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23 Settembre 2009

Italia – La transizione politica: cosa è fallito, cosa è compiuto

Autore: Gianfranco Brunelli
Fonte: Il Regno

Prof. Parisi, recentemente, in occasione della presentazione delle candidature
alle segreterie regionali del PD e dopo la presentazione di quelle
nazionali, lei ha riconosciuto come conclusa una fase della vicenda
 politica italiana, affermando: «Se in questo passaggio non è in campo
una proposta dichiaratamente ulivista, è perché riconosciamo conclusa
una fase… E’una conclusione nella quale è difficile non leggere i
segni del fallimento assieme a quelli del compimento».

Un’affermazione
che ha il sapore di un bilancio. Abbozziamolo. Che cosa è fallito e che
cosa è compiuto nel processo di transizione politica italiana, in corso
da un ventennio?

«Prima d’analizzare le singole voci del bilancio, mi faccia innanzitutto
spiegare meglio cosa intendo quando dico che si è conclusa una fase
politica, e soprattutto quale sia la fase che si è conclusa. Il primo
dato che a questo proposito deve essere ribadito è che la fase storica
della quale parliamo non riguarda solo la nostra piccola vicenda
nazionale, e, meno che mai, la piccolissima vicenda di una parte
politica, bensì il mondo. In questi anni lo abbiamo ripetuto spesso. Ma
troppe volte abbiamo oscillato tra un’evocazione generica e una troppo
particolare, tra il nuovo vento che attraversa il mondo e le ultime elezioni di Londra».

Comunismo, il dio che è fallito
«La fase storica alla quale penso è quella aperta dalla caduta del
muro di Berlino. Anche se oggi i tedeschi si trovano a interrogarsi da
che parte il muro sia caduto, allora nessuno ebbe dubbi. Il “dio che
era  fallito” si chiamava comunismo. Se fino a quel momento troppi
erano quelli che avevano difficoltà “a non dirsi in qualche misura
comunisti”, da quel momento in poi la difficoltà  sarebbe stata per
tutti quella di ammettere di esserlo o di esserlo stati. Fu questo il senso dell’iniziativa di Occhetto, allora segretario del PCI, alla Bolognina. E tuttavia il crollo del muro, più che la sconfitta di una parte
e la vittoria di un’altra, fu vissuto nell’immediato come la fine di
una divisione, la possibilità  di una nuova unità ; come “la fine della
storia” cosi come l’avevamo vissuta fino ad allora e l’inizio di una
nuova all’insegna della libertà, in un mondo finalmente unito. Furono l’utopia e la speranza, più che il realismo e la vendetta, i colori di quel passaggio; l’euforia e l’enfasi su ciò che iniziava, piuttosto che il bilancio e la denuncia di quel che finiva. Sembrava tutto cosi facile! Anche se le formule pseudo-cabalistiche immaginano
che la parentesi apertasi il 9.11 del 1989 si sia conclusa l’11.9 di
dodici anni dopo, con la caduta delle Torri gemelle, noi sappiamo che
tutto è durato molto meno, troppo meno. Ma quella cesura era cosi
profonda da alimentare per un momento da una parte l’illusione di un
ricominciamento, e spingere dall’altra ad allungare ancora una volta lo
sguardo verso un orizzonte più lontano di quello al quale ci eravamo
abituati».

Una generazione chiamata dalla storia
«Per questo, in luogo del “programma”, il concetto che meglio rappresentava questa ridefinizione della prospettiva fu quello di “progetto”.
Tra le ideologie appena tramontate e gli intramontabili ideali  della
riflessione etica e della tensione estetica di sempre da una parte, e,
dall’altra, i piani operativi di governo, la categoria di progetto
evocava un insieme di obiettivi e di direttive di marcia, storicamente
riconoscibili e tuttavia non immediatamente risolvibili nel tempo di
una legislatura di governo. Troppe e troppo complesse erano le cose da fare e da rifare, perché
la pazienza e la mitezza della democrazia potessero pensare di
 affidarle a una sola legislatura. Non fosse altro che per questo, il
progetto chiedeva un soggetto politico che lo svolgesse, un soggetto
nuovo capace d’interpretare la novità  del progetto che la storia
sembrava all’improvviso chiederci. E’sullo sfondo di questo passaggio
dalle ideologie ai progetti, e dai soggetti generati da quelle
ideologie ai soggetti nuovi pensati per i progetti nuovi, che vanno
considerati l’apertura, lo svolgimento e la crisi della vicenda
nazionale dell’ultimo ventennio. Essa non può essere ricostruita se
dietro l’elaborazione del progetto politico e la costruzione del
soggetto non si guarda alle persone concrete che di questa fase storica sono stati i protagonisti».

Pensa ai leader che hanno guidato il processo di cambiamento in Italia e alla loro inadeguatezza? E a quali in particolare?
«No. Penso in primo luogo all’attore collettivo che l’ha interpretata.
Penso a quella che fu definita la generazione aperta dal baby boom dei
figli dei reduci tornati dalla guerra, ai ragazzi nati dopo il 1945;
diciamo tra la fine della guerra e il 1968. Una generazione politica,
non semplicemente una corte demografica di persone nate negli stessi
anni; una generazione accomunata da un clima culturale sperimentato
assieme nell’età  giovanile, in una condizione di massa distinta e
spesso separata dalle generazioni contigue. Senza comprendere il
desiderio di vita che era all’origine della loro venuta al mondo, senza
la domanda di pace e di felicità che ha accompagnato questa
generazione, senza le illusioni e le delusioni di questi ragazzi non
riusciremmo a capire niente di questi sessant’anni. Ebbene, la fase di
cui oggi riconosciamo la fine corrisponde alla fase della maturità di
questa generazione, quella in cui i suoi membri hanno un’età compresa
tra i quaranta e i sessant’anni. Dopo gli anni della loro formazione, segnati come mai in precedenza
dalla crescita e dalla speranza, e gli anni della giovinezza, segnati
dall’entusiasmo e dal dramma, il ventennio aperto dal 1989 sembrava
proporsi come il momento della maturità, l’occasione attesa per
incanalare la domanda di politica o quella che è stata definita la vocazione pro
– sociale della generazione all’interno delle istituzioni. In poche
altre occasioni il saldo tra la domanda di politica e l’offerta di
politica da parte del sistema e della classe politica costituita ha
visto la domanda sopravanzare l’offerta come è accaduto in questo
ventennio. In poche altre occasioni la gratuità e la passione politica
dei dilettanti ha interpellato in misura cosi rilevante il professionismo e la competenza dei professionisti della politica, chiedendo null’altro che di esercitare la propria sovranità di cittadini, cioè a dire di poter contare e non semplicemente di essere contati. Qui ha origine la stagione dell’Ulivo, prima come progetto di modernizzazione dell’Italia, e poi come soggetto politico nuovo».

NON FU BERLUSCONI LA CAUSA DELL’ULIVO
Nella ricostruzione che lei fa, Berlusconi non costituisce l’elemento
di innovazione del processo di transizione italiana. Lei sa bene che
non solo la vulgata berlusconiana cita la sua entrata in politica come
la vera variante e novità della politica italiana dopo la fine della
Repubblica dei partiti, ma anche l’antiberlusconismo pensa la stessa
cosa, naturalmente in negativo. Così come, nella sua ricostruzione,
risulta assente ogni riferimento alla stagione dei referendum e
all’introduzione  del sistema maggioritario.

«Perché, nonostante Berlusconi e il maggioritario siano stati ambedue
fattori importanti, il loro ruolo non sarebbe leggibile senza ricordare
che anch’essi sono il risultato di un processo storico più ampio. Qui
sta uno degli errori principali di Veltroni. Quando per giustificare l’apertura di una fase nuova e la discontinuità con la stagione dell’Ulivo egli ha preteso di trovare in un primitivo antiberlusconismo
il tratto distintivo della fase precedente, invitando a passare
dall’approccio oppositivo al “demonio Berlusconi”, a quello competitivo
col “principale esponente dello schieramento a noi avverso”, non ha
compreso quali erano i fattori culturali e politici in campo. Quelli che caratterizzavano il progetto e che potevano coerentemente dare vita al soggetto. L’Ulivo non nacque, né visse come reazione alla vittoria e al pericolo
Berlusconi, come “unione sacra” o “comitato di liberazione” dal
berlusconismo. Se la coalizione di centrosinistra prese forma solo dopo
la vittoria del Polo della libertà e del buon governo, nelle elezioni
del 1994, questo fu per il paradossale ritardo nell’apprendimento della
logica del maggioritario proprio da parte di molti di coloro che si
erano battuti per la sua introduzione, e per la maggiore vischiosità
delle identità e delle organizzazioni del centrosinistra. La domanda e la proposta che furono all’origine dell’Ulivo erano
precedenti, molto precedenti alla scommessa politica di Berlusconi. Se
si considera la coincidenza tra i protagonisti della stagione dei
referendum istituzionali e quelli dell’Ulivo si potrebbe semmai dire
che fu Berlusconi a reagire alla loro iniziativa piuttosto che il
contrario.  Quanto alla sua demonizzazione, basti rileggere il libretto verde
del 1995, al quale furono affidate le principali tesi del progetto
dell’Ulivo. Non solo nessuno riuscirà a trovarvi quale suo fondamento
il pericolo Berlusconi, ma addirittura troverà la prova di una
disponibilità al confronto incompatibile con un’eventuale
demonizzazione. Chi avrebbe mai proposto di riscrivere le regole della
nostra democrazia come “un patto da scrivere assieme”, come si può
leggere nella prima riga della prima tesi dell’Ulivo, se la liberazione
da Berlusconi fosse stata l’origine e il fine primo dell’Ulivo? Quanto
all’introduzione del maggioritario, è indiscutibile che esso ha
costituito la condizione senza la quale nulla sarebbe stato possibile.
Ma essa fu la prima tappa della realizzazione del progetto, una
condizione cercata consapevolmente per il suo svolgimento, e non invece
una causa esterna a esso».

Certo
Berlusconi è frutto del contesto, ma questo non spiega  la novità che
il fondatore di Forza Italia e del Popolo della libertà ha comunque
rappresentato, almeno in alcuni passaggi della transizione. 

«Potremmo dire che Berlusconi, facendo leva sull’anticomunismo, ha
contrabbandato come liberalismo il libertinismo che, anche grazie alla
televisione commerciale, era diventato tra la gente un fenomeno di
massa dilagando al di là  di ogni confine politico. Da questo punto di
vista, la realtà dei fatti è rimasta troppo indietro rispetto alle
premesse e alle promesse di libertà inscritte nella sua ragione
sociale, quella volta a volta evocata dal nome delle sue formazioni
politiche. La sua vera novità è stata l’aver interpretato dentro la
politica il profondo cambiamento culturale che nel corso del ventennio
precedente ha coinvolto e travolto il nostro paese. Il modo in cui oggi è iniziato il suo viaggio di ritorno ci dice
che con la fine di Berlusconi non finirà il berlusconismo. E’urgente
che si riconosca che quella a noi di fronte è soprattutto una crisi
morale, come accade quando le antiche norme non governano più i
comportamenti, e non se ne intravedono ancora di nuove che li
sostituiscano. Se la politica non riconosce che questa crisi ci
attraversa e ci chiama in causa tutti, la  politica ne sarà  travolta.
E non solo la politica».

LA CREDIBILITA’ POLITICA E LA SPERANZA
All’origine della nuova fase politica non è quindi stato secondo
lei il pericolo Berlusconi ma il fallimento dei progetti politici
passati; la conseguente domanda di nuovi progetti e di nuovi soggetti;
e con essa una domanda di partecipazione resa disponibile dalla
maturità della generazione politica del dopoguerra. Come potremmo
dunque definire la

fase che lei ritiene si sia conclusa, e perché poi pensarla conclusa?
«Una stagione della speranza. SÌ! Per questo non ho difficoltà
 a riconoscermi nel titolo del saggio di Tremonti La paura e la
speranza. Se l’attuale stagione è dominata dal sentimento della paura e
dall’ossessione della sicurezza, quella che sembra chiudersi è una
stagione di speranza. Provi a contrapporre questo momento storico a
quello di vent’anni fa. In luogo di un mondo
finalmente unito, la frantumazione e la chiusura in patrie sempre più
piccole. In luogo dell’illusione di una pace generale ottenuta
attraverso mezzi pacifici, la moltiplicazione di focolai di guerra. In
luogo di un’attesa positiva e indefinita di cambiamento e di crescita, la prospettiva di un domani segnato dal moltiplicarsi di indicatori negativi. In luogo della richiesta di liberazione delle forze innovative dai lacci del passato, la ricerca di protezione dello stato. E potremmo continuare a lungo. Noi
sappiamo che in ognuno di questi rovesciamenti d’orizzonte può essere
ritrovata una radice della speranza, e su questi deve lavorare una
politica chiamata a trasformare le paure individuali in speranza
condivisa. Resta tuttavia, alla fine del ventennio, il fatto che paura e disincanto
costituiscono il clima e la congiuntura di questo passaggio e con
queste dobbiamo fare i conti. In questo contesto, la fase discendente
della parabola della generazione affluente è allo stesso tempo effetto e causa
di questo ripiegamento. Tenuto troppo a lungo ai margini della politica
di professione, costretto troppo a lungo a riversarsi negli otri dei
vecchi partiti, il vino nuovo che in passato si era rifiutato a ogni
stabile contenitore ha perso la sua qualità  e la sua forza. Ecco
perché ritengo che la fase aperta nel 1989 si sia conclusa».

Il progetto e il soggetto.
«Non è una continuazione o una ripresa quella a noi ora disponibile,
ma semmai una nuova partenza, un nuovo inizio. Nessun appuntamento può
essere troppe volte rinviato, nessuna promessa troppe volte mancata
senza che questo comprometta la credibilità  e la fiducia. E’ su
questo sfondo che dobbiamo collocare la nostra vicenda politica
nazionale: la frantumazione del quadro politico con la crisi del
bipolarismo, le minacce di ritorno al proporzionale e la perdita di
forza dei progetti d’unificazione, sul versante sia del centrosinistra
sia del centrodestra. Se vogliamo evitare che l’analisi decada in una logorante polemica
strumentale, dobbiamo avere la pazienza di distinguere l’azione delle
singole persone dai processi collettivi, e alleggerire i risultati
oggettivi dal peso dei motivi e dei moventi soggettivi. Basti guardare
all’esito della riforma elettorale di Calderoli. Rafforzando le ragioni
della divisione su quelle dell’unità  pensava di dividere solo il
centrosinistra. Ci è riuscito così bene che alla lunga sta finendo per
 dividere anche il centrodestra».

Che si continui o si riparta, fondamentali sono i risultati della fase precedente. Quali i fallimenti, quali i compimenti? Quali i  risultati conseguiti e quelli mancati? 
«Se, come dicevamo, due erano le istanze di riferimento, un progetto
di tempo lungo per la crescita del paese e un soggetto capace di
portarlo a compimento, è in riferimento a queste due direttrici che va
tirato il bilancio.  Cominciamo dal progetto. E’ difficile non riconoscere come il risultato di gran lunga più positivo di questa fase sia stato il pieno reinserimento
dell’Italia nel circuito internazionale. Il discorso sarebbe
evidentemente lungo da svolgere e, se si guarda alle condizioni in cui
oggi siamo finiti, allo stesso tempo difficile da capire. Diciamo
che all’inizio del ventennio l’Italia si trovava certo nella posizione
di uno dei principali paesi della comunità  occidentale, ma
contemporaneamente nella condizione di chi è esposto al rischio
imminente dell’emarginazione e dell’esclusione. Se questo rischio fu
evitato, se fu ribadita la nostra appartenenza all’Europa e alla
comunità  atlantica e rafforzata l’assunzione e la condivisione da
parte del nostro paese delle responsabilità  della pace nel mondo su un
piede di parità , questo lo si deve alla forza del progetto. Prima
di tutto, l’euro. E poi il connesso risanamento dei conti pubblici. E
ancora l’Albania, la conclusione dell’avventura irachena, il Libano:
tutte missioni che hanno significato un rafforzamento delle nostre
responsabilità  nel Mediterraneo. Questi sono i principali titoli dei
paragrafi di questo capitolo, un capitolo intestato all’azione dei
governi Prodi e alla sua personale guida. Quello che conta è tuttavia
sottolineare che nessuno di questi obiettivi sarebbe stato conseguito
senza l’affermarsi dell’idea di una democrazia governante fondata sul bipolarismo e sulla crescita, in questo contesto, di una proposta condivisa. Penso in particolare al passaggio dell’euro. Né il credito apertoci
dall’esterno, né gli impegni presi al nostro interno sarebbero stati
pensabili senza la prospettiva di una nuova capacità  di governo basata
su esecutivi stabili perché fondati su una qualche investitura diretta
dei cittadini, e sostenuti da un’iniziativa politica di lungo periodo.
Il compimento sul piano del governo, l’attuazione del progetto dipesero
fin dall’inizio da quel tanto di avanzamento del soggetto incaricato
della realizzazione e della sua continuazione nel tempo».

…SIMIL STABUNT, SIMIL CADENT
Mi sta dicendo che lo svolgimento del progetto a livello di  governo ha
corrisposto alle attese più della costruzione del soggetto a livello
politico?

«E’ meglio dire che il progetto ha marciato finché è cresciuto il
soggetto. Qui sta il nostro limite, l’incapacità  di capire che senza
un soggetto politico le istituzioni non avrebbero consentito da sole di
reggere l’azione di governo; l’illusione che il successo e la durata dell’azione di governo sarebbero bastate a se stesse. Senza un soggetto nuovo nessun progetto nuovo è davvero possibile. Ogni
azione presuppone un attore. Quando l’attore viene meno o anche
semplicemente si afferma la prospettiva di un suo venir meno, tutto
viene rimesso in discussione. Come possiamo essere guidati da un
progetto comune per il domani se dubitiamo del nostro stare assieme
nell’oggi o cominciamo a sospettare che il domani ci vedrà  divisi,
concorrenti, o addirittura contrapposti? Chi potrebbe mai chiedere a
qualcuno di rinviare, in questo contesto, a domani la soddisfazione delle proprie domande, se si dubita che il domani ci trovi ancora uniti? Ecco perché progetti di lunga durata chiedono soggetti di lunga durata e, se costruiti su patti tra soggetti diversi, non semplici
cartelli elettorali fondati su accordi di legislatura, ma partiti o
stabili coalizioni politiche, se non addirittura veri e propri partiti
coalizionali fondati su patti a tempo indeterminato. Altrimenti, quando
la tensione e la ragione unitiva del soggetto politico vengono meno, è
inevitabile che venga meno anche l’unitarietà , la coerenza e la forza
del progetto».

E’ quel che è capitato all’Ulivo e ai suoi governi, sia nel passaggio del 1998, sia dieci anni dopo.
«Si.
Da questo punto di vista è improprio imputare a Veltroni l’interruzione
del processo di costruzione di un soggetto unitario del centrosinistra.
Se una responsabilità  può essere imputata a Veltroni, essa è quella di
non aver contrastato la divisione della coalizione e anzi, in accordo
con Bertinotti, di avere immaginato di costruire il futuro, invece che
sul varo del nuovo partito, su una “separazione consensuale” che
trasformava un fatto compiuto in un disegno politico. Ancor peggio se si pensa
che quel “fatto compiuto” era stato compiuto proprio contro di noi da
Berlusconi in pieno accordo con Casini, con l’assenso di Fini, e
l’expertise di Calderoli. Da un modello che col
collegio uninominale cercava l’unità  tra la gente, pur riservandosi un
riconoscimento di distinzioni a livello nazionale, si è passati a uno
opposto che esalta le differenze tra la gente, affidando al livello
nazionale il compito di comporle e portarle a sintesi. Il centrodestra
ci voleva dividere e noi ci siamo divisi. Tocca ora al centrodestra
dimostrare che la forza della leadership di Berlusconi, alla quale
hanno affidato in esclusiva la loro unità , è tale da tenere nel tempo,
nonostante il suo inevitabile indebolimento e le crescenti tensioni
delle quali è destinata a essere caricata».

CRISI DEL CIPOLARISMO, CRISI DELLA DEMOCRAZIA
Quanto è cresciuto il soggetto politico e quanto è cambiato il quadro politico?
«Credo
che anche qui siano avvenuti cambiamenti innegabili. Per quel che
riguarda l’affermazione di una democrazia governante, i cambiamenti che
ancora tengono si sono tutti realizzati nel primo quinquennio del
processo di transizione. Penso innanzitutto al governo locale, con
l’investitura diretta dei responsabili delle amministrazioni locali e
delle regioni. Un sistema ampiamente insoddisfacente, che non consente
ai cittadini di eleggere direttamente i capi delle amministrazioni, se
non nella prova d’appello dei secondi turni, e consente invece a
governanti non eletti di operare come se fossero stati eletti,
soggiogando, con l’aiuto dei partiti, assemblee regolarmente elette. E
tuttavia la democrazia locale resta l’argine principale alla
restaurazione e allo stesso tempo il pungolo per il compimento del
cambiamento istituzionale a livello nazionale. Oggi è alla democrazia locale che si deve la tenuta della democrazia dell’alternabilità  e il contenimento del centrismo come posizione
di rendita di partenza e non semplicemente come ispirazione culturale e
approdo della sintesi politica. Senza questa difesa, i continui annunci
di grandi “centri” e di ritorno a un assetto stabilmente dominato da
una coalizione centrista priva di alternanza, sotto il paravento della lotta al bipartitismo, avrebbero già  prodotto da tempo la fine del bipolarismo. Per il resto è più facile isolare gli elementi d’arretramento verso
una democrazia della delega ai partiti o, meglio, ai capipartito, che
quelli di avanzamento verso la democrazia governante. Basti per tutti l’inaccettabile
spettacolo di un Parlamento composto da nominati che nominano chi li ha
nominati e soprattutto chi li rinominerà , e abbiamo detto tutto. Schiacciata tra il calo della domanda registrato dall’astensione nel recente referendum abrogativo del cosiddetto “porcellum”, e la silenziosa difesa di una larghissima parte dei parlamentari
della legge alla quale debbono la loro elezione, la nostra democrazia è
costretta ad attendere il suo cambiamento dalla rivolta degli esterni o
dalla congiura e il tradimento degli interni».

Che dire in questo contesto del PD, un partito che sembra soprattutto
assente dalla battaglia politica? In che misura può essere iscritto
nella colonna degli obiettivi raggiunti e in che misura in quella degli
obiettivi mancati? Cosa si attende dall’appuntamento del 25
ottobre?
«In apertura, citando un mio testo, lei mi ha ricordato che questa
volta non è in campo una proposta dichiaratamente ulivista perché
 ritengo che una fase si sia definitivamente conclusa. Continuando con
lo stesso testo potrei risponderle che in questo approdo gli ulivisti
non possono non riconoscere, assieme ai loro limiti, le loro vittorie,
o, almeno, gli effetti della loro azione, la traccia del loro passaggio. Se il 25 ottobre tutti gli elettori del centrosinistra saranno chiamati
in una elezione aperta a mescolarsi tra loro in nome del Partito
democratico, questo è a seguito di un cammino del quale gli ulivisti
sono stati protagonisti. Se il 25 ottobre gli
elettori del centrosinistra saranno per la prima volta chiamati a
scegliere veramente con voto diretto il segretario del partito in
un’elezione che nel suo stesso nome di “primaria” allude a un cammino
da portare a termine, è perché in tutti questi quindici anni gli
ulivisti hanno segnato il cammino e tenuta salda la barra verso la
meta».

PROSIT PER LA VITTORIA. QUALE E DI CHI?
Questo dovrebbe dunque essere un motivo di soddisfazione per lei.
Perché non riconoscere un motivo di soddisfazione anche nel solo fatto
che qualcuno faccia sue le vostre idee, la vostra vittoria?

«E’ esattamente
la domanda con la quale due anni fa Franceschini reagì alla mia
immediata dissociazione e aperta, ancorché solitaria, opposizione
all’iniziativa di Veltroni. “Invece di protestare – disse allora Franceschini – Parisi dovrebbe
essere all’osteria a ubriacarsi per la vittoria delle sue idee”.
Ricordo che gli risposi che ero andato all’osteria, ma avevo trovato
già ubriachi dai brindisi quelli che a quelle idee si erano fino a quel
momento opposti apertamente. Avevo quindi preferito non entrare
chiedendomi se non avessi sbagliato osteria, o più semplicemente se la
vittoria alla quale stava brindando l’intero gruppo dirigente del partito, da Marini a D’Alema, passando per Bersani e Fassino, fosse un’altra. Dopo
due anni potrei dire che io sono ancora fuori dall’osteria a chiedermi,
come mi chiede lei, quanto del nostro progetto sia fallito e quanto
invece sia compiuto. Quelli che certamente hanno cambiato posizione
sono gli altri. Dopo due anni sono infatti troppi
quelli che nel PD si chiedono se la sconfitta politica e le batoste
elettorali subite dal 2008 non siano invece da attribuire
all’inesistenza della vittoria che Franceschini m’invitava a celebrare
e anzi agli errori della partenza del PD sotto la guida di Veltroni.
Chi prova a ricostruire il cosiddetto dibattito congressuale, dal
contenuto delle mozioni alle dichiarazioni dei candidati, può trovare
facilmente le prove. Il denominatore comune delle diverse posizioni
presenti definisce quella di due anni fa una falsa partenza, dopo le
cosiddette primarie “per” Veltroni; e quelle primarie poco più che un voto
confermativo; mentre il prossimo sarebbe il primo vero congresso
fondativo. Il che equivale a dire che il partito che dicevamo di avere
fondato non era stato ancora fondato, mentre il governo a sostegno del
quale era stato fondato è ormai definitivamente affondato. Se nel
frattempo quelli che erano dentro l’osteria sono tornati sobri e,
una volta usciti, s’interrogano finalmente con me sul “se”, sul “chi”,
e sul “perché” della vittoria, questo potrebbe essere considerato il
riconoscimento tardivo delle nostre ragioni. Pur nel disastro nel quale le sconfitte di questi anni hanno precipitato la democrazia italiana a causa della fine di una vera dialettica
politica, potremmo convenire anche noi che non è mai troppo tardi.
Nonostante il rammarico per il tempo sprecato non è tuttavia la
distanza dalla meta né il ritardo accumulato nel nostro cammino che
potrebbe mai indurci a propendere, per quel che riguarda il nostro
percorso, verso un giudizio di fallimento piuttosto che di compimento. Come in tutti questi anni, quello che ora conta, più che il cammino
percorso, è la direzione di marcia. Fin dalla caduta del muro, e con la
fine nel nostro paese della prima Repubblica, sapevamo che la
transizione verso una democrazia compiuta perché finalmente governante
sarebbe stato un percorso lungo, che avrebbe impegnato una generazione.
Ora che dall’inizio del nostro cammino è trascorso un intero
ventennio (il tempo che quand’ero ragazzo definiva il periodo
fascista), siamo costretti a chiederci se, in questi ultimi anni, oltre
ad accumulare ritardo, non abbiamo per caso perso di vista la meta».

E’ il vecchismo il padre del nuovismo
«L’abbiamo detto in apertura. Il progetto era quello di raccogliere
in avanti la sfida che ci veniva dal mondo, modernizzando l’Italia
nella società  e nella politica. E’ nella prospettiva di questo progetto
nuovo che avevamo pensato un soggetto nuovo; non semplicemente un nuovo
partito, e men che mai il nome nuovo di partiti antichi; un soggetto
politico che, muovendo dalle nuove regole, promuovesse la realizzazione
del progetto di cambiamento dell’Italia. Regole, progetto, soggetto sono state le fasi di una spirale ascendente
che sviluppandosi senza sosta ha guidato il nostro cammino. Questo
processo si è arrestato. Il cambiamento della legge elettorale e il
fallimento del referendum per la sua abrogazione, la crisi dell’unità  sociale, culturale e istituzionale del paese, il rafforzamento delle ragioni e del potere dei partiti sono fatti che parlano da soli. Ancor peggio, come non riconoscere il ruolo che in questo arresto
ha avuto il decollo del PD? Chi potrebbe infatti sostenere che questo
arresto e inversione di marcia è avvenuto nonostante il PD e non invece
anche a causa della mancata opposizione del partito, o addirittura per
il contributo delle sue contraddizioni interne, dei suoi errori di
conduzione e del prevalere al suo interno della linea che in questi
anni si è battuta per la conservazione o la restaurazione delle regole
e dei  soggetti del passato? Pian piano si sono adattate, direi abbassate, le regole e il progetto
alle necessità  dei soggetti preesistenti, invece di portare il
soggetto nuovo all’altezza del progetto. In questo quadro è il
compromesso  tra le resistenze dei conservatori, o se vuole del
“vecchismo”, e le istanze degli innovatori che ha prodotto il
“nuovismo”, quel cambiamento delle cose solo nelle parole, la fuga dal reale al virtuale, che viene riconosciuto dai più come la cifra principale del veltronismo, la cifra appunto della falsa partenza».

LA RESPONSABILITA’ DEGLI INNOVATORI
Mi sembra chiara a questo punto non solo la sua denuncia del  grave
ritardo nella messa in campo del nuovo soggetto politico, annunciato ed
evocato dall’Ulivo, ma allo stesso tempo il suo dubbio che questo
soggetto nuovo possa essere il PD, o almeno questo PD. Quali le cause?
Di chi le responsabilità ?

«Di tutti. O, almeno, di troppi. Innanzitutto di chi non ha spinto
a sufficienza, di chi ha resistito, ma direi soprattutto di chi ha
resistito facendo finta di spingere. Ma perché chiamarle responsabilità? Qualcuno si attenderebbe che dicessi D’Alema. Sarebbe sbagliato e ingeneroso.
D’Alema ha perseguito in modo assolutamente trasparente il suo disegno
e il suo istinto, quello di continuare la sua storia, ponendosi a
riferimento di tutti coloro che avevano reagito alla sfida della
Bolognina nel segno della continuità  e dell’orgoglio, e, consapevole
dei limiti e della parzialità  di quella storia, ha cercato di
ridefinire il sistema politico sulla base di una rinnovata legge
elettorale proporzionale di tipo tedesco. Altro è il caso della maggior parte del ceto politico, che in questi anni ha fatto tutto all’infuori che proporsi di costruire un soggetto nuovo. Troppi sono stati quelli che hanno fatto finta di cambiare perché tutto continuasse come prima. Io penso che costoro siano mancati all’appuntamento con la storia e forse anche con la loro storia. Del resto i partiti sono aggregati duri a sciogliersi. Sono fatti di persone, di linguaggi, di valori, di ricordi e di interessi. In primo
luogo non è a loro che deve essere chiesto conto. Sono gli innovatori
che debbono riconsiderare la propria condotta. Sono gli innovatori che
debbono chiedersi come potevano mai pensare di raggiungere il traguardo cavalcando
su cavalli altrui, senza immaginare che i cavalli li avrebbero portati
dove li portava il loro istinto, cioè nei recinti della loro
giovinezza, dai quali si erano occasionalmente allontanati. Lo dico pensando a quanti, in questa fase, hanno avuto responsabilità  di guida politica, e, tra questi, a me stesso. Lo dico pensando
al primo Ulivo, quello che per pochi mesi del 1995 fu il nuovo soggetto
distinto e distante dalla Quercia e tuttavia alleato con essa. Lo dico
pensando ai Democratici, che raccolsero nel 1998 la domanda di novità
 e la protesta per il tradimento dell’Ulivo. Lo dico pensando al
fallimento della Margherita come soggetto nuovo, sulla cui novità
 doveva poggiare la novità  del PD».

Dunque, a suo dire, l’appuntamento con il partito nuovo è stato ancora una volta mancato. Qual è l’esito di questo ragionamento?
«Dobbiamo
domandarcelo tutti. I segni sembrano, purtroppo, andare in quella
direzione. Basti considerare la geografia elettorale del partito,
sostanzialmente coincidente con i confini del voto comunista. Basti
considerare la provenienza del nuovo gruppo dirigente. Come ha
pubblicamente rivendicato con orgoglio Fassino per la mozione
Franceschini, della quale è coordinatore, i candidati segretari
regionali provenienti dai DS sono il 75% del totale. Non di meno sono
quelli della mozione Bersani e della mozione Marino. Su questo sfondo
non è difficile ipotizzare che tra i segretari eletti i diessini
finiranno per essere tra l’80 e il 90%. Tutte persone di qualità
 professionale e umana e tuttavia inevitabilmente segnate dalla
comune provenienza. Lo stesso deve dirsi dell’impronta data al nuovo
partito dalle infrastrutture materiali (a cominciare dalle sedi, che da
sole assicurano una continuità  più di mille discorsi), e dai codici
culturali ereditati dal passato. Solo questo può spiegare come
l’iniziativa formativa del PD possa essere denominata Frattocchie 2 (il
nome della mitica scuola centrale di formazione del PCI). Sarebbe tuttavia sbagliato leggere questi dati come lo svolgimento
di un disegno soggettivo e non per quello che sono: l’esito di un
processo oggettivo, molecolare, preterintenzionale, inevitabile se non
intenzionalmente contrastato in nome di un disegno innovatore
alternativo. Ed è appunto questo quello che finora è mancato. Né
s’intravede, nelle posizioni illustrate nelle mozioni dei candidati
alla segreteria nazionale, traccia della consapevolezza di questo come
problema. Io continuo a essere convinto che quanti,
in questi anni, pur dichiarando di condividere la necessità
 dell’apertura di una stagione nuova, si sono legittimamente battuti
con coerenza e determinazione contro la nascita di un soggetto politico
nuovo non avessero ragione. Resta  tuttavia che al momento essi
sembrano aver avuto ragione di noi. Il che equivale a dire che noi, ma
non le nostre ragioni, usciamo al momento sconfitti. Mi auguro che la
quantità  e la qualità  del voto delle primarie ci dicano che ci
siamo sbagliati: quello che l’inesistente dibattito del cosiddetto
congresso si è finora rifiutato di dirci. E’comunque evidente che dopo
le primarie, comunque le cose vadano a finire, a partire dal bilancio
che qui abbiamo cominciato a tracciare, dovremo chiederci come
ri-iniziare».