2222
12 Giugno 2004

Intervista di Arturo Parisi a Vita

Autore: Francesco Maggio
Fonte: Vita

Arturo Parisi, 63 anni, ordinario di sociologia dei fenomeni politici all’Università di Bologna, ha diretto la rivista Il Mulino e, per oltre vent’anni, l’Istituto di ricerca Cattaneo. All’inizio degli anni 90 è stato tra gli animatori del movimento referendario per le riforme istituzionali promosso da Mario Segni e, quando alle elezioni politiche del marzo 1994 si afferma la leadership di Silvio Berlusconi, comincia a elaborare il progetto dell’Ulivo da cui scaturirà, nel febbraio 1995, la decisione di Romano Prodi di entrare in politica. Già, Prodi, «l’amico di una vita» lo definisce, «un uomo con cui condivido da anni un percorso intellettuale e culturale», che lo porterà a Palazzo Chigi come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e poi nel 1999, quando il Professore si trasferisce a Bruxelles, a Montecitorio come suo successore nel collegio 12 di Bologna. Rigoroso, analitico e puntiglioso nei ragionamenti, Arturo Parisi è una persona “insospettabilmente” simpatica, con il gusto dell’ironia e della battuta. E con una battuta comincia la nostra intervista introdotta dalla fatidica domanda su cosa facesse dieci anni fa, nello stesso frangente in cui nacque Vita: «Confesso che non ho un ricordo nitido del 27 ottobre 1994 (datadi uscita del primo numero del magazine, ndr) ma posso provare a ricordare il periodo».


Vita: Proviamoci…
Arturo Parisi: Dieci anni fa facevo un mestiere completamente diverso dall’attuale, insegnavo a Bologna ma già cominciava a prendere forma il progetto dell’Ulivo.


Vita: Lei prima aveva già fatto attività politica?
Parisi: Il mio esordio politico risale al gennaio 1990, quando, a ridosso del cambio di fase storica identificato nella caduta del muro di Berlino, comincia il mio impegno sul fronte delle riforme istituzionali. Il 1990 è l’anno in cui viene proposta una serie di referendum istituzionali, tra cui quello sulla preferenza unica per il quale Craxi nel 1991 invitò gli italiani ad andare al mare, firmando così la sua sconfitta politica.


Vita: Lei è sempre stato favorevole all’impegno politico di Romano Prodi?
Parisi: Prodi aveva già partecipato da protagonista alla stagione referendaria che aveva avuto in Mario Segni il suo leader. Una stagione caratterizzata da grandi speranze ma anche da rabbia, preoccupazioni accresciute dalla vittoria elettorale di Berlusconi.


Vita: Com’era l’Italia di allora?
Parisi: Per certi versi era molto simile all’Italia di oggi, pur con qualche differenza. C’era una forte domanda di cambiamento che attraversava tutte le componenti della società che noi interpretammo e alla quale lo stesso Berlusconi fece riferimento. Berlusconi cavalcò certamente la paura del comunismo, sulla quale continua a insistere ancora oggi, ma riuscì anche a far passare il messaggio di essere l’uomo “nuovo” che con la politica e con i politici non aveva mai avuto nulla a che fare.


Vita: Da cosa nasceva questa domanda?
Parisi: Dalla consapevolezza diffusa della ricchezza accumulata e posseduta dalla nostra società e, allo stesso tempo, dell’incapacità di riuscire a liberare questo potenziale. La politica, così come era andata svolgendosi e decadendo sino al passaggio del 1989, era vissuta come una gabbia, un groviglio di procedure burocratiche dalle quali i cittadini non riuscivano a districarsi.


Vita: Che fine ha fatto questa domanda?
Parisi: Innanzitutto siamo tutti diventati più vecchi di dieci anni. Basterebbe già solo questo a spiegare la crisi di vitalità da cui sento oggi scaturire una tentazione di restaurazione. L’Italia oggi è tentata dal voler trovare “salvezza” in un ritorno all’indietro, a un tempo che forse non è mai esistito ma che per il solo fatto che appartiene al passato considera migliore del presente.


Vita: Giuseppe De Rita, qualche settimana fa, denunciava da queste stesse colonne che il tanto parlare di pauperismo borghese, oggi così di moda, non sia altro che una fregatura mediatica. Lei come commenta?
Parisi: Io credo che “investire” sulla deprivazione e sul disagio sia un gravissimo errore. Con la semplice denuncia, puntando solo sulla protesta si fa poca strada. Peggio, la strada che eventualmente si dovesse percorrere rischierebbe di essere una strada all’indietro. Riconosco, tuttavia, che una parte importante dell’Italia sia attraversata dal sentimento della delusione e dal tentativo della restaurazione.


Vita: Come si vince questa tentazione?
Parisi: Innanzitutto partendo dal riconoscimento della ricchezza che continuiamo a sprecare cominciando da quella rappresentata da ogni anno di vita di ognuno di noi. E lo dico confrontandomi con la giusta considerazione dell’invecchiamento demografico della nostra società dalla quale deve muovere ogni analisi sociale. Perché continuare ad associare la vecchiaia alla categoria della “povertà”, dimenticando che si tratta di una stagione della vita nella quale, assieme a tante cose che vengono meno, sopravvivono e spesso se ne aggiungono altre di enorme valore come la saggezza e l’esperienza che una parte della popolazione può mettere al servizio del Paese? Se compito dei governanti è assicurarsi che tutto il potenziale sociale sia messo a frutto anche di questi anni è bene che il Governo si faccia carico. E neppure è bene dimenticare le enormi quantità di ricchezza che abbiamo accumulato attraverso i processi di istruzione di massa. Non di rado siamo portati a rimpiangere le elites colte delle società del passato tralasciando il fatto che a causa della loro ristrettezza la ricchezza sociale prodotta da quelle elites era comunque incomparabilmente inferiore all’attuale.


Vita: E della “ricchezza” non profit cosa ne pensa?
Parisi: Come tutte le cose vitali anche il non profit è una realtà inevitabilmente ambivalente. Il fatto stesso che definiamo il settore “per negazione” è già il riconoscimento di una difficoltà. All’interno di questo universo coesistono contemporaneamente spinte innovative e “finzioni” che coprono realtà vecchie e superate.


Vita: Giovanni Moro sostiene che il non profit soffre del complesso di superiorità morale e del complesso di inferiorità politica. è d’accordo?
Parisi: Direi proprio di si, soprattutto se penso a quelli che sono i rappresentanti del Terzo settore. Se ogni mondo è rappresentato dal suo ceto dirigente è inevitabile che anche il mondo del non profit sia segnato dalle ambivalenze cui facevo cenno. Questo equivale a dire che i suoi dirigenti siano tentati e chiamati a rappresentarne la superiorità morale quando l’accento cade sui valori che ispirano l’azione non profit. Ma, allo stesso tempo, gli stessi sono costretti a riconoscerne l’inferiorità politica quando il discorso si rivolge alla difficoltà di far sintesi tra le diverse componenti che definiscono il non profit sul piano concreto.


Vita: Cosa fare per superare queste ambivalenze?
Parisi: Bisogna chiarire innanzitutto se il non profit è il risultato dell’arretramento dello Stato che genera un’attività di supplenza che copra magari con una risposta di qualità inferiore il vuoto prodotto o, viceversa, se si stratta di una nuova ricchezza sociale che chiede una modalità per manifestarsi e realizzarsi. Questi sono i veri termini della questione. Spesso il non profit, purtroppo, è solo il risultato dell’arretramento dell’intervento pubblico che chiama, spinge, tenta, consente ad altri soggetti di proporsi con funzioni vicarie.


Vita: La “valorizzazione” del non profit è un processo interno o gli stimoli devono arrivare anche dall’esterno?
Parisi: Non è una questione risolvibile in modo unilaterale. Ci vuole un intervento pubblico che riconosce e sceglie, ma ci vuole anche la capacità di autorealizzazione del non profit. D’altronde, la ricchezza materiale e culturale della nostra società ha generato una diffusa disponibilità prosociale di farsi carico degli altri, l’«I care» di don Milani, che un tempo si rivolgeva alla politica e che oggi è indirizzata al non profit. Da un’indagine recente che ho per caso tra le mani emerge che gli italiani che riconoscono come qualificante la propria esperienza associativa in un partito sono appena l’1% mentre nel non profit la percentuale sale al 10%, nel sindacato siamo al 3,9%, anche se non possiamo purtroppo dimenticare che il 68% del campione intervistato ha dichiarato di non riconoscersi in nessuna esperienza associativa.


Vita: Perché la politica fa fatica a intercettare questa domanda di partecipazione?
Parisi: Perché la politica, dietro le sue pretese, resta sfasata rispetto alla società, invece di essere all’origine dei cambiamenti ne è, il più delle volte a valle, si limita a tentare di raccogliere i cambiamenti intervenuti.


Vita: Si tratta di sfasature storiche o fisiologiche?
Parisi: La mediazione della forma partito, che è un elemento caratteristico della politica del nostro Paese e di molti altri Paesi europei, poiché non riesce a superare la configurazione tradizionale di “apparato”, fa sì che molte volte il sistema politico incontri difficoltà a mobilitare risorse, intercettare domande di partecipazione che siano già inquadrate nella rete di relazioni che fanno capo all’”apparato”. In altri Paesi invece, e penso all’ America, la personalizzazione della leadership politica spinge le iniziative dei leaders in competizione ad andare oltre i recinti preesistenti, facendo appello alle risorse ovunque esse si trovino, senza le inutili mediazioni organizzative imposte dalla logica di apparato.


Vita: Cosa ne pensa della “proposta Campiglio” di dare un voto per un figlio?
Parisi: Ricordo che si era speso a suo favore Gad Lerner. Ne capisco le ragioni di fondo nelle quali mi riconosco. Però non ho approfondito le modalità di attuazione e quelle che sono le conseguenze. Le tecnicalità, in questi casi, rischiano di essere più importanti dei principi. Comunque la ritengo una bella provocazione.


Vita:  L’Unione europea si è da poco allargata ad altri dieci Paesi. Eppure, sostiene il commissario Pascal Lamy, «l’Europa non dà risposte ai problemi attuali della gente». Da cosa deriva questa incapacità?
Parisi: è una questione di aspettative. Noi oggi assistiamo al compiuto svolgimento di un processo di trasformazione che aveva già preso le prime mosse 10 anni fa e che vede il passaggio da una fase di aspettative crescenti a una fase di aspettative decrescenti. Chi non ha sentito dire che oggi, per la prima volta, si corre il serio rischio che i figli possano stare peggio dei loro padri? Dei segnali, in proposito, c’erano già 10 anni fa. Oggi è un’opinione largamente condivisa. Di fronte a questa paura scatta una reazione del tipo «privatizziamo i profitti e socializziamo le perdite». Sino a quando le cose vanno bene ognuno fa per sé, quando le cose vanno male ognuno cerca un genitore cui affidare le proprie paure. Oggi l’Europa è identificata come questo genitore, ma non sempre è all’altezza del compito che le viene affidato. Anzi, corre il rischio di essere travolta da questa domanda di rassicurazione crescente senza aver ancora consolidata la capacità di offrire risposte. Il nostro impegno è proprio quello di costruire un’Europa all’altezza di queste domande.


Vita: Perché un giovane nel sentirsi europeo avrebbe una chance in più che non nel sentirsi “solo” italiano?
Parisi: Diciamo che ci sentiamo impegnati affinché i giovani abbiano davvero una simile “percezione”. Vorrebbe dire che i giovani hanno capito che di fronte alle difficoltà del momento è possibile dare solo una risposta in avanti. Non esistono case nelle quali tornare, esistono case da costruire e queste case le possiamo costruire solo in ambito europeo.


Vita: Perché l’orizzonte è inevitabilmente europeo?
Parisi: è una questione di scala, non possiamo dimenticare che ha fatto irruzione nella nostra vita quotidiana il “Mondo” non come categoria della retorica, se non addirittura della poesia, ma come categoria della società, dell’economia, della cultura. Il mondo è in mezzo a noi, un tempo era un orizzonte lontano.


Vita: Robert Kennedy sosteneva che il Pil misura molte cose ma non le più importanti e comunque nulla che renda una vita degna di essere vissuta. Tremonti l’ha fatta sua. Lei che ne pensa?
Parisi: Sono assolutamente d’accordo. Che questo lo dicesse Kennedy non mi sorprende. Che lo dica Tremonti mi preoccupa visto che il suo mestiere è proprio quello di occuparsi di Pil.


Vita: E cosa rende la vita degna di essere vissuta?
Parisi: Una vita che si spende per lasciare il mondo meglio di come l’ha trovato.