie omosessuali possano veder riconosciuti diritti e libertá».

Cosa pensa dell’omosessualità?
«Se
mi chiede se sono un omosessuale posso dirle di no. È uno degli
orientamenti sessuali esistenti che considero con rispetto, nella
misura in cui non coinvolge valori e libertà altrui».

Come considera l’omosessualità nell’esercito?
«Se
l’Esercito é una parte della societá penso che in esso siano presenti
omosessuali come eterosessuali. Quanto ai problemi legati alla
convivenza é evidente che vanno affrontati di volta in volta».

Lei che è stato ministro della Difesa, crede che i gay siano discriminati nelle Forze Armate?
«Veniamo
da una cultura e da una tradizione che non riconoscono pari diritto
all’omosessualità. Non é difficile immaginare che nella quotidianitá
l’omlsessualitá incontri nelle Forze Armate una difficoltà maggiore,
non fossaltro che il ruolo del mito della virilità».

Lei è stato un ministro della Difesa più gradito agli avversari che ai suoi alleati della sinistra radicale.
«Spero
che ad essere stata riconosciuto é la mia idea che i nostri soldati
hanno il diritto di sentire alle loro spalle nun Paese unito, e che
noi, nel campo della Difesa piú che in ogni altro, abbiamo il dovere di
costruire questa unitá.».

Come giudica il suo successore, Ignazio La Russa?
«Siamo
arrivati alla Difesa da storie così diverse… Ma adesso é lui ad essere
caricato del doivere di costruire questa unitá. Pur muovendo da
posizioni diverse, e senza maidimenticare che io ora seggo tra i banchi
della opposizione, in questo impegno mi sentirá al suo fianco».

Che giudizio ha di Berlusconi?
«È il leader dello schieramento a noi avverso».

Che fa, parla come Veltroni?
«Intenzionalmente»,
ride. «Ma, ripeto, “il leader” non semplicmente il “maggior esponente”.
Come persona ze guidato in politica da una idea delle regole e della
democrazia per me inaccettabile e contro la quale mi sento impegnato a
battermi. Tuttavia non posso dimenticare che Berlusconi è anche il Capo
del Governo del mio paese legittimamente eletto, e mi rapporto con lui
cosí come si rispettano le leggi contro le quali ci si é battuti, e che
ci si propone di abrogare».

Se Berlusconi avesse fatto come
Barack Obama, che ha riconfermato Robert Gates, il ministro della
Difesa di George Bush, lei avrebbe accettato?
«Se
Berlusconi avesse operato in un sistema politico come quello americano,
mi sarei sentito interpellato. Ma trovandoci di fronte a un presidente
diversissimo da Obama, non avrei esitato un attimo a dire no, pur
essendomi separato con grande dolore dalla famiglia della Difesa».

Quanto le è servita la formazione alla Nunziatella nell’esperienza alla Difesa?
«Moltissimo.
Mi ha consentito di mettere tra parentesi con grande facilità i 35 anni
di attivitá di ricerca nell’Università e di riconoscere l’ispirazione,
i sentimenti e il linguaggio di tutti gli appartenenti alle Forze
Armate».

Un suo ex compagno di corso, Enzo Còncina, la ricorda “serissimo, molto colto, già professore, ma mai secchione”.
«Mi riconosco. Cambierei il “mai secchione”, troppo borghese, in “talvolta scapocchione”».

Lei
al primo anno fu sottoposto alla “prova del fuoco” dell’esplorazione
dei sotterranei della Nunziatella. Cosa ricorda del suo “battesimo”
militare?
«Rivendico un primato: penso di essere stato tra
i primi, o forse il primo, del mio corso che, attratto dalla
trasgressione, cedette alla tentazione di esplorare le “segrete” della
Nunziatella».

Cosa trovò lì sotto?
«Una volta,
essendomi perso senza pila, scoprii che può capitare si sentirsi
salvati scoprendo ci essere caduti in una tomba. Toccando con le mani
nel buio pesto riconobbi la tomba del monaco gesuita che era stato
sepolto lì e ritrovai la via d’uscita».

Anche lei usava quei sotterranei per le fughe notturne?
«No, anche perché confesso che non avrei saputo dove andare. Per me la trasgressione dell’esplorazione era un fine in sé».

È mai finito in cella di rigore?
«Una
volta. Ricordo che era estate, perché siccome non c’erano le coperte di
dotazione che noi piegavamo a soffietto trasformandole in un giaciglio,
dovetti dormire verament sul tavolaccio».

Mai fatto atti di nonnismo?
«No. A causa del crollo di una palazzina ci fu un restringimento del corpo dei “cappelloni”, ovvero le nuove leve».

Mai subìto atti di nonnismo?
«Hai voglia! Lo spegnimento di una sigaretta sul dorso della mano di cui mi sembra di riconoscere ancora le tracce».

Il
fratello di Enzo, Tony Còncina, dice che lei non ha mai perso un evento
dell’associazione degli ex allievi e ha sempre indossato la cravatta
della scuola da ministro nelle occasioni topiche. Anche lei fa parte
della “lobby” della Nunziatella.
«No, è solo un’amicizia trasversale».

Come è stata la sua infanzia?
«Finita a sei anni, quando davanti al cadavere di mio padre mi dissero che da quel momento il capofamiglia ero io».

Conserva un ricordo di lui?
«Le sue foto da ufficiale e i racconti si sovrappongono nella mia memoria».

Sua mamma che tipo era?
«Affettuosa
ed estroversa, ma radicalmente trasformata nel momento in cui si trovò
a dover svolgere allo stesso tempo il ruolo di madre e di padre».

Lei
crebbe nella famosa parrocchia San Giuseppe di Sassari, che annoverava
tra i suoi parrocchiani due futuri presidenti della Repubblica (Antonio
Segni e Francesco Cossiga), l’uomo che avrebbe guidato il Pci (Enrico
Berlinguer), un ministro dell’Interno in nuce (Beppe Pisanu), Luigi
Manconi, Gavino Angius…
«Ha orientato il mio destino, ho
guardato nella direzione in cui guardavano quelli che mi circondavano.
Se la mia comunità si fosse interessata della produzione di mattonelle,
a quest’ora forse sarei un industriale».

Nel ’66 lei e
Manconi diffondeste un volantino nelle chiese di Sassari contro
l’intervento Usa in Vietnam. Vi costò una sonora tirata d’orecchie del
Vescovo.
«Erano i tempi nei quali ero ancora vicepresidente nazionzale dei giovani di Azione cattolica. Ma fu un episodio isolato».

Anche
da piccolo doveva essere una peste. Cossiga racconta a tutti che, in
casa di Giagu de Martini, ras sassarese della Dc, lei si ostinava a
scorrazzare intorno al braciere e lui la prese sulle ginocchia
ammonendola: «Artullo, Artullo, attento che ti bruci il cullo!».

«Il
periodo della mia irregolarità è molto successivo, non riesco a
immaginarmi sulle ginocchia di Cossiga. Si sommano episodi diversi
nella sua memoria. Mi sono scottato con altri bracieri ma non con
quello».

Come si divertiva?
«Perlustravo il perlustrabile facendo trekking, campeggio, canoa…».

Mario Segni racconta che, durante i campeggi che facevate sul monte Limbara, lei spariva giorni e giorni in escursione.
«Ho fatto a piedi tutta la costa del Nord Sardegna, una lunghezza prossima ai mille chilometri».

Su quel monte costruì un albergo un medico sassarese che poi divenne suo suocero.
«Sì, ma ciò avveniva in tempi non sospetti».

Quando conobbe sua moglie?
«Anna
posso dire di conoscerla da sempre, essendo allora la mia dirimpettaia.
Ma all’inizio la vedevo senza guardarla. Poi capita che uno si applichi
con più attenzione e da uno sguardo si finisce sull’altare».

Ci sapeva fare con le ragazze?
«No…
Prima l’ambiente militare, poi quello cattolico,diversissimi da quelli
attuali, mi consentirono con l’altro sesso solo un rapporto a distanza.
Come vede anche per trovare mia moglie non ho fatto troppa strada».

Segni racconta che la vostra passione civile esplose
all’università quando, durante le elezioni degli organismi direttivi,
beccaste con le mani nel sacco il vostro avversario che tentava di fare
brogli.

«La politica universitaria era una forma precocemente
degradata di quella che annunciava molto prima quella che sarebbe stata
poi la dissoluzione dei partiti. Noi ci siamo trovati a doverci
confrontare con queste abitudini. Dovemmo scegliere se gareggiare sullo
stesso livello o prenderli di petto. Decidemmo di prenderli di petto».

A proposito di elezioni, cosa succederà dopo le Europee?
«Che
il Pd si trovi in difficoltà è ampiamente riconosciuto. Quello che non
riesco ad accettare è che non solo le elezioni europee non hanno al
loro centro l’Europa, e sono ancora na voltza elezioni che guardano
all’Italia, ma che nel nostro caso rischiano di trasformarsi in un
congresso di partito. Quando le conte e le decisioni non sono possibili
nei luoghi ordinari, si cercano dei luoghi straordinari».

Da dove verrà il futuro leader del Pd?

«Bisognerà cercarlo dappertutto, senza limitarsi alla piccola conventicola degli attuali capi del partito.