Roma, 20 mag – Il rilievo del tema e della scelta che è a noi dinanzi mi costringe – nonostante un malore improvviso mi abbia impedito di seguire i lavori, così come avrei dovuto e mi proponevo – ad intervenire, non fosse altro che per dichiarazione di voto, sulla soglia del voto che ci attende.
Mi aggancio immediatamente all’intervento di Marini che, in modo non sorprendente – Marini è Franco di nome ed è franco di qualità – ci ha ricordato che la scelta a noi dinanzi è una scelta decisiva. Ed è in nome di questo rilievo che Franco Marini ci invita a farla nel più breve tempo possibile, evitando rinvii.
Lo ringrazio perché se c’è un errore che dobbiamo evitare è quello del minimalismo. Minimizzare i problemi per minimizzare le soluzioni, e ritrovarci al punto d’arrivo i problemi ingigantiti, oltre ogni nostra disponibilità e previsione.
Ed è perciò che vorrei recuperare un filo del nostro ragionamento.
Innanzitutto la domanda alla quale oggi siamo chiamati a dare risposta.
Una domanda che non ci ha posto la provocazione di Fassino, una provocazione dalla quale lo stesso Fassino ha preso peraltro le distanze per quello che riguarda la formulazione. Ma tuttavia una provocazione, una provocazione che se corrispondesse al pensiero otterrebbe – come ha ottenuto – immediatamente da questa sala la risposta che meriterebbe. Un NO, corale, unanime, convinto.
Non siamo chiamati qui a rispondere a una domanda, neppure alla domanda posta dalla sollecitazione di Prodi.
Oggi, come nei due appuntamenti precedenti, che segnano questo periodo affaticato del nostro confronto interno, quello che fu avviato in l’occasione delle Europee, quello delle Regionali, noi siamo chiamati a dare una risposta a una domanda che ci siamo posti da soli.
Una domanda che siamo stati noi a porre agli altri. Una domanda che abbiamo scritto nei nostri documenti fondativi sin dall’inizio del nostro cammino. Come dar seguito nell’immediato, ogni volta nell’immediato, al progetto dell’Ulivo.
Perché questo vorrei che ci ricordassimo. Noi non abbiamo in comune un passato politico. Sono presenti in questa sala – ancorché con incidenze diverse – persone che vengono dalle sponde più diverse. Persone che vengono dalla tradizione democristiana. Persone che vengono dalla tradizione socialista, sia nella sua variante socialista in senso proprio, sia quelli che hanno cercato il socialismo all’interno dell’esperienza del Pci. Così come persone che vengono dai partiti laici e dai nuovi partiti che sono nati poi, successivamente, a cominciare dall’esperienza ambien-talista.
Quindi non è un passato, che ci accomuna, un passato politico.
Non ci accomuna neppure un riferimento estraneo alla politica, né di carattere sociale – non siamo identificabili in termini di riferimento di classe – e meno che mai, se mi consentite, in termini confessionali.
Noi siamo un partito laico perché ha scelto di essere un partito laico nel suo modo di porsi ad affrontare i problemi. Ma siamo laici anche per la composizione che ci definisce.
E quindi non è né il passato né il presente ulteriore il nostro riferimento.
Il nostro riferimento, sin dall’inizio, è stato il futuro.
E quel futuro l’abbiamo chiamato Ulivo.
Lo ricordo a me stesso, lo ricordo a quelli che sono entrati in questa vicenda dalla porta dalla quale sono entrato io. Noi scrivemmo assieme Ulivo – Margherita – Ulivo per indicare una prospettiva. Per indicare il senso del cammino.
Ulivo – Margherita – Ulivo abbiamo lasciato scritto nei nostri strumenti statutari, nel nostro Statuto, nel preambolo della Statuto, lo abbiamo argomentato e svolto nella Carta dei principi.
Questa è la regola di ingaggio, il riferimento che ci ha portati e che ci tiene dentro la Margherita.
E’ per ciò che ringrazio Marini. E viceversa sono costretto a prendere le distanze da chi tende a ridurre il problema a noi di fronte in termini di grafica elettorale. Un segnetto sulla scheda accanto a un altro segnetto.
Torniamo un momento indietro. E cerchiamo di chiederci cosa sia l’Ulivo.
Un segno botanico che vuole rappresentare davanti agli elettori un patto tra partiti?
Certo. Per molti è stato questo e solo questo. La necessità imposta dalla nuova regola elettorale che costringeva, per affrontare il maggioritario, a costruire alleanze e a rappresentarle.
Ma noi sappiamo che dentro questa esperienza, dietro questa esperienza, è nata una domanda nuova. Che riproponeva una domanda antica. Domanda nuova e domanda antica che riguardano il governo del Paese. Domanda nuova e domanda antica che ci chiama, ci ha chiamati, ci chiamerà ancora a lungo a ricordarci che il nostro Paese non ha risolto quello che è il problema fondamentale.
Che non è quello di rappresentare le nostre differenze. Ma di portarle a sintesi intorno ad un progetto di governo.
Questo è il problema che il nostro Paese si porta dietro.
Ed è perciò che mi terrorizza, lo dico pensando a Ciriaco De Mita quando ripassando il passato vittorioso della campagna elettorale in Campania, nota con commozione – e lo capisco – con commozione, di aver rincontrato la politica.
E’ una politica che noi abbiamo deciso di lasciare alle nostre spalle. Non perché non ne apprezziamo il rilievo storico che questa politica abbia avuto in una fase importante della nostra storia nazionale. La politica della rappresentanza, che affidava il governo a una tattica scambiata per strategia e ad una affabulazione scambiata per pensiero politico.
Questa è la politica che noi abbiamo alle nostre spalle, questa è la politica dalla quale abbiamo preso le distanze nel momento in cui abbiamo intrapreso il cammino comune.
Una politica che cerca di superare quella condizione di stabile instabilità che nelle definizioni più ricorrenti caratterizza e definisce la condizione del nostro Paese. Una condizione che l’ha pian piano portato indietro nelle graduatorie della storia, impedendo e rallentando se non in alcuni momenti importanti in cui il progetto riformatore ha preso o ha ripreso la guida che ci ha consentito chissa’ solo per un momento di sedere alla pari con gli altri paesi.
Questo è il problema. Un problema che ci chiede, sì, di allargare i consensi. Sì, di inventare strumenti che consentano a tutti e al maggior numero di persone di riconoscersi nella proposta avanzata.
Sì di moltiplicare le liste, perché questo è lo strumento classico attraverso il quale questo obiettivo viene realizzato. Ma che ci chiede soprattutto di affidare la stabilità non al numero di seggi parlamentari, ma alla forza della nostra proposta, alla forza politica e istituzionale della nostra proposta.
Perchè noi sappiamo che abbiamo cercato questa meta rifiutando i rischi del presidenzialismo plebiscitario, rifiutando il presidenzialismo plebiscitario. E allo stesso tempo però lasciandoci definitivamente alle nostre spalle la condizione di una democrazia impotente.
E noi sappiamo che, poichè a livello comunale, a livello provinciale, a livello regionale questo problema è stato impostato se non proprio definitivamente risolto – ma comunque risolto almeno in modo sufficiente – attraverso l’investitura diretta dei responsabili di Governo con un voto popolare che li legittima a proporsi come la sintesi sulla base della quale si stringono i patti con gli elettori e sulla base della quale si è chiamati a dar conto agli elettori. Una situazione e una soluzione che ci consente di guardare senza particolari drammi alla scheda di Catania di 95 centimetri per 33 liste, perchè noi sappiamo e i cittadini sapevano che comunque lì c’era un riferimento riconoscibile che assicurava una certezza di Governo.
Noi parliamo tanto della certezza del Diritto ma è la certezza di Governo che i nostri cittadini ci chiedono, oltre alla certezza del Diritto.
Ebbene, noi sappiamo che se questi problemi sono stati risolti a livelli inferiori, non sono stati risolti a livello nazionale.
Noi sappiamo che a livello nazionale, per le nostre differenze all’interno della nostra coalizione, per le nostre incertezze e allo stesso tempo per l’ inevitabile lezione che ci è venuta dal berlusconismo, che proponendo una riforma costituzionale particolarmente squilibrata ha rifatto salire alla bocca tutte le parole e tutti i sapori che la nostra esperienza nazionale ben conosce – noi abbiamo deciso di cercare la soluzione del fondamento della forza di governo non nella forza di un leader solo al comando ma nel rapporto tra il leader e la sua coalizione.
Ma noi sappiamo anche che questo è possibile in assenza di sostegni istituzionali nella misura in cui la coalizione trova e consente a chi ha la responsabilità di governo di disporre di un riferimento di sintesi, stabile, di un soggetto all’altezza dei progetti di cui il paese ha bisogno.
Perchè noi sappiamo che questi progetti non sono progetti di breve durata. Questo vale sempre ma a maggior ragione in un passaggio come quello presente che oltre ai problemi del passato deve caricarsi anche dei problemi che ci lascia in eredità il berlusconismo: altri cinque anni perduti.
Ed è perciò che io debbo ricordare a voi che questa soluzione l’abbiamo chiamata Ulivo.
L’Ulivo non è un segno botanico, ma è la risposta a questa domanda, una risposta che chiama a costruire un soggetto. Plurale stabile, coeso, unito, che attraverso la propria unità e la propria stabilità dia stabilità all’intero campo del centrosinistra, e quindi al Paese.
Questa è la risposta che noi abbiamo cercato, questa è la proposta sulla quale lavoriamo. Ed è per questo motivo che – l’ho detto in corso d’opera perché sia chiaro – che se alle europee la proposta della lista unica dell’Ulivo rispondeva al bisogno di governare la nostra competizione ed evitare laceranti contrapposizioni che ci dividessero e allo stesso tempo togliessero dal centro della nostra attenzione l’Europa, lo stesso non ho detto per quello che riguardava la lista, la scelta della lista alle regionali.
Perchè se c’è un dato che ci ha accomunato, tutti, sin dall’inizio, sin dalla prima dichiarazione che ho fatto in risposta alla obiezione di Marini quando all’indomani delle europee, anche se con motivazioni e modulazioni che mi rendevano inaccettabile la proposizione, disse: la scelta delle Europee non è replicabile alle regionali , dissi: certo, qual è il problema?
L’ho detto e lo abbiamo detto: qual è il problema?
Non quello di dire no a Prodi, che in quel momento non aveva posto il problema. In quel caso la risposta ha preceduto la domanda e da lì è nato il dramma nostro dell’anno scorso.
Il no è venuto prima del perchè. Però qui sta la nostra scelta.
Quello che non era necessario e indispensabile alle regionali, quello che non è necessario e indispensabile meno che mai alle elezioni comunali è assolutamente importante, decisivo, determinante nel futuro del paese, nella stabilità del Governo, a livello della scelta nazionale.
Perchè qui, e comincio a confrontarmi con la risposta, si fa facile a dire tre si: si all’Unione, si alla Federazione, sì alla Margherita.
Senza rendersi conto che questi tre sì equivalgono a un no.
Ed equivalgono a un no all’Ulivo che adesso ho evocato. All’Ulivo risposta forte, stabile e unita per il governo del paese.
Si fa in fretta a dire sì. Ma noi sappiamo che la vita è dinamica.
In una foto si può descrivere in modo dettagliato la situazione di questo tipo. Ma poi immaginate che una volta che la dinamica si mette in moto, la situazione statica che adesso è stata descritta, la situazione che Francesco ha evocato come un cammino in pianura, un cammino non in discesa e neppure in salita, non prenda la curvatura che ci attende?
Questo è il problema che io vi pongo.
Voi immaginate che aprendo la questione della guida politica – mi riferisco a quella della coalizione – affidandola alla competizione quantitativa il problema si risolva in termini tali che noi riusciamo a immaginare oltre che il punto di partenza anche il punto di arrivo?
Questa è la domanda che vi pongo. Ognuno se la ponga.
Noi sappiamo ad esempio che il primo passaggio di questo cammino è l’adempimento al patto federativo con l’Udeur, al quale in mancanza di una lista unica dell’Ulivo non potremmo che dare adempimento sulla base dell’accordo stretto lo scorso 12 gennaio, così come abbiamo appreso dai giornali.
E lo dico ricordando e prendendo atto della dichiarazione di Marini, anche se dal punto di vista formale penso che un partito che meriti il nome di partito affiderebbe queste scelte ad un organo statutariamente competente e non lasci invece un patto federativo di questo tipo alla iniziativa autonoma di dirigenti ancorchè di livello massimo, ignote nel loro contenuto a qualsiasi organo di partito. E in una scelta di questo genere, la controfirma di Fassino e Chiti lungi dal rassicurarmi mi inquieta ancora di più.
Perché è chiaro che questa scelta nasce dalla esigenza di risolvere il problema Mastella ma pur sempre nel quadro di una tassonomia, di una topografia che affiderebbe a noi un compito preciso: quello di coprire il fianco destro. Perchè questo è il problema di cui noi stiamo parlando ed è questo di cui ci ha parlato Francesco Rutelli nello spiegare perchè la Margherita non può non presentarsi da sola alle elezioni: per svolgere la funzione di intercettare i voti che vengono dalla destra.
Perchè questa è la giustificazione che è stata portata. Non quella fondata nella necessità di correggere lo squilibrio con i Ds per riaprire la prospettiva dell’Ulivo. Quella all’origine della nascita della Margherita nel 2001, quella addotta a giustificazione della resistenza alla presentazione della lista unica alle regionali in nome della necessità di far registrare l’esistenza e la consistenza del partito per garantire e misurare la natura plurale dell’Ulivo. Se il riequilibrio dei rapporti di forza non è stato confermato in una elezione come quella che ci lasciamo alle spalle, nella quale abbiamo gareggiato nelle condizioni migliori, dimostrando la stabilità della presenza della Margherita io non saprei proprio immaginare in quali condizioni la presenza, la consistenza della Margherita e la natura plurale dell’Ulivo potrebbero essere documentati meglio.
Una valutazione che, non posso dimenticarlo, all’indomani delle elezioni, in un dibattito dell’esecutivo federale, ci spinse a chiederci: “se non ora quando?”. “Dobbiamo riprendere in mano la guida del progetto – convenimmo – sapendo che riconoscendoci in questo progetto ci riconosciamo nel nostro progetto, come ricordammo agli altri e a noi stessi in occasione dell’approvazione della Federazione da parte di questa stessa Assemblea”..
A poco più di un mese da quella valutazione, ho invece l’impressione che il rafforzamento, la prova della stabilità della nostra consistenza invece di spingerci ad andare avanti lungo il cammino dell’Ulivo ci abbia portati a regredire nella condizione della paura.
Una paura della quale dovremmo poter anche discutere dentro le nostre assemblee ma anche tra i cittadini che ci circondano: in Campania, ma anche nel centro-nord, nei paesi dell’Irpinia e del Sannio ma anche nelle grandi città, in modo analitico e corretto.
Ed è alla luce di questa paura che torna, di questa tentazione di rinchiuderci in un territorio tutto nostro, in nome di un compito esclusivo, che mi preoccupa quello che si prospetta come il primo passo: il patto con l’Udeur. Un passo già sottoscritto che meriterebbe di essere sottoposto al voto di questa assemblea.
E mi sorprende che di esso non venga chiesto conto proprio dalle persone che più di tutte sono appassionate della maiuscolità della prima lettera del sostantivo partito, di quello che fa partito un partito. Mi sorprende che quanti in contrasto con la logica di movimento affermano il partito come una convivenza governata da regole condivise non chiedano che l’accordo con l’Udeur venga sottoposto al voto.
Perché vorrei che fosse chiaro a tutti che la conseguenza minima del rifiuto della lista unitaria ha nel patto con l’Udeur un passo qualificante di una direzione. Una direzione che, accompagnata dalla proposizione che la nostra vocazione è intercettare il voto del centrodestra, ci chiama come secondo passo a farci casa accogliente della transumanza di pezzi di ceto politico provenienti dal centrodestra. Come non immaginare poi che una volta apertasi la competizione all’insegna del “chi ha più tela più tessa”, come si suol dire, non si proceda ulteriormente in questo cammino?
Ed è per questo che io ritenevo che oggi si sarebbe dovuto aprire il dibattito, anche se non necessariamente concludere.
Vedo però che la maggior parte di voi, per riflessione autonoma o per sollecitazione esterna, è arrivata alla conclusione che questo dibattito oggi debba essere aperto e oggi chiuso.
E’ un percorso che non coincide con la scelta che avevamo immaginato all’inizio. Un percorso che ci chiamava certo ad evitare, a rifiutarci a un ennesimo tormentone come quello dei passaggi precedenti ma tuttavia ci chiamava a una scelta meditata. Ancor più su un tema, come quello sul quale siamo stati chiamati oggi a decidere, che ha un rilievo costituente, un rilievo statutario.
Se noi fossimo un partito dotato delle forme organizzative degli altri partiti, difficilmente riusciremmo a resistere alla richiesta di un congresso straordinario.
E’ un congresso che io ritengo che non sia necessario perchè l’assemblea federale ha nel nostro statuto tutti i poteri di fare questa scelta, anche per modificare lo Statuto. Tuttavia noi sappiamo che la scelta che stiamo facendo ha un rilievo politico costituente che chiama in causa il nostro patto costitutivo.
Ed è perciò che io considero la proposta di Francesco innanzitutto inadeguata nella prospettiva.
Perchè è di questo sopratutto che noi discutiamo: della prospettiva. In una coalizione possono coesistere partiti, che condividono il presente al livello del programma di governo – ed è questa la nostra condizione – ma non condividono la prospettiva di cambiamento del sistema politico e meno che mai i tempi e i modi per realizzarla.
In un soggetto più ristretto come l’Ulivo ai partiti è richiesto di condividere l’obiettivo, ancorchè siano legittime le discussioni sul modo in cui perseguirlo.
E’ difficile in un partito avere delle incertezze contemporaneamente sulla prospettiva e sui tempi e i modi per realizzarla.
Oggi Francesco ha riproposto sul tavolo una riferimento forte, un riferimento che ci ha guidato durante tutti questi anni: Partito Democratico. E lo ha fatto senza intimidirsi per il sostantivo e rivendicando tutta la forza dell’aggettivo. Partito Democratico è esattamente il progetto per il quale ci siamo messi in campo, un progetto che ci chiede di rifiutare ogni soluzione che ci inglobi in storie altrui. Un nome e un progetto che ci chiama a rifiutare egemonie e annessioni e ci costringe a scegliere una prospettiva diversa, nuova.
Ma non nell’attesa, come ha detto Francesco, di un “nuovo inizio” rinviato ad un futuro generico, ma all’interno di un cammino che continua.
Ma possiamo noi dire che dentro il nostro partito abbiamo mai aperto tra noi, prima di oggi, una riflessione su come arrivare al Partito Democratico?
E se questa è una citazione di carattere non meramente retorico, non meramente evocativo, perchè non proporla positivamente come oggetto di discussione agli altri? Perchè ridurla ad una invenzione strumentale, ad un inciso?
Perchè non ricordare che la stessa scelta dell’Ulivo come nome corrispose per la sua indefinitezza alla decisione di associare per l’immediato questo progetto ad un nome che non chiamasse in causa nè sostantivi nè aggettivi causa di discussione, come è appunto il “partito democratico”, affidando al tempo il suo svolgimento?
Se la prospettiva del Partito Democratico fosse stato il tema di oggi, se questa diventasse senza alcuna incertezza la nostra scelta e la scelta comune, il confronto avrebbe avuto tra noi un altro senso.
Ma è questa la proposta? Io ritengo di no.
La proposta è un no nel presente coperta da un generico sì in un lontano futuro. La proposta è l’interruzione di un cammino nel presente coperta da un nuovo inizio rinviato ad un generico futuro.
Ed è per questo che ritengo che la proposta di Francesco sia la risposta più puntuale alla richiesta rivoltagli in romanesco sul sito di Aprile “Francè, facce sognà!”. Così come all’applauso che ha accolto, la scorsa settimana a Firenze all’incontro del Correntone, Franceschini che li rassicurava sul ritorno all’antico.
Perchè questa è la verità. Il sogno che a Francesco e a Franceschini veniva richiesto, il sogno che è stato qua riproposto, è il sogno del ritorno alla normalità.
Una normalità che finalmente riconosce l’Ulivo come un pasticcio, come abbiamo sentito nella relazione introduttiva, un “pasticcio di allodola e cavallo”, quel pasticcio dal sapore indistinto incerto e sgradevole, come Cossiga ripetutamente ci ricorda.
Una normalità nella quale finalmente il centro torni a fare il centro e la sinistra faccia la sinistra, e divaricandosi tra loro allarghino il campo della raccolta dei voti e quindi affidino al numero di seggi, come se Berlusconi con 100 seggi in più alla Camera fosse riuscito ad assicurare un governo al Paese. E, non invece, solo a risolvere i suoi problemi personali.
Di questo vorrei che si avesse il coraggio di discutere quando si affida la stabilità e la forza del governo futuro alla moltiplicazione dei seggi e non invece all’ancoraggio della loro quantità alla qualità del progetto.
In questo contesto è quindi vero che il “sì all’Unione” significa il ritorno – come ha detto giustamente Franceschini – a un Ulivo “prima maniera”: ad un Ulivo come segno di un semplice accordo tra partiti.
Il “sì alla Federazione” che si nega alla prima prova politica, in senso proprio, all’unica prova politica alla quale meriterebbe di sottoporsi, significa la riduzione della Federazione a un centro studi o a una “piccola Unione”.
Mentre noi vorremmo fare dell’Unione un grande Ulivo e non dell’Ulivo una piccola Unione.
Una Federazione che si ridurrebbe a poco più di una riunione preparatoria degli incontri programmatici dell’Unione in cui alcuni partiti si dovrebbero mettere d’accordo su che cosa dire nella riunione successiva, essendo escluso in partenza che lo si dica con una sola voce ed anzi essendo spinti dalla competizione tra i partiti ad esaltare nella comunicazione le nostre differenze.
E infine il “sì alla Margherita” rischia di essere, per le motivazioni e per l’assenza di un aggancio finale, il sì ad una Margherita coinvolta in un processo in discesa, in un cammino in discesa. Ma , ahimè, in un cammino all’indietro.
Ed è perciò che, nell’affidare alla vostra riflessione queste mie considerazioni, io non posso che anticipare il mio voto negativo alla mozione che si annuncia.
E allo stesso tempo sollecitare il vostro diniego in nome dell’Ulivo.
Non posso che dichiarare un NO orgogliosamente ulivista.
Lo dico a chi ha voluto ricordare che l’ulivismo non è soltanto uno.
Sì, è vero, di ulivismi ce ne sono stati sin dall’inizio almeno due. L’ulivismo delle elezioni e l’ulivismo del giorno dopo le elezioni. L’ulivismo di chi ha iniziato e quello di chi si è pentito. L’ulivismo delle parole e dei segni e l’ulivismo dei fatti. O almeno quello di chi cerca di tradurre le parole e i segni in fatti, faticosamente, con pazienza, ma con la determinazione che questo richiede.
Ed è per questo che ognuno si qualifichi come vuole. Potremmo anche abbandonare questo termine che sta perdendo totalmente il suo significato e che con la scelta di oggi rischia di perderlo definitivamente.
Celebri ognuno il suo Ulivo. Si adorni pure di foglie e foglioline. Sono sicuro che i cittadini sanno distinguere.
I cittadini distingueranno.