2222
27 Ottobre 2013

IL FONDATORE: ARTURO PARISI ALTRO CHE CONGRESSI. QUESTE SONO CONTE. Luca de Carolis, Il Fatto

“Senza il confronto e la scelta sulle cose che contano, quelli che chiamiamo congressi si trasformano in conte.”. Arturo Parisi, 72 anni, professore universitario, è stato uno dei fondatori del Pd. Rivendica la sua uscita dal Parlamento (“12 anni alla Camera mi son sembrati sufficienti”). Non andrà a votare per il suo circolo e gli organi del partito di Bologna. “Ma da cittadino sostengo il Pd, e voterò per la segreteria nazionale”.

Professore, da mezza Italia arrivano notizie di tesseramenti gonfiati e ricorsi dai congressi Pd. Il partito sta mandando osservatori per mettere ordine. Cosa prova, lei che ha pensato e fondato il partito?

I partiti sono come le case: non basta costruirle. Dopo vanno mantenute pulite, ogni giorno. Alcune patologie sono connaturate alla politica. Bisogna vigilare perciò con costanza.

In casa Pd forse la vigilanza è stata insufficiente.

Mi faccia innanzitutto guardare alle cose positive, al fatto che il partito sta tentando di correggere le situazioni poco chiare, inviando persone sul posto. Vuole fare pulizia.
E poi c’è il dato della trasparenza: i panni sporchi il Pd li lava in pubblico, a differenza degli altri partiti. Non si nasconde, insomma. E così dà più lavoro a voi giornalisti…

Resta la gravità della situazione. Congressi rinviati, le truppe cammellate che fanno incetta di tessere…

Se dire partiti e politica è dire potere, la competizione e la lotta vanno messe nel conto. Quello che importa è che sia leale e che a contare siano le idee, il che cosa, prima del chi.
Eppure questi sono i congressi: dovrebbero essere un’occasione di confronto politico.
E’ quello che dovrebbe capitare. Ma ancora siamo lontani.
In queste infinite conte le tessere hanno prevalso finora sui tesserati, e in ognuno la preoccupazione di contare i suoi per garantire il suo. Purtroppo la politica, il confronto sulle domande che contano, e la scelta tra le risposte in campo resta ancora lontana. 
La domanda è: come si ferma tutto questo?
Rispettando inanzitutto le regole che ci siamo dati. E prima ancora dandoci solo quelle che pensiamo possano essere rispettate. Di certo il Pd di regole ne ha troppe e troppo spesso le cambia. Esattamente come capita per tutto il Paese. Ricordo quel che Veltroni mi replicava quando ponevo il problema della legalità interna: ‘Nessuno ha un tante regole come il Pd’. E io che rispondevo: “Appunto.” 
Passiamo avanti.
Forse l’altro nodo di oggi è l’eccesso di votazioni nel partito. Conti alla mano, ormai ci sono congressi o primarie ogni quattro o cinque mesi. Una sfida per i gruppi di potere, ma allo stesso tempo una febbre permanente, per ognuno una mobilitazione continua per tenere all’esterno le posizioni del gruppo, e la disciplina all’interno.
 
Si dovrebbe votare di meno?
Non è questo il problema. Il problema è su cosa. 
Ossia.
Se i congressi locali son congressi locali, legati cioè a temi distinti, sarebbe stato meglio svolgerli in un tempo distinto. Non collocati come sono dentro il percorso nazionale. Dovrebbero essere invece legati in modo stretto ai temi nazionali, ovvero alla competizione per la segreteria nazionale.
(In questo modo il dibattito sui temi che contano finisce invece vittima della preoccupazione che le distinzioni sulle questioni nazionali non metta in crisi l’unità dei gruppi locali. Per evitare di mettere in tensione le fedeltà locali si finisce per non parlare dei temi che contano. E’ anche per questo che il giudizio sul governo presente è finito fuori dal dibattito con la scusa che quello che conta è l’Italia futura.)
E quindi…
E quindi non riuscendo a contare preferiamo ci limitiamo a contarci.
Perché i capibastone sono così resistenti? I giovani non dovrebbero avere una maggiore spinta a scalzarli?
Innanzitutto dobbiamo riconoscere che un ricambio c’è stato. Che poi questo continui è un’altra cosa. La verità è che resiste meglio e di più chi ha già resistito. E ha resistito di più chi è da più tempo in campo, cioè a dire chi è sceso in campo prima. E’ per questo motivo che non bisognerebbe cominciare a fare politica a tempo pieno prima di una certa età. Altrimenti si finisce prigionieri per tutta la vita, si diventa forzatamente professionisti. Si metta nei panni di uno che dovrebbe lasciare dopo tre legislature dopo aver iniziato a 27 anni. E’ più facile che cambi partito piuttosto che cambiare lavoro. O, (per difendersi dal rischio di perdere il posto,) si trasformi appunto presto in un capobastone.
Non avere una professione alternativa li rende più ricattabili?
Diciamo meno liberi.
 
E’ che dobbiamo scegliere. Se la politica è una roba seria da lasciare ai professionisti della politica, e non “da dilettanti alla Parisi” come diceva legittimamente D’Alema, prima si inizia e meglio è. E allora, viva la rottamazione. Anche se forse su questo D’Alema è meno d’accordo.
 
Che ne pensa di Renzi?
L’ho votato l’anno scorso, e lo rivoterò ancora. Dirsi renziano, come giustamente dice lo stesso Renzi è un’altra cosa. Tra le alternative sulle quali si è strutturata la competizione è il candidato che più di altri può spingere il processo di cambiamento nella direzione che preferisco.
 
Moltissimi stanno salendo sul suo carro, in questi giorni. Renzi come si puo’ difendere?
Con la politica. Per esempio, lui è per il maggioritario e tutto quello che ne consegue? Come potrebbe avere tra i suoi chi sostiene l’opposto? E non penso al passato. Tutti possono cambiare posizione. Ma devono dirlo e piegare perchè. Se è innegabile che i voti contano, a decidere debbono essere le idee.

(tra parentesi parti che nella versione stampata sono state omesse per ragioni di spazio)