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15 Novembre 2003

Intervento di Arturo Parisi all’Assemblea Nazionale straordinaria di Democrazia È libertà – La Margherita

Care amiche, cari amici, non è questo il giorno che avevo immaginato. Torno da appena un’ora e mezzo da una cerimonia mesta, una messa, la prima messa di suffragio delle vittime, dei caduti, che mi ha fatto tornare alla memoria la mia prima infanzia di orfano di guerra. E assieme alla memoria, anche in bocca il sapore del pianto represso. La messa sull’attenti, gli squilli di tromba, di nuovo invocazioni al Dio degli eserciti.


La morte ha bussato alle nostre porte, e lo sentiamo anche dalle notizie che ci giungono ulteriormente da Istanbul, dove continuano ad avvenire fatti terribili. Dopo aver bussato alle porte di una moltitudine a noi sconosciuta nel volto e nel numero di fratelli iracheni, di iracheni innocenti, dopo aver bussato alle porte dei soldati di popoli che sentiamo a noi affratellati, nonostante i governi che li guidano, la morte ha bussato alle porte di 18 nostri fratelli, alle porte abituate alle sue visite dell’Arma dei carabinieri, alle porte di amici carissimi, a me carissimi, ai quali è andata a chiedere il figlio, alla Brigata Sassari, fatemelo dire, alle porte della mia città di Bologna, alle porte della casa comune, la casa dei nostri padri, quella che torniamo a chiamare patria senza imbarazzi.


Ed ha bussato con la mano nostra, non solo perché nostri sono i ragazzi morti e perché nostro è, nonostante tutto, il Governo che li ha mandati in una città che ci avevano assicurato pacificata, ma perché la loro morte è anche figlia delle nostre insufficienze e delle nostre omissioni. Noi sappiamo infatti che la solitudine degli Stati Uniti è certo il frutto di scelte arroganti ma anche dell’illusione della nostra diversità, dell’illusione che agli occhi e di fronte al sud del mondo ci sia possibile rivendicare un’alterità e un’innocenza. Noi sappiamo che la solitudine degli Stati Uniti è figlia della nostra incapacità di capire che la campana dell’11 settembre aveva suonato, dobbiamo dire aveva tuonato, anche per noi e non per i soli americani.


Ed è questa incapacità che ci chiama oggi in causa, in occasione di un dibattito che potrebbe sembrare lontano, questa incapacità che ci chiama in causa come europei.


Ed è anche in nome di questi 18 morti che siamo perciò chiamati alle scelte che sono al centro di questa Assemblea.


Ed è per la enorme serietà dell’impresa per la quale siamo scesi in campo, che noi non ci possiamo accontentare del “se”, dell’accordo sul “se”, e non possiamo neppure rinviare il nostro dibattito al “come”, ma dobbiamo stare per un momento al “perché”. Da qui dobbiamo ricominciare.


Perché voglio confrontarmi con un dato, un nome: Prodi. Non possiamo dimenticare che questa proposta ha un nome, nasce da una sua iniziativa. Prodi è importante nella nostra storia. Senza di lui questa impresa non sarebbe partita. Senza di lui sarebbe priva di guida, penso al Manifesto che ci ha indirizzati sui temi giusti della nostra ricerca. Senza di lui, senza la sua presenza, sarebbe più difficile arrivare alla vittoria. Questo lo dico mentre leggo che Bersani avrebbe sostenuto che se l’economia tira non basta neppure la Madonna pellegrina per farci vincere le elezioni e viceversa se l’economia non tira basta qualsiasi pellegrino a farci vincere. Lo dico per ricordare che non c’è peggiore premessa per una sconfitta che la convinzione di una vittoria comunque. E non lo dico per sostenere che Prodi, e solo Prodi, ci può portare alla vittoria, ma per rifiutare questa idea che qualsiasi pellegrino ci può portare alla vittoria. Lo dico perché noi sappiamo che la leadership è fondamentale nei processi politici. L’abbiamo visto con Francesco che non è riuscito a portarci alla vittoria ma ci ha portato in avanti come non mai, in una campagna elettorale per noi indimenticabile. Lo dico per tutte le esperienze che noi facciamo e le nuove riflessioni intorno al ruolo della leadership. La leadership è un elemento decisivo dal punto di vista della comunicazione e dal punto di vista della assunzione di responsabilità in quel patto tra i cittadini che è un patto di persona a persona.


Ma mettere in campo un partito è un’altra cosa, mettere in campo un partito significa passare dall’io al noi, significa passare dal tempo breve al tempo lungo, diciamo medio per prudenza. Ed è per ciò che non possiamo accontentarci di partiti personali, quale che sia il nome di questi partiti. Non possiamo accontentarci né di partiti personali né di partiti che nascono da uno scontro di personalismi, di partiti che sono definiti come il confronto tra tifoserie. Noi dobbiamo cercare di costruire il partito intorno alle nostre scelte, alla prima che abbiamo fatto – “uniti” – e alla seconda che è oggi al centro del nostro dibattito – “per unire”.


E’ stato detto: ci vuole entusiasmo. Mi sembra che l’abbia detto Franco Monaco, ma lo dice sempre, lo ricorda, Pierluigi Castagnetti. Io dico: certo, come potremmo vincere senza entusiasmo? Ma non ci basta un entusiasmo qualsiasi. Abbiamo bisogno di un entusiasmo che duri, non un entusiasmo che nasca dalla vittoria, dall’occasionale risultato elettorale, dalla prossimità, dalla probabilità della vittoria, per poi squagliarsi per la perdita di 2-3-4 punti (abbiamo visto crollare segreterie per molto meno).


Noi abbiamo bisogno di un entusiasmo che poggia sulla convinzione. Per vincere in democrazia bisogna convincere, e per convincere bisogna soprattutto convincere noi stessi. Solo se saremo convinti riusciremo a proporre quell’entusiasmo e quella convinzione, come base di quell’entusiasmo di cui sentiamo l’urgenza e il bisogno.


E’ sulla base di queste premesse che, onde non cadere nella tentazione di farla lunga – ho visto che De Mita ha battuto se stesso: provo ad imitarlo – (spedisco) tre messaggi.


Il primo a tutti e quattro i partiti dell’Ulivo, alle donne, agli uomini, ai movimenti che si sono riconosciuti già e ai quali chiediamo di riconoscersi nella nostra proposta. Un messaggio, una cartolina. Pierluigi ha già introdotto l’argomento da par suo. La cartolina dice una cosa sola: l’Europa è in pericolo. Non è solo stanca,  l’Europa è in pericolo. La sua salvezza, la sua realizzazione dipendono dalle nostre scelte. L’Europa ci chiede di svegliarci e di tradurre il sogno, a cui fa riferimento nel titolo Romano, nelle scelte. Noi sappiamo che andiamo incontro a una stagione in cui l’Europa come sogno sarà messa a dura prova. Già è a dura prova la scelta dell’euro, quella che avevamo preso come una galoppata sportiva. Sarà messa a dura prova nel sud: la fuoriuscita dall’obiettivo 1 e dai fondi strutturali che porterà i cittadini a chiedersi dove sta la convenienza. L’Europa sarà messa a dura prova ogniqualvolta, per cercare un confronto e un’unità più ampia, saremo costretti a governare le nostre particolarità.


Per questa prova, l’Europa di cui disponiamo non è sufficiente, l’Europa di cui disponiamo deve velocemente abbandonare la stagione della tecnocrazia, quella che è stata chiamata eurocrazia, quella che ci ha regalato, in qualche modo, grazie ad una sapiente costruzione affidata a dei grandi maestri, Monnet è tra tutti, l’edificio nel quale abitiamo. La nuova Europa, quella che inizia adesso, è un’Europa che deve trovare radice nel cuore e nelle ragioni, nelle passioni dei cittadini. Questo è il senso della nostra proposta. Una risposta al pericolo che le elezioni europee si traducessero ancora una volta in una conta etnica. Ci si diceva: ma perché inventarvi questa cosa quando stavamo andando tranquillamente a una elezione nella quale, approfittando del proporzionale, ci saremmo contati per poi dirimere le nostre differenze sulla base dei conti risultanti. Ebbene, stava proprio lì il pericolo, il rischio di una elezione europea ancora una volta indifferente all’Europa.


Ma prima ancora, l’Europa è al centro della nostra scelta perché è l’Europa, insieme alla riscoperta, debbo dire riscoperta perché c’è stata una stagione di incertezza, del tesoro che è nelle nostre mani sotto il nome di Costituzione della Repubblica italiana, l’altro nostro punto di riferimento. E qua sta la grandezza del riferimento di De Gasperi: nella capacità di capire e di spiegare, in un tempo in cui era chiamato a guidare un partito di piccoli comuni, un partito di contadini, che il mondo viene prima del villaggio, che la politica estera viene prima della politica interna. E questo lo diceva da uomo di fede, come ci ricorda Romano nel suo messaggio, ma lo diceva anche da uomo di frontiera.


L’Europa è la costante che attraversa tutta la nostra storia, aldilà delle provenienze. L’Europa è il punto che accomuna tutte le componenti, sia quelle che hanno sottoscritto questa proposta di lista unitaria, sia, nell’insieme, l’Ulivo, e direi ancora di più, o comunque non di meno, le altre componenti che dell’Ulivo e dall’Ulivo si tengono fuori. Contro di noi, contro questa idea e questa unità costruita intorno all’Europa sta una Casa delle libertà che viceversa vediamo proprio segnata da una profonda divisione, da una divisione che vede contrapporsi gli orgogliosi oppositori e resistenti contro l’Europa, mi riferisco evidentemente alla Lega, i sostenitori di un’Europa delle patrie e la componente che noi sentiamo, da questo punto di vista e solo da questo punto di vista, non lontana da noi, che viceversa riconosce nell’insegnamento dei padri fondatori della nuova Europa il riferimento qualificante della propria iniziativa.


Di questo dobbiamo impadronirci. Riprendere in mano il libretto e approfondirlo pensando e rispondendo all’urgenza, alla richiesta di passare dal progetto al programma per fare dell’Europa il nostro punto qualificante.


E qui sta la seconda lettera, la seconda cartolina. E’ una cartolina (che inevitabilmente), che abbiamo già spedito negli interventi precedenti, e che ha un destinatario, i Democratici di sinistra e in particolare il carissimo, consentitemi di dirlo, Piero Fassino. Dico carissimo perché so tutto il rischio che si è preso nel condividere con noi questa prospettiva, tutto il rischio che si è preso e ha accettato di condividere con Francesco Rutelli, dopo un primo momento di esitazione di fronte all’ambizione che questa prospettiva nascondeva e allo stesso tempo imponeva.


E’ una cartolina che inevitabilmente è intestata al gruppo unico, alla necessità, al riconoscimento della necessità che un’idea di Europa di questo genere, un’Europa centrale per la nostra dignità ha bisogno di un soggetto, di uno strumento perché possa essere realizzata, laddove è chiamata a realizzarsi innanzitutto nel Parlamento europeo. Noi non conosciamo altra forma di organizzazione né nella prassi né nei regolamenti parlamentari se non quella del gruppo. Ed è perciò che riproponiamo come conseguenza coerente di questa scelta qualificante la necessità del gruppo perché appunto sappiamo che in Europa nel Parlamento europeo nessuna delle famiglie esistenti coniuga contemporaneamente la istanza della ispirazione riformatrice e allo stesso tempo l’ansia, la preoccupazione, l’ossessione, se così mi consentite di dire, dell’europeismo. Ed è perciò che noi abbiamo bisogno di un soggetto, di uno strumento che si faccia carico di questa missione. Senza di questo la nostra proposta è e rischia di essere priva del suo principale obiettivo qualificante. E’ questa un’enfasi che non mettiamo noi, non la mette Prodi, che la ripropone in modo chiaro nel documento. L’abbiamo letta innanzitutto, e fra gli ultimi, in una riflessione, che per noi è un punto di riferimento, di Amato e D’Alema che appunto rivolgendosi ai segretari dei partiti socialisti hanno imposto l’esigenza di andare oltre l’esperienza del Partito socialista europeo. Non lo diciamo perché noi abbiamo iniziato un’esplorazione, lasciandoci, e per alcuni versi direi bruciandoci, i vascelli alle spalle.


Fassino ricorda e rivendica il titolo di fondatore del Partito socialista europeo. Che cosa dire dei popolari che riconoscono e si riconoscono nel nome del Partito popolare come elemento fondante della loro identità? E tuttavia, come non chiedere a chi ha bruciato alle sue spalle il vascello col quale aveva affrontato il grande mare del mondo, come non chiedere un eguale atto di coraggio da parte dei nostri compagni di strada?


Noi conosciamo le difficoltà e rispettiamo il dramma dei Democratici di sinistra. Sappiamo che non è una cosa da poco quella che gli chiediamo. Ma come non chiedere di condividere con noi questa ricerca? Come non avvisarli per lealtà che noi andremo comunque avanti, con la ferma determinazione che è iscritta alla virtù della temperanza; come di chi avendo messo mano all’aratro non si volta indietro? Con la testardaggine che un tempo dichiaravamo di portarci dentro e che adesso uniti – in questo caso mi rivolgo alla componente democratica che condivise con me questo motto e che invece, forte dell’incontro con i popolari e con gli amici e le amiche di altre estrazioni, noi sappiamo anche di poter esibire fuori. E’ perciò che io chiedo, e tutti noi chiediamo nel documento conclusivo, che già da adesso si avviino i contatti con le forze disponibili a condividere con noi il progetto di un soggetto nuovo, riformatore ed europeista.


Questa è la scelta qualificante che sta e che affidiamo a questa nostra Assemblea. Perché arrenderci al passato? Lo ripetiamo agli amici dei Democratici di sinistra. Voi che avete fatto tanta strada, che avete piano piano preso le distanze dalla tradizione comunista sino a dimenticarla e a superarla nella denominazione. Perché voi che avete condiviso con noi una ricerca di una unità nuova su una piattaforma nuova non condividete con noi questa ricerca? Noi sappiamo che questa ricerca è per noi una necessità che è inscritta nel nostro DNA. Voi sappiate che noi capiamo la vostra fatica, ma questa comprensione, mentre ci spinge ad apprezzare i passi fatti in avanti, non ci fermerà.


La terza lettera, e chiudo qui, è quella che viceversa vorrei rivolgere a noi e che va sotto il nome di coalizione e di partito. Noi sappiamo, mi dispiace che Ciriaco sia andato via, perché appunto a partire dal ragionamento del ruolo delle coalizioni nel sistema maggioritario che noi dobbiamo ripartire, per riconoscere che le coalizioni nel sistema maggioritario non hanno tutto in comune, non oserei dire nulla in comune, con le alleanze interpartitiche che hanno segnato quella che abbiamo chiamato prima stagione della Repubblica. Le coalizioni del sistema maggioritario ci chiedono un progetto di lunga durata capace di reggere una legislatura, di andare oltre la legislatura. E quindi chiedono ai partiti che condividono la stessa ansia per il governo, quel Zentrum che ha ricordato ieri Francesco citando Dellai, ma ricordando che anche nella geometria italiana il centro è un punto e non è un’area, un punto equidistante da tutti gli estremi, e quindi una tensione che attraversa tutto il sistema, e non un territorio sul quale sedersi come su una rendita, dicevo proprio consapevoli che la coalizione nel sistema maggioritario è chiamata a condividere un progetto di lunga durata, che per tutta la coalizione è un progetto di centro perché è un progetto di governo di continui aggiustamenti di rapporti che hanno segnato la Prima Repubblica, quelli che ci regalavano appunto un Governo ogni 10 mesi. I partiti hanno la necessità di condividere un progetto di lunga durata ed è assolutamente evidente che un progetto di lunga durata chiede un soggetto diverso. Ma noi sappiamo che questo è un lunghissimo cammino ed è un cammino che, seppur definito da quello che abbiamo chiamato un processo federativo, chiede un motore. E questo motore che è quello che abbiamo affidato alla categoria di cooperazione rafforzata presuppone dei cooperatori, perché non esiste la cooperazione rafforzata tra un partito e una serie di persone. Di conseguenza, sino a quando ancorché anche uno solo dei partiti si propone come partito e ancor più e ancor peggio se il partito che difende come orgoglio la propria identità di partito è quello che rivendica e difende il proprio primato quantitativo e qualitativo, la cooperazione rafforzata chiede altri cooperatori e partiti cooperatori.


Qui sta la radice della necessità insopprimibile della Margherita. Per questo abbiamo bisogno di un partito, un partito aperto, guidato da una cultura di governo. E’ questo il partito al cui servizio ci siamo messi. Noi sappiamo che abbiamo avviato una riflessione critica sul partito che abbiamo costruito. Ma noi sappiamo anche che non abbiamo altro partito che questo. E’ al servizio di questo partito che noi ci sentiamo chiamati. Questo partito è il nostro partito. Questo partito è il mio partito. Tesseramento o non tesseramento, dobbiamo evidentemente a questo punto passare dai nomi delle liste ai volti, alle mani che spesso sono chiamate solo a dar seguito a indicazioni che vengono dall’esterno, per cercare, dietro i nomi e i volti, i cuori e i cervelli. Ed è a partire da questo che noi abbiamo avviato già da questa scelta come elemento qualificante, un cammino che ha come obiettivo ossessivo quello della partecipazione. Se noi riusciremo a recuperare il senso del nostro cammino, che in questo caso parte dall’Europa e punta a recuperare il senso del nostro progetto, facendo della Margherita un elemento qualificante, protagonista di questo cammino, noi siamo sicuri che la vittoria è a portata di mano. Se l’obiettivo è chiaro noi sappiamo che si vince, Prodi ce lo ricorda ma noi siamo chiamati a rispondere che poiché l’obiettivo è chiaro, vinceremo.