Roma – Due
fatti, nell’arcipelago referendario targato centro-sinistra, hanno smosso
l’attenzione: la candidatura di Walter Veltroni a leader del Pd e la
proposta di riforma elettorale di Enzo Bianco, presidente della Commissione
Affari costituzionali del Senato. Due novità di rilievo, soprattutto la
prima. Che tuttavia non hanno fatto cambiare opinione ad Arturo Parisi per
il quale il referendum elettorale è sempre più una priorità.
Il ministro della
Difesa propria a Veltroni rivolge un appello stringente: firmi e si impegni
per la consultazione popolare. In caso contrario, i sommovimenti
anti-politici potrebbero prevalere e allora sarebbero davvero guai seri per
tutti. Cominciamo dalla bozza di Bianco. «Si tratta di una ipotesi – spiega
Parisi – l’ipotesi di un testo base nel cui merito mi rifiuto di entrare nel
merito tanta è la distanza dalla legge della quale il Paese ha bisogno. Il
punto fondamentale è che all’inizio di maggio ci era stato promesso un
calendario che prevedeva entro giugno un voto conclusivo in commissione, in
modo tale che prima della pausa estiva il Parlamento potesse varare la riforma
almeno in una delle Camere. Anche solo a guardare alle date, una cosa dunque
è sicura, la possibilità che la riforma arrivi in porto nei tempi
preventivati è prossima allo zero.».
Ma non è solo questione di tempi,
ovvio. C’è anche una impasse politica evidente.
«Appunto. Mentre si dice di
voler cambiare la legge elettorale si varano proposte, sapendo che mai
saranno approvate. E, io dico, fortunatamente. Se approvate, peggiorerebbero
infatti ulteriormente la situazione».
Ministro, ma c’è anche – in verità
molti – chi sostiene che pure se passasse il referendum la situazione
peggiorerebbe, dando vita ad un rimedio peggiore del male…
«Peggioramento?
Dipende dall’obiettivo. Il nostro l’obiettivo è la difesa di un assetto
bipolare attraverso una legge di tipo maggioritario. La proposta che Bianco,
come presidente della commissione, è riuscito a presentare reintroduce
invece una logica proporzionale che mette in discussione il bipolarismo».
Insomma lei insiste: il referendum è l’unica strada…
«E’ l’unica
salvezza. Il referendum è lo strumento che la Costituzione offre ai cittadini
quando il Parlamento fallisce. Dobbiamo essere grati a quei volenterosi che
hanno messo nelle mani dei cittadini un’arma per difendere la democrazia
governante. Il fatto è che la legge elettorale vigente è da tutti definita
una porcata,e perfino Casini dice che l’attuale meccanismo impedisce la
governabilità del Paese. L’unica cosa condivisa è che l’attuale legge va
cancellata. Difronte allaimpreticabilità della via parlamentare ordinaria,
ognuno deve dunque assumersi le sue responsabilità».
Ma se il Parlamento
non ce la fa, è una sconfitta della politica, un propellente verso
l’anti-politica…
«Certamente. Il referendum è innanzitutto la risposta
alla crisi della politica che è sotto gli occhi di tutti. Una politica dai
costi crescenti e dai risultati calanti ma soprattutto una crisi di
legittimità. C’è un divario crescente tra il potere messo nelle mani dei partiti
e l’autorevolezza dei medesimi agli occhi dei cittadini».
Ministro, cosa
risponde a chi, come Mastella, annuncia che pur di non arrivare al referendum
è disposto a fare la crisi e ad andare a elezioni anticipate? La
sopravvivenza di Prodi da un lato, il referendum dall’altro: un gioco che
vale la candela?
«Ne sento altrettanti che accusano il governo di non avere
quella efficienza e quella forza che gli è stata sottratta dall’attuale
legge elettorale. Serve un sistema che assicuri all’esecutivo quella
governabilità di cui il Paese ha bisogno come dell’aria.».
Sono i piccoli
partiti la zavorra alla governabilità?
«No, sono i partiti piccoli, quelli
che non hanno una giustificazione storica sufficiente. Quelli la cui
esistenza è appesa ad un deputato conquistato o perduto. Il dramma è lo sviluppo
di dinamiche che moltiplicano in partiti in modo ingiustificato e accentrano
il potere nelle mani dei loro vertici. E a valle e a monte di questo sta
l’illegalità che segna la vita interna dei partiti».
Il Pd è in larga
parte per il doppio turno. Anche lei?
«Sì. Fin dal 95 la mia preferenza va al
doppio turno di collegio, per un sistema uninominale a doppio turno. Ma il
Pd deve trovare le sue ragioni di esistenza a prescindere dalla legge
elettorale».
Ministro Parisi, Veltroni si era schierato a favore del
referendum ma ora sembra un po’ più timido. Secondo lei deve impegnarsi di
più?
«Veltroni vede le cose che vediamo tutti…».
Sì però non firma il
referendum…
«Gli ho rivolto un appello per dirgli che non può limitarsi a
riconoscere l’utilità del referendum qualora il Parlamento non riuscisse a
raggiungere un accordo. E’ necessario che Veltroni si impegni
contemporaneamente perché in questi ultimi giorni il numero necessario di
firme venga raggiunto. Intanto firmando lui stesso, e poi partecipando alla
mobilitazione fiale per il conseguimento del risultato. Ricordo a tutti,
Veltroni compreso, che senza la spinta referendaria oggi la promessa che
tutto il centro-sinistra ha fatto in campagna elettorale di abolire la legge
attuale, sarebbe stata vanificata. Chiedo a Veltroni una cosa semplice: cosa
succederebbe se il referendum non raccogliesse le firme necessarie?».
Che
resterebbe l’attuale “porcata”, come dice lei…
«Non solo. Il processo che,
traendo spunto dal referendum, avanza alla politica la domanda di un
cambiamento profondo, cercherebbe altre strade. Più pericolose».
Del
tipo?
«Le strade che hanno come denominatore comune quel fenomeno che
chiamiamo populismo. Perchè il rifiuto delle forme e delle caratteristiche
della politica attuale sarebbe a quel punto così forte, crescerebbe così
tanto che prima o poi come i torrenti in piena la strada se la troverebbe da
solo. Ripeto. Il referendum è l’arma più importante data ai cittadini per
rispondere all’impotenza della rappresentanza istituzionale».
Insomma senza
il referendum l’anti-politica prenderebbe strade antidemocratiche e
anti-sistema. E’ così?
«Anti-sistema. Sì, è così».
Ministro, lei
conferma che il 14 ottobre si candiderà alla guida del Pd se Veltroni si
ritrovasse a correre da solo?
«La battaglia che conduco da anni per la
democrazia dei partiti e nei partiti, non mi lascerebbe alternativa che
candidarmi. Naturalmente: qualora ce ne fossero le condizioni. Nessuno è
così scemo da partecipare a gare delle quali è stato già proclamato il
vincitore».
E’ curioso che proprio lei possa rivaleggiare anni dopo con
Veltroni, l’ex segretario dei Ds a cui lei intimò di sciogliersi…
«No!
Ai Ds non dissi: scioglietevi. Dissi, sciogliamoci. E noi. il nostro partito, il
partito del quale ero allora segretario, lo sciogliemmo. La mia richiesta
non è cambiata. Sciogliersi vuol dire mescolarsi, non semplicemente sommarsi
mantenendo le distinzioni. Esattamente l’opposto di quello che sta
succedendo nel Pd, che, invece di mescolare le diverse storie, rischia di
nascondere dietro un plebiscito, la frammentazione dei partiti esistenti dando
vita ad un nuovo sistema di correnti».