Visto che Kerry ed Obama hanno abbandonato i numeri arrotondati che un tempo preferivano contare i morti con armi tradizionali a centinaia di migliaia e i profughi a miloni, e hanno voluto invece informarci con esattezza che 426 sono appunto i bambini e 1429 il totale dei morti con le infami armi chimiche, conviene segnarsi un altra cifra esatta, 226. A stare a Google earth 226 è infatti la somma dei chilometri che sul mio Iphone misura la strada che, passando per Beirut, separa Damasco da Naqoura, che nel Sud del Libano è sede del comando della missione Unifil, la Forza di interposizione dell’Onu, la missione internazionale che, sotto la guida di un nostro generale, vede in prima posizione tra i contingenti occidentali i 1174 soldati italiani. Questo sta a dire che mentre altri discutono se andare o no in quell’area martoriata, o come starci senza calcare il terreno con i loro scarponi e quindi rischiare di lasciarci i loro piedi, noi là ci siamo già. Ad una distanza simile a quella che separa Roma da Napoli, o Milano da Bologna. Questo significa che i nostri soldati, i soldati che esattamente nell’agosto del 2006 mandammo col basco azzurro dell’Onu, interrompendo con la nostra iniziativa il fiume di sangue che aveva ripreso a scorrere copioso tra Israele e Libano, hanno bisogno più che mai del nostro sostegno e prima ancora della nostra consapevolezza. La consapevolezza che deriva dal fatto che se dovesse esserci una ritorsione la zona a più alto rischio sia proprio quella. A rischio perchè va modificandosi il contesto, a rischio perchè gli sciiti Hezbollah che abbiamo immediatamente difronte, alleati diretti del regime siriano, il cui “braccio armato” è stato recentemente incluso dall’UE nella lista nera delle organizzazioni terroriste hanno visto modificare il loro statuto iniziale, a rischio perchè alcune componenti nazionali che operano al nostro fianco nell’Unifil hanno modificato di fronte alle forze in campo la loro posizione o abbandonando la missione come è capitato qualche giorno fa per il contingente turco o ridefinendo la posizione di terzietà, come per i francesi. A rischio è tutto ciò che la nostra presenza ha cercato di ottenere finora offrendo il suo braccio e il suo cuore a quel nome della speranza che con ostinazione continuiamo a chiamare Onu. E’ assolutamente evidente che difronte al convulso e drammatico modificarsi del quadro non possiamo non interrogarci assieme agli altri Paesi partecipanti e in sede Onu per verificare i presupposti e le condizioni, ridefinire le finalità, e riconsiderare i mezzi, a cominciare dalle regole di ingaggio, che hanno guidato finora la missione. Mentre altri decidono se prescindere dal quadro di legalità dell’Onu, noi non possiamo limitarci a prendere atto delle loro decisioni con un atteggiamento di passiva e distaccata neutralità. L’assunzione del rispetto della legalità dell’Onu come criterio fondamentale per le nostre scelte di politica militare, e la decisione di mettere la nostra forza al suo servizio, non ci consente di essere contemporaneamente sui due lati del fronte: a Naqoura sostenitori attivi della legalità internazionale, e 226 chilometri più in là passivi osservatori della sua violazione. Ammesso che fossimo noi a permettercelo, potrebbero non permettecerlo più gli altri. La missione che sette anni fa difronte al Parlamento difesi come, “doverosa”, anche se “lunga e costosa”, comincia a diventare “rischiosa”, molto rischiosa, e soprattutto, senza una sua attenta riconsiderazione, inutilmente rischiosa. Chi allora si fece promotore della iniziativa ha, difronte ai nostri soldati, al Paese, e alla stessa Onu, il dovere di vigilare. Bene ha fatto perciò il governo a disporre tempestivamente l’invio alla volta delle coste libanesi del Cacciatorpediniere Andrea Doria, e della Fregata Maestrale. Vigileranno per noi nell’interesse dei nostri soldati, dell’Italia e della Pace.