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29 Giugno 2007

Ma al plebiscito non ci sto

Autore: Marco Damilano
Fonte: L'Espresso

Il Candidato alternativo passeggia su e giù in una stanza al primo
piano di palazzo Baracchini, il suo ufficio da ministro della Difesa.
Arturo Parisi non ha mandato giù il metodo “che in politica come
abbiamo visto lungo tutti questi anni è sostanza” che è stato seguito
per la scelta di Veltroni. L’inventore dell’Ulivo e della introduzione
in Italia delle primarie, ancora una volta, è in minoranza nel Pd, o
almeno nel gruppo dirigente dei partiti, e questa volta critico con il
candidato che lui stesso ritiene il più adatto a guidare il nuovo
partito. Una beffa.
«Sottoscrivo in pieno una battuta di Antonio La
Forgia: Veltroni è per me il candidato migliore, e tuttavia, se
proposto come candidato unico, il candidato peggiore». Per evitare il
rischio, il professore sardo che dagli anni Novanta insegue il sogno
dell’unità di tutti i riformisti, è pronto a correre in prima persona:
«Una candidatura di servizio, per realizzare il progetto. In assenza di
candidati alternativi credibili, e penso innanzitutto ai giovani, ai
famosi giovani-giovani che ora dovrebbero scendere in campo per
rappresentare idee alternative a questa dinamica, ho idea che sia
costretto a candidarmi». Alla vigilia del discorso di Torino di Veltroni
nel Pd ancora si inseguono voci, candidature, auto – candidature. Il
ministro dello Sviluppo Economico Pierluigi Bersani è l’oggetto del
desiderio, da più parti. Per Parisi solo la libera competizione tra due
diessini potrebbe dimostrare che una fase è finita.

“Che a scioglierci
non sono stati solo gli altri ma anche loro. Scioglierci in una unità
più grande.” Prospettiva remota: non vuole Massimo D’Alema, non vuole
neppure Piero Fassino. Hanno scelto di indicare Veltroni per tutelare
l?unità del partito, l’unico bene che non possono permettere che si
rimetta in discussione. «Facciamo un passo indietro», racconta Parisi.
«Una settimana fa sono stato io a chiedere a Veltroni di candidarsi.
Lui, con lealtà, aveva combattuto contro l’idea che il segretario
potesse essere scelto con le primarie. Io lo ritenevo e lo considero in
candidato migliore: quello che meglio di tutti riesce a rappresentare
la pluralità di storie che si muovono dentro il perimetro del Pd e a
comunicarle. Anche senza farmi e senza fargli sconti: ricordo bene il
passaggio del ’98 e la risposta che mi diede nel Duemila. E tuttavia
speravo che potesse essere il punto di riferimento prezioso di quel
ri-inizio che deve portarci tutti a mescolare le nostre storie nel Pd».
Parisi ‘solo per rispetto della verità’ non dimentica la crisi del
primo governo Prodi nel 1998, quando Veltroni in poche ore si spostò
dall’appoggio totale al Professore, di cui era vice-premier, a D’Alema
spinto ad andare a Palazzo Chigi. Né la risposta quasi sprezzante che
Veltroni gli diede dal palco del congresso di Torino nel 2000, dopo che
l’allora leader dell’Asinello aveva chiesto con un’intervista a ‘Repubblica’ di sciogliere i rispettivi partiti, i Ds, e i Democratici
che poi si sciolsero per la Margherita, e dare vita, già allora, al
partito dei Democratici.

Divisioni politiche, non personali. Il
giudizio su Veltroni di Parisi è benevolo, anche se sottilmente
perfido: «Non mi nascondo i suoi limiti, ma chi non ne ha? Limiti
legati alla categoria della leggerezza, che gli viene rinfacciata anche
con qualche ingenerosità. Uno non può essere troppo comunicativo e
troppo profondo. Quando la tua prima esigenza è comunicare c’è qualche
prezzo da pagare alla profondità e alla verità. Ma io, in ogni caso,
non ho mai immaginato di candidare il Veltroni intellettuale di cui
sento parlare in questi giorni». Il dissenso di Parisi è tutto legato al
modo con cui si è arrivati al nome di Veltroni: la candidatura unica.
«Una scelta affidata ai vecchi partiti, figlia di una dinamica di tipo
verticistico», scandisce l’uomo che dal 1995, spesso da solo, non ha
mai smesso di battersi per il Partito Democratico. «In questo modo
quello che nasce non è il Pd, quello che nasce è il partito del
presidente. Io credo che non basti: quello che serve è un partito che
innervi la società italiana, che viva a prescindere da chi lo presiede.
Noi abbiamo immaginato il Pd non come lo strumento in mano a un leader,
ma come un partito vero che si fa carico del presente e del futuro e
che apre una prospettiva per il tempo medio, superiore al tempo del
governo. È questa la soluzione che abbiamo trovato rispetto alla crisi
della democrazia italiana: un partito nuovo. Priva del riferimento ad
un partito nuovo non resta che una riforma costituzionale di tipo
presidenzialistico. Negli ultimi mesi ha condizionato il suo ritorno
nella politica nazionale al cambio di regole. Se Veltroni non fa di
questa battaglia la sua prima battaglia, rischia di diventare solo una
continuazione del passato.

Quello che rischiamo è uno scenario
municipale: un sindaco e tanti piccoli gruppuscoli personali. Con una
piccola differenza: che a livello nazionale nell’assetto attuale il
sindaco non è previsto, ma i gruppetti esistono già».Parisi non sembra
farsi illusioni: «Non è la prima volta che un candidato prescelto
delude proprio quelli che lo hanno designato. Al momento però Veltroni
ha deluso noi che gli avevamo affidato tutte le nostre speranze,
nonostante tutto. Si è assicurato invece l’appoggio delle macchine di
partito in quanto tali, di Fassino in quanto segretario dei Ds, e dei
popolari che hanno firmato la sua candidatura mettendogli come numero
due Franceschini, da sempre il successore designato di Franco Marini.
Se non intervengono correzioni radicali ho paura che la frittata sia
fatta: resta solo un regolamento per l’elezione dell’assemblea
costituente che certifichi e pesi le correnti. Siamo più indietro del
punto di partenza».Eppure, per dodici anni l’Ulivo ha funzionato così:
con un candidato unico e naturale chiamato Romano Prodi. Ora che non è
più lui il candidato è troppo tardi per capire che il meccanismo si è
inceppato. Replica Parisi. «Certo che Prodi è stato scelto nel ’95
nello stesso modo. Ma sono pur passati dodici anni. Ho paura che siano
passati invano. E ora rischiamo di trovarci rispetto al ’95 con un
Ulivo più piccolo nell’anima, e, se mi è consentito, anche nel
corpo».

Un attacco bruciante, dato che viene da chi ha ideato e difeso
l’idea dell’Ulivo. «Non c’è confronto politico: la pluralità delle
liste sono un vestitino da mettere su un corpo già formato. Per fermare
questo processo serve un soprassalto che ostacoli l’entrata in campo
del sistema partitico in quanto tale. Quelli che ervono sono i liberi e
forti che resistano all’antica regola di tutte le sinistre italiane:
meglio sbagliare insieme che avere ragione da soli. Il peggiore difetto
che viene contrabbandato per la migliore virtù: con la scusa della
solidarietà copre il rifiuto del rischio e della responsabilità».Anche
nel caso della candidatura Veltroni, secondo Parisi, la regola non è
stata smentita: «Il vero motivo per cui in poche ore si è arrivati alla
candidatura Veltroni è che arrivati al dunque hanno tutti dovuto
confrontarsi con il rischio della competizione, col rischio di restare
fuori. Hanno avuto paura che Veltroni vincesse da solo. Altro che Stati
Uniti o Francia: da noi nel Dna abbiamo il terrore della esclusione dal
branco. Quando si ha l’idea che qualcuno abbia già vinto, ti ritrovi in
poche ore in stanze affollate di gente che non avevi mai visto prima».
E dunque, in assenza di altri candidati, toccherà a Parisi immolarsi
come un kamikaze per il bene del progetto “Se nessun altro si fa
avanti. Sempre che ce ne siano le condizioni e che si possa giocare ad
armi pari: se il leader è già deciso mi potete chiedere una candidatura
di servizio, non la certificazione che sono un cretino! Chi
parteciperebbe mai ad una gara della quale è stato già proclamato il
vincitore?».