“Ma perchè? Noi dovremmo fare come le foche al circo, e dimenarci in una competizione tra noi, solo per far divertire Parisi!”. E’ possibile che Piero Fassino non ricordi più la battuta con la quale affrontò quella che a lui appariva la mia imprudente impazienza. Ma io lo ricordo come se fosse ieri. E ancora mi viene da sorridere. Erano i tempi del Comitato Promotore del Pd, quello dei 45 quando, più o meno sei anni fa, il progetto del nuovo partito muoveva i primi passi e, poichè tutto inizia dall’inizio, faceva i primi conti con i nodi che accompagnano ancora oggi la vita del partito. Tra i primi quello del modo in cui selezionare la leadership e il gruppo dirigente. Da una parte quelli che difendevano le ragioni di un accordo e di norme che favorissero nella continuità col passato il massimo di unità e il più ampio coinvolgimento attorno ad una preesistente sintesi unitaria. Anche se poi aggiungevano: almeno in quel passaggio fondativo. Dall’altra quelli che con me affidavano l’affermazione della novità ad un aperto confronto dialettico e ad una scelta tra le alternative già allora visibilmente in campo. E aggiungevamo: proprio perchè quello era il momento fondativo. Da una parte la cultura del “presto e bene raro avviene”, dall’altra la convizione che “chi ben inizia è alla metà dell’opera”. Fu così che finimmo al tardi e male. Più precisamente fu così che per dar ragione a tutti si optò a parole per la democrazia del confronto e della scelta, e nei fatti per quella dell’accordo e del compromesso. Le primarie per la scelta del leader furono ancora una volta ridotte a consacrazione di una scelta precostituita dal gruppo dirigente. La scelta precostituita fu affidata alla moltiplicazione delle liste. La consacrazione del leader fu svuotata del suo senso politico e ridotta ad una investitura personalistica. Col risultato di poter certificare ogni volta chi vince ma non la linea politica che ha prevalso.
Nel momento nel quale il partito si accinge a decidere sul se, il come e il quando andare a Congresso, ricordando le scelte fatte, quelle non fatte, e ancor più quelle nei fatti disfatte, mi sia permessa qualche raccomandazione. Innanzitutto se Congresso deve essere Congresso sia. Chi ha l’età per ricordare cosa erano i Congressi di partito quando i partiti esistevano ancora, sa che il Congresso era sì una occasione per rinnovare i dirigenti ma innanzitutto per scegliere, sulla base di un dibattito aperto e spesso drammatico, una linea di condotta per il futuro. Raccontino quelli che hanno memoria cosa furono i congressi di partito all’inizio degli anni 60 ai tempi dell’apertura a sinistra, e quelli che si confrontarono poi con la crisi degli anni 70. Il prezzo dell’allargamento grazie alle primarie della partecipazione degli elettori alla scelta non può essere la dissoluzione della scelta. Una scelta che sia stata indirizzata verso un esito preordinato è un imbroglio. E un imbroglio peggiore è se l’esito preordinato è privo di contenuto politico perchè fondato sull’aggregazione di forze che sostengono tutto e il contrario di tutto, ancor peggio se dichiaratemente finalizzate attraverso la moltiplicazione delle liste a misurare il peso dei sostenitori del tutto e il peso del contrario di tutto.
Quale che sia la loro natura formale le prossime primarie sono la prima occasione per gli elettori che hanno votato Pd e di quelli che vogliono votarlo in futuro per esprimere un giudizio tra le linee che si contrappongono sul futuro della nostra democrazia e del governo del Paese, quel giudizio che pensavano di aver espresso il 25 febbraio e che il risultato del voto ha reso vano.
Si sottopongano perciò agli elettori le due principali alternative in campo. Quella di chi ha subito, di buongrado o suo malgrado, la linea interpretata dall’attuale governo e chiede che venga al più presto superata. E quella di chi, al di là delle dichiarazioni, ritiene che il Paese debba accettare l’idea di un governo di larghe intese che, senza termini predeterminati, metta le premesse per un diverso futuro.
Quella di chi crede nella urgenza di tornare ad una democrazia dell’alternabilità e del rinnovamento fondata su una regola maggioritaria che favorisca la competizione. E quella di chi crede che questo sia uno schema inadatto al Paese e sia invece preferibile scommettere sulla continuità e la durata grazie ad una regola proporzionale che attenui la competizione e spinga ad un accordo con il maggior numero di forze possibile.
Non è accettabile invece una conta che misura ancora una volta il peso dei singoli politici, ma niente decide sulla politica da seguire, e, peggio, accetta nei fatti una linea di accordo consociativo giustificandola con lo stato di necessità, mentre rinnova a parole e rinvia a un indefinito domani una scelta di segno opposto.
Intervenendo qualche giorno fa su Europa Castagnetti ha rimproverato Renzi di aver accusato ingiustamente Letta di “pensare alla seggiola”. Io, che non condivido il giudizio di Castagnetti sull’operato del governo, dico invece all’opposto che se Letta crede, come io son sicuro che creda, all’incarico che si trova a svolgere, prima che il diritto, ha il dovere di difendere la sua nscomoda “seggiola”. Senza una spiegazione, una difesa, e la ricerca esplicita del consenso del quale il governo attuale è privo, il governo uscirebbe dal Congresso più debole di come ci è entrato.
Guai se nel Congresso che si apre si parlasse di tutto all’infuori che del governo, della sua nascita, della sua vita, e della sua fine, illudendoci di saltare il presente, per dedicarci a parlare del futuro o di altro.
Che il governo sia quello attuale o uno che nasce da nuove urgenti elezioni, la sua azione può trovare la sua forza solo in un forte ed esplicito mandato popolare, quel mandato, ripeto, del quale ora non dispone. Il Congresso Pd è da questo punto di vista un passaggio decisivo.
A Letta che ha oggi dichiarato che di questo è consapevole “e al momento opportuno lo dimostrerà giocando d’attacco”, si deve rispondere che il momento è questo. Sia da parte di chi in questo governo crede, sia da parte di chi pensa di aver una alternativa da contrapporgli. Partecipi perciò Letta al Congresso in prima persona in difesa del suo governo. Conquisti alle sue ragioni e alle sua speranze la base democratica in un confronto aperto con altre ragioni e altre speranze. Solo così il Congresso può farsi strumento per un cammino che riinizia al servizio del paese.