«L’Unità» celebra la figura di Palmiro Togliatti e il prodiano Arturo Parisi vi legge la fine del sogno ulivista. E con essa il declino definitivo della centralità politica di Bologna.
Professor Arturo Parisi, lei è stato tra i promotori del Pd, dell’Ulivo, delle primarie e del sistema maggioritario in Italia, nonché ministro del governo Prodi. Qualche giorno fa l’Unità ha «riabilitato» la figura del segretario del Pci Palmiro Togliatti e lei ha manifestato dure riserve. Perchè?
«Per la verità non riesco a ricordare condanne di Togliatti, di certo non sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci e a tutt’oggi ancora organo del Partito dei Democratici di Sinistra/Ds. Nessuna condanna quindi, nessuna riabilitazione.
Solo una commemorazione ufficiale come negli anni passati. Quest’anno tuttavia accompagnata dalla rivendicazione che senza il suo «partito nuovo », il Pci di Togliatti, non sarebbe mai nato il Pd».
Insomma, ritiene che l’elogio di Togliatti sia sintomatico di un partito, il Pd, in cui la componente ex comunista è responsabile della mancata integrazione con la componente cattolica e ulivista?
«Il problema non son certo le persone provenienti da quella storia. Fortunatamente numerose e di qualità. E neppure il mancato innesto di altri che, come persone, in quella storia si sono semmai anche troppo integrati. Il problema è la rivendicazione e l’accettazione subalterna della continuità, con l’eredità di Togliatti, con quella idea di partito e di democrazia: un soggetto collettivo per dirigere e cambiare la società. Non uno strumento della società per cambiare e dirigere la politica, e governare lo Stato».
Questo rappresenta anche una sconfitta dell’Ulivo?
«Di certo rappresenta la sconfitta dell’idea dell’Ulivo, come partito nuovo aperto a tutti e non costruito sulle vecchie identità, capace di raccogliere emescolare la maggioranza dei cittadini attorno ad un progetto di governo e non minoritario».
Tramonta in questo modo anche la centralità bolognese nello scacchiere (e nel dibattito) della politica italiana?
«Certo tramonta la Bologna nuova, l’approdo dell’onda lunga della Bologna laboratorio di governo degli anni ’60. Se tuttavia siamo finiti qua è anche perché per l’Ulivo a Bologna fu più facile nascere, ma anche più difficile crescere».
Lei ha detto che il tempo del Pd «come partito aperto a tutti è finito»… Suggerisce quindi un ritorno al passato: con un nuovo partito di chiara impronta diessina e un altro di matrice ulivista e cattolica?
«Le mie preferenze non sono certo cambiate. Il futuro sarà tuttavia segnato dalla nuova legge elettorale. Così come l’Ulivo nacque dal maggioritario, è difficile che il ritorno al proporzionale lasci intatti gli attuali partiti».
Se l’intento del Pd può dirsi fallito, dove si è sbagliato?
«Non potrei certo accusare i restauratori di voler tornare da dove erano venuti. Dietro il gran parlare di democrazia governante, di competizione bipolare, di alternanza, la cultura dei politici, soprattutto quelli di professione, è restata alla prima Repubblica. Piuttosto che rischiare di perdere il posto è meglio non vincere mai, e governare tutti assieme sempre seduti attorno allo stesso tavolo. Ognuno con la sua quota e tutti in gara al massimo per chi fa da capotavola. Guidati dall’idea che è meglio sbagliare assieme piuttosto che rischiare di trovarsi soli, ad aver ragione in troppi hanno smesso di pensare al futuro. Quando la Storia ci ha interrogato, tutti si sono girati indietro per coprire la nostra incapacità di rispondere. È così che ci hanno mandato Monti».