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30 Aprile 2010

Parisi a San Lazzaro di Savena, il 25 aprile: “Solo nella liberta’ e nella democrazia ci puo’ essere vera riconciliazione nazionale e politica”

 SAN LAZZARO DI SAVENA 25 aprile 2010

 Cittadini di San Lazzaro, partigiani, combattenti, amici scout polacchi che
 siete qua oggi tra noi, ospiti imprevisti e tanto piu’ graditi

 Sessantacinque.
 Sono ormai sessantacinque gli anni che ci separano da quel 25 aprile del
 1945 che siamo qua riuniti a ricordare a San Lazzaro in unita’ di intenti
 con tutti gli italiani.

 Sessantacinque anni.
 Sul piano collettivo un periodo che rappresenta gia’ oggi gran parte della
 nostra storia unitaria della quale ci apprestiamo a celebrare il
 centocinquantesimo anniversario.

 Sul piano individuale tutta intera la vita attiva di quanti nascendo in
 quella primavera annunciavano allora con i loro primi vagiti la speranza e
 il desiderio di vita dei loro genitori.

 Inesorabilmente il tempo assottiglia il numero di quanti vissero quella
 giornata.
 Gran parte dei protagonisti di quei fatti e dei testimoni di quei giorni
 non e’ piu’ tra noi.
 E molti tra quanti hanno avuto la possibilita’ di raccogliere dalla loro
 viva voce la testimonianza di quella stagione cominciano a lasciarci.

 Proprio per questo come popolo e come singole persone abbiamo piu’ che mai
 necessita’ di ritrovarci, di ritrovare la memoria comune, per celebrare
 nella concordia le ricorrenze scelte per rinsaldare i valori che abbiamo
 posto a fondamento del patto che ci lega come cittadini.

 Come ritrovare, il senso, il sapore di quei giorni?
 Come trasmetterli alla generazione che quei giorni non visse e non senti’
 narrare?

 E’ la domanda che ci angustia in giorni come questi nei quali sembrano
 talvolta tornare in questione le conquiste che allora sembravano
 conquistate per sempre:
 la pace, la liberta’, l’unita’ del Paese.

 Non credo ci sia a questo fine di meglio che ascoltare direttamente la voce
 di quanti allora morirono pensando non ai loro giorni passati ma ai nostri
 giorni futuri.
 E il mio pensiero va alle “Lettere dei condannati a morte della resistenza
 italiana”, la cui lettura accompagno’ in anni lontani la mia formazione
 giovanile, e che vorrei accompagnasse ancora la formazione dei nostri
 giovani.

 “Concepite nel momento piu’ solenne della vita, un momento che non a tutti
 e’ dato di vivere, quando in piena lucidita’ e coscienza si e’ faccia a
 faccia con se stessi, esse ci parlano ancora – come nota Gustavo
 Zagrebelsky introducendo l’ultima riedizione per Einaudi (Torino, 2003) –
 con le parole autentiche di chi quelle parole ha vissute trasformandole
 nella pratica della vita”.

 Invitato, invano, gia’ due anni fa dal vostro sindaco a celebrare questa
 stessa giornata sul finire del mio ministero alla Difesa avevo conservato
 una di queste lettere che ho ritrovato ieri mentre preparavo questo
 discorso.
 Una lettera toccante come altre, ma per me allora e ancor oggi con un
 accento del tutto particolare.

 “Non avrei mai creduto che fosse cosi’ facile morire.”
 E’ il capitano Franco Balbis che ci parla.
 Un giovane ufficiale, oggi diremmo un ragazzo, che dopo aver combattutto in
 Africa e in Croazia, non aveva esitato dopo l’8 settembre ad entrare nel
 Comitato di Liberazione Piemontese, e che scrive, mentre si prepara ad
 essere fucilato da parte di un plotone di militi fascisti della Guardia
 Nazionale della Repubblica Sociale a seguito della condanna del Tribunale
 Speciale per la Difesa dello Stato.
 “Non avrei mai creduto che fosse cosi’ facile morire. Davanti alla mia
 ultima ora mi sento sereno e tranquillo e se sul ciglio brilla una lagrima
 e’ perche’ penso allo strazio dei Miei.
 E’ questa la tragedia mia nel presentarmi a Dio.
 Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unita’ italiana e per
 riportare la nostra Terra ad essere onorata e stimata nel mondo intero.
 Lascio nello strazio dell’ora presente i miei genitori, da cui ho imparato
 come si vive, si combatte e si muore; li raccomando alla bonta’ di tutti
 quelli che in terra mi hanno voluto bene.”

 E, forse immaginando le incomprensioni e la solitudine che negli avvenire
 avrebbero accompagnato, le giovani morti dei suoi compagni d’arme in
 Africa, continua
 “Desidero che vengano annualmente celebrate, in una chiesa delle colline
 torinesi due messe:
 una il 4 dicembre anniversario della battaglia di Ain el Gazala; l’altra il
 9 novembre, anniversario di El Alamein;
 e siano dedicate a tutti i miei Compagni d’Arme che in terra d’Africa hanno
 dato la vita per la nostra Italia.
 Prego i miei di non portare il lutto per la mia morte: quando si e’ dato un
 figlio alla Patria,..non lo si deve ricordare col segno della sventura.
 Con la coscienza sicura di aver sempre voluto servire il mio Paese con
 lealta’ e onore, mi presento davanti al Plotone di esecuzione col cuore
 assolutamente tranquillo e a testa alta. Possa il mio grido “Viva l’Italia
 libera” sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la
 morte;
 per il bene e per l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera
 per le quali muoio felice.”

 Avevo ritrovato questo testo quando, non senza registrare polemiche e
 incomprensioni, mi ero recato da Ministro ad El Alamein a rendere omaggio
 alla memoria delle migliaia di ragazzi italiani morti da giusti dalla parte
 sbagliata.
 Lo rileggo ora consapevole della difficolta’ che in troppi hanno oggi a
 ritrovare il senso di parole che vanno allontandosi nel tempo.

 L’affetto per la famiglia,
 la solidarieta’ per i compagni,
 l’amore per la Patria terrena,
 la passione per la liberta’,
 la certezza che l’ultima ora non e’ l’ultima,
 il dovere, l’onore, la lealta’, la bandiera.
 Parole lontane che abbiamo dimenticato,
 parole che nelle priorita’ dei valori, delle cose che valgono, hanno ceduto
 il passo ad altre.

 E tuttavia e’ qua che dobbiamo tornare quando in una giornata come questa
 cerchiamo le radici del nostro stare assieme pensando al nostro futuro.

 Quanti di noi sarebbero oggi in condizione di ripetere parole come queste?
 E tuttavia e’ in parole forti, in sentimenti forti come questi,
 magari con parole diverse ma forti come queste che dobbiamo infatti cercare
 la risposta alla domanda che il Presidente Ciampi si pose a Cefalonia
 ricordando (il primo marzo del 2001) il sacrificio di 9436 soldati della
 Divisione Acqui che nel settembre del 1943 aprirono la lotta di Liberazione
 attraverso quella che fu di fatto una vera e propria votazione,
 per quasi tutti la prima e l’ultima della loro vita,
 scegliendo di rifiutare l’intimazione di resa dei tedeschi.

 “Dove trovarono tanto coraggio, questi ragazzi ventenni”
 Dove trovarono la forza che gli consenti’ di affrontare una sorte tragica
 senza precedenti?
 Quali le radici della compostezza e della fierezza che in tanti mostrarono
 difronte alla morte?
 Si chiese allora il Presidente Ciampi.
 E riconobbe nei valori nazionali e risorgimentali la forza che diede
 compattezza alla scelta di combattere.
 “Noi che portavamo allora la divisa – ricorda Ciampi allora giovane
 sottotenente – noi che avevamo giurato, e volevamo mantenere fede al nostro
 giuramente ci trovammo d’improvviso allo sbaraglio privi di ordini.
 Interrogammo la nostra coscienza.
 Avemmo per guidarci solo il senso dell’onore, l’amor di Patria maturato
 nelle grandi gesta del Risorgimento.
 Dimostrammo cosi’ che la Patria non era morta.”

 Certo alla origine della lotta senza speranza di Cefalonia,
 all’origine del coraggio dei granatieri del Battaglione Sassari che assieme
 a gruppi di semplici cittadini romani affronto’ i tedeschi a Porta S.Paolo,

 all’origine della resistenza delle divisioni Ariete e Piave che
 contrastarono nel Lazio l’avanzata delle truppe tedesche, all’origine dello
 stesso sacrificio della squadra navale al largo dell’Asinara con
 l’affondamento della corazzata Roma,
 sta il senso di fedelta’ alle istituzioni legittime e la fedelta’ alla
 Patria.
 E lo stesso valore, lo stesso sentimento sta all’origine dei sacrifici e
 del valore del Corpo Italiano di Liberazione dalla battaglia di Montelungo
 fino alle azioni del Gruppo di combattimento Friuli che propio qua scrisse
 una delle sue pagine di gloria, e tra noi continua ad essere presente nella
 Brigata Aeromobile che ne continua la tradizione.
 E questo stesso sentimento sta nella scelta che porto’ centinaia di
 migliaia di nostri soldati a preferire di vivere liberi nei campi di
 prigionia piuttosto che tornare da servi in Patria.

 Ma questo sentimento che avevamo ereditato dal primo Risorgimento non
 sarebbe mai diventato sentimento di massa, senza la lunga fermentazione
 della lotta antifascista durante l’infinito ventennio.

 “Mentre nel primo Risorgimento furono protagonisti minoranze della piccola
 e media borghesia, nel secondo Risorgimento protagonista fu il popolo.
 Vi parteciparono in massa operai e contadini, i figli di quella classe
 lavoratrice che sotto il fascismo aveva visto affrontare con fierezza le
 condanne del tribunale speciale.” Voglio ricordarlo con le parole che
 Sandro Pertini pronuncio’ alla Camera esattamente quarantanni fa (il 23
 aprile 1970). “Su 5619 processi svoltisi davanti al tribunale speciale 4644
 furono celebrati contro operai e contadini. E la classe operaia partecipa
 agli scioperi sotto il fascismo e poi durante l’occupazione nazista,
 scioperi politici, non per rivendicazioni salariali, ma per combattere la
 dittatura e lo straniero…Saranno i contadini del Piemonte, di Romagna e
 dell’Emilia a battersi e ad assistere le formazioni partigiane. Senza
 questa assistenza offerta generosamente dai contadini la guerra di
 Liberazione sarebbe stata molto piu’ dura.
 Il ricordo di Luciano Bracci, giovane meccanico, partigiano nella 62ma
 brigata Garibaldi, in questa piazza a lui dedicata e’ qui a testimoniare in
 modo esemplare la radice popolare della Resistenza.
 “Senza questa tenace lotta della classe lavoratrice non sarebbe stata
 possibile la Resistenza, – disse allora Pertini – senza la Resistenza la
 nostra Patria sarebbe stata maggiormente umiliata dai vincitori e non
 avremmo avuto la Carta Costituzionale e la Repubblica.”

 Le stesse identiche convinzioni di un ex combattente del Gruppo di
 Combattimento Friuli “La liberta’ gli alleati ce l’avrebbero data in ogni
 caso, ma la dignita’ no. Quella ce la siamo conquistata sui campi di
 battaglia con i nostri sacrifici, i nostri feriti, i nostri Morti. E la
 liberta’ senza la dignita’ vale ben poco.” (Romano Rossi,12.12.2009, “Torre
 Azzurra” Voce del Museo Divisione Gruppo di Combattimento Friuli)

 Senza queste convinzioni che unirono nella lotta alle truppe alleate le
 nostre Forze Armate, i nostri soldati, che l’8 settembre erano stati
 abbandonati a se stessi si sarebbero defintivamente sbandati. E, mentre
 tutti fuggivano disordinatamente verso propria casa privata, avremmo perso
 definitivamente quella casa di tutti che chiamiamo la Repubblica.

 Solo la fatica e il dolore che in quei mesi fa ritrovare agli italiani
 l’Italia puo’ spiegare il sentimento di sincera corale liberazione che
 accoglie come liberatori quello che per la gran parte degli italiani era
 stato fino a due anni prima il nemico.

 La vicenda di San Lazzaro mi appare da questo punto di vista emblematica.
 In una sola settimana la citta’, che gia’ aveva perso, tra civili, militari
 e partigiani piu’ di cento suoi figli, si trovava a sperimentare la
 distruzione materiale di due terzi del suo abitato completata col durissimo
 bombardamento alleato del 15 aprile e a salutare il 21 aprile come una
 liberazione l’ingresso delle forze alleate quando col passaggio sulla riva
 occidentale dell’Idice le prime unita’ polacche aprono la via per Bologna.

 E il nostro pensiero non puo’ non andare di nuovo grato ai nostri amici
 polacchi che sono qua tra noi e con noi ad onorare i 1418 morti che nel
 loro cimitero militare a distanza di migliaia di chilometri dalla loro
 terra materna vegliano a pochi passi da noi sulla amicizia tra i nostri due
 popoli ora accomunati, anche grazie a quel sacrificio, nell’unica casa
 europea.

 Solo il rifiuto troppo a lungo represso del fascismo, la rivolta dei
 giovani contro il reclutamento militare al servizio dei tedeschi nella RSI,
 l’affermarsi della guida dei partiti democratici alla testa della del
 sentimento di riscatto nazionale, solo la partecipazione delle nostre forze
 armate alla liberazione del Paese, solo la rivolta e la lotta partigiana
 fece di un popolo sconfitto il protagonista della propria storia.
 Senza questa dolora via crucis l’Italia non sarebbe piu’ risorta. Quelli
 nei quali ci ricoscevamo come liberatori, si sarebbero ridotti a occupanti
 stranieri.

 Che cosa festeggiavamo dunque quella mattina di 65 anni fa?
 Che cosa gridavano le ragazze e i ragazzi, i cittadini di ogni eta’ e
 condizione che lungo la via Emilia si ritrovarono nelle piazze, accorrendo
 festanti a piedi, in bicicletta, o sui carri?
 Gridavano che l’inverno era finito, che era tornata la primavera la nostra
 primavera, era arrivato il nostro aprile.
 Che iniziava un’altra storia, una storia che avremmo scritto assieme in
 nome della liberta’.

 E’ un sentimento che chi non ha vissuto quelle giornate puo’ solo spiare
 nei volti che ci tramandano le foto e cercare nei canti che, suonando Bella
 Ciao e Val Sesia, la banda ha fatto risuonare ora per noi.

 Innanzitutto era finita la guerra, il tempo nel quale la morte perde il suo
 volto umano e diventa statistica.
 Milioni di italiani mandati a combattere, a scoprire nel dolore l’asprezza
 della geografia e le contraddizioni della storia. Si fa in fretta a dire “i
 deserti africani”, “le steppe russe”, “i monti Balcani”. Quelli che sui
 banchi di scuola erano stati solo nomi si erano tradotti in pochissimo
 tempo per milioni di italiani in una dolorosa e durissima esperienza. Una
 catastrofe!
 Se l’albero si vede dai frutti, ora il frutto della guerra, gli sterminii,
 l’olacausto di milioni di nostri fratelli nei lager, le distruzioni,
 rendevano a tutti evidente senza possibilita’ di appello che l’albero del
 nazifascismo era stato un albero velenoso. Difronte a quel fallimento, a
 quel bilancio disastroso, non c’era addendo col segno positivo che potesse
 correggere in alcun modo il risultato.
 Era giunto finalmente il momento del riscatto e della ricostruzione.

 Finiva quel giorno poi la stagione della divisione del Paese.
 Ieri il Presidente Napolitano lo ha detto a Milano in modo chiarissimo,
 ricordando il passato per parlare al presente.
 “il 25 aprile non e’ solo Festa della Liberazione: e’ Festa della
 riunificazione d’Italia…L’Unita’ del Paese rappresenta una conquista
 irrinunciabile e non puo’ formare oggetto di irrizione, ne’ considerarsi un
 mito obsoleto, un redisuo del passato.”
 Con la Resistenza abbiamo riconquistato per la seconda volta la nostra
 indipendenza e la nostra unita’ nazionale.
 Per venti mesi l’Italia era stata spaccata in due.
 Il 25 aprile fu percio’ la nuova conquista nella liberta’ e nella
 democrazia, di quella Unita’ che monarchia e dittatura avevano rotto.

 Si apriva la possibilita’ di una riconciliazione, anche se allora solo una
 possibilita’. Come dimenticare che mentre in quei giorni i piu’ gioivano,
 altri tremavano?
 Mentre i piu’ esultavano, altri si nascondevano e fuggivano?
 Lo voglio ricordare oggi per onore della verita’ e allo stesso tempo per
 gioire del cammino che abbiamo fatto assieme.

 Ogni stagione ha i suoi semi e i suoi frutti.
 Il frutto di quella stagione di lotta fu la liberta’ e la democrazia.
 Il frutto della nostra stagione di pace, la stagione della liberta’ e della
 democrazia, si chiama riconciliazione, un frutto che per maturare ha
 bisogno della fraternita’ e della pieta’. Pieta’ innanzitutto per i morti,
 per tutti e per oguno.
 Ma la pieta’ non ci impedisce, anzi ci impone di ricordare la profonda
 diversita’ delle scelte per cui i morti di allora combatterono e morirono.
 E tuttavia ci impone allo stesso tempo di chiederci, prima di giudicare gli
 altri, prima di inorgoglirci per meriti che forse non abbiamo “se esposti
 alle stesse influenze e agli stessi condizionamenti non saremmo finiti
 anche noi per comportarci nello stesso modo.” E’ quello che citando Desmond
 Tutu, il mitico Vescovo nero sudafricano, ci invita a fare Zagrebelsky
 (introducendo appunto l’ultima edizione delle “Lettere dei condannati a
 morte della Resistenza”).

 Questo per quel che riguarda gli interrogativi sui meriti e le colpe. Resta
 tuttavia ferma la convinzione che solo nella liberta’ e nella democrazia ci
 puo’ essere vera riconciliazione nazionale e politica.

 Le dittature conoscono infatti solo l’annientamento dei vinti, non la
 riconciliazione.

 Oggi e’ il giorno per ricordarlo e per testimoniarlo.

 Grazie al sacrificio di quanti scelsero allora la liberta’, tutti noi
 viviamo da 65 anni nella pace. Grazie al loro sacrificio e al cammino che
 ne e’ seguito quella che fu a lungo per molti una festa di parte, la festa
 di una parte contro un altra e’ oggi per noi una festa di tutti, non piu’
 un giorno per troppi di divisione, ma un giorno di unita’.

 Questo vogliamo qua ricordare. Di questo vogliamo ringraziarli e allo
 stesso tempo rassicurarli.

 Consegneremo ai nostri figli cosi’ come l’abbiamo da essi ricevuta.

 Una Italia pacifica, una Italia libera, una Italia unita.