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20 Giugno 2008

Parisi, abbiamo bisogno di un partito nuovo non di un nuovo partito

Autore: Stefano Cappellini
Fonte: Il Riformista

Professor Parisi, torna a riunirsi la costituente democratica. Partiamo dalla fine: c’è qualche speranza che la relazione di Veltroni abbia il suo voto?
«Mi sembra molto difficile. Ma lo ascolterò senza pregiudizi. E svolgerò il mio intervento in modo ordinato».

Lei ha molto criticato Walter Veltroni per non aver riconosciuto a dovere la sconfitta del 13 e 14 aprile.
«No. È la provenienza politica dei voti a dare la prova del fallimento. Non è una questione di totali. Avrebbe infatti premiato la proposta di Veltroni più un 30 per cento con un afflusso dal centro e trasferimento a sinistra della nostra minoranza di sinistra, che il 33 per cento ottenuto col soccorso di voti di sinistra che riequilibrano a malapena le perdite verso l’astensione e la destra».


Lei ha contestato pure l’apertura di credito a Silvio Berlusconi. Però qualcosa si muove. Con la fine del dialogo, Veltroni sarà un po’ meno «Re ombra», come lei l’ha definito?

«Non si può fare così tanta strada in così tempo. Non si può passare dal dialogo con il “principale esponente dello schieramento a noi avverso”, cito Veltroni, e il suo “si può fare” di campagna elettorale, e alla fine scoprire che quell’esponente si chiama Berlusconi, come sospettavamo in molti».

Anche sulle alleanze future Veltroni si sta muovendo. Non la soddisfa la fine dell’autosufficienza del Pd?
«I gesti talvolta parlano da soli, ma più spesso hanno bisogno di parole che aiutino a comprendere. Le democrazia è trattare in pubblico le cose pubbliche. Siccome noi muoviamo da un passaggio in cui, come minimo, bisogna dire che gli elettori hanno dimostrato di non capirci, c’è bisogno di essere più espliciti. Dopo aver assistito al fallimento del cammino in avanti, non vorrei assistere ora al cammino all’indietro, e per giunta senza adeguata spiegazione e ammissione degli errori compiuti».
«Abbiamo esordito all’insegna della modernità e della democrazia governante che si affida ai vincitori e chiede ai vinti di riconoscere la sconfitta. Non mi pare che questo sia mai avvenuto da parte del gruppo dirigente del Pd. Veltroni aveva dichiarato tre obiettivi all’indomani delle primarie. Chiudere coi 15 anni precedenti, rinnovare le facce e cambiare le alleanze. Il paradosso è che è stato accontentato col risultato delle elezioni romane, dove gli elettori hanno deciso di chiudere coi 15 anni di amministrazione di centrosinistra, non hanno accettato la staffette tra le solite facce e nell’urna hanno detto: “Vuoi cambiare le alleanze? Le cambiamo noi per te…”».

E cosa dovrebbe fare Veltroni per allargare il fronte dell’opposizione?
«Assumendo una proposta programmatica, la svolga con atteggiamento inclusivo. Non si può fare come prima delle elezioni, quando è stato definito prima il quadro delle alleanze e poi il programma. E in che modo, poi. I radicali prima sono stati esclusi dal processo fondativo, poi rigettati come alleati esterni e alla fine accettati come componente distinta della rappresentanza parlamentare».


Nel partito c’è aria di tregua. Si discute solo sulla composizione della lista per la direzione.

«Si conferma la linea già intrapresa con la prima assemblea che io già salutai come un golpe, dato che le regole, così faticosamente elaborate ed enfaticamente raccontate, vengono disattese. Nello statuto sta scritto che la direzione si elegge con metodo proporzionale, cioè con voto personale dei delegati verso parti che siano politicamente riconoscibili, non sulla base di dichiarazioni di appartenenza etnica. Non riesco ad accettare che per la terza volta l’assemblea si concluda con un applauso per eleggere la direzione».

Nel Pd però tutti negano l’esistenza delle correnti.
«Altro che correnti. Noi non abbiamo solo territori, abbiamo enclave: gli albanesi di Macedonia, i serbi di Bosnia. Quando c’è sconcerto, ognuno si rinserra nei territori per difendere risorse e sopravvivenza».

Intanto Prodi, il fondatore del partito, si è tirato indietro da ogni ruolo nel partito futuro.
«La questione della sua rinuncia alle dimissioni da presidente non si è mai aperta. Si teme che la sua scelta venga letta come la presa d’atto della conclusione di una fase, la stagione dell’Ulivo, che Veltroni, Rutelli e Bettini hanno associato alla categoria della discontinuità. Questa preoccupazione è diventata ossessiva e spinge a non tenere in considerazione le motivazioni che Prodi aveva manifestato prima della sconfitta e che aveva tenuto riservate per non influire sulla campagna elettorale».

Anche Bindi, che vorrebbe presentare una mozione per respingere le dimissioni, sembra non tenerne conto.
«Non condivido l’iniziativa della Bindi, ma ne comprendo l’ispirazione. Lei dice: “non chiedo a Prodi di ritirare dimissioni, chiedo al partito di valutare che il rifiuto delle dimissioni deve partire dalla riconferma della linea ulivista abbandonata”. Ma non ci sono le condizioni affinché il confronto che lei auspica su questo terreno si svolga all’insegna della verità».


In conclusione, professore, il problema della leadership si pone o no?

«È in corso una durissima polemica sotterranea nella quale i singoli si preparano a raccogliere i risultati di una nuova sconfitta attesa, quella delle europee. Il rischio è che continuando così ci logoriamo tutti. Il problema non è la leadership, che riguarda la linea e va distinta dal leader. O si cambia linea o si cambia leader».