Naturalmente discorriamo un po’ a ruota libera di una situazione estremamente incerta, aperta a ogni sviluppo. L’Iraq è in piena crisi politica, il suo popolo è sotto gravissima minaccia da parte dell’Isis, ma anche facendo affidamento sulla esperienza dell’ex titolare della difesa.
E dunque, professor Parisi, il governo italiano, d’accordo con l’Europa, ha scelto di armare le milizie curde: secondo alcune voci è un rischio eccessivo, altri chiedono un intervento più massiccio, sulla scia di quello americano. Lei che ne pensa?
Armare le milizie curde onestamente è una parola grossa. Ed egualmente eccessive mi sembrano le preoccupazioni di chi, a partire da esperienze passate, congettura sul destino futuro delle armi. A stare al suo rilievo oggettivo il contributo che l’Italia si appresta ad offrire in risposta alle richieste del governo regionale curdo è infatti modesto.
E sul piano politico?
Sul piano politico è invece rilevante. Accanto al modesto “che cosa”, nel nostro caso sta infatti un “a chi”, e soprattutto un “perché” ben più importanti delle armi in sé. Innanzitutto “a chi”. Pur difendibile sul piano formale, grazie all’assenso del governo centrale iracheno che riconduce l’operazione ad un rapporto tra Stati, il riconoscimento nei fatti del governo regionale curdo come destinatario e interlocutore immediato, trasforma sul piano politico le armi attuali in una risorsa ben più potente del loro modesto rilievo materiale attuale.
Ma come spiega la scelta italiana?
Quanto al “perché” della nostra iniziativa è evidente che il nostro contributo rappresenta comunque una esplicita scelta di campo dentro l’attuale conflitto mediorientale. Una scelta che ci chiama a continuare il discorso oltre l’occasionale emergenza. Tutto questo non sarebbe certo capitato se ci fossimo limitati alle 50 tonnellate di acqua e biscotti trasferite dai nostri C130J da Abu Dhabi nel Kurdistan. Fosse solo per questo la provocazione di oggi è una occasione preziosa. Essa dice non solo che non ci siamo girati dall’altra parte, ma che abbiamo iniziato oggi un cammino. Un cammino che non può fermarsi qua.
Ci si è resi quindi conto che la situazione è molto cambiata con il nuovo irrompere del fondamentalismo.
Alla partenza di questo cammino c’è il riconoscimento concreto che alle porte di casa divampa un incendio, prodotto dal jiadhismo contro minoranze di tutte le confessioni religiose che attraversa tutti i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, e alimentato dalle nostre colpe e dai nostri errori, di italiani e di europei. Io mi attendo che l’iniziativa del governo, anche al di là delle forme parlamentari, incontri oltre al consenso della maggioranza delle forze politiche anche quello spirito di unità che sento auspicato da più parti.
Nel voto di ieri in parlamento si è manifestata una convergenza ampia, con qualche dissenso…
Più che il dissenso, anche il più radicale, temo l’indifferenza, o quel sostegno superficiale diffuso che connota da tempo a livello di massa la nostra cultura politica in tema di relazioni internazionali e di sicurezza. Ecco perché mi auguro che il confronto di oggi limitato per necessità al livello di commissione continui a svolgersi con il coinvolgimento di tutto il Parlamento e dell’intero Paese.
Lei come valuta la scelta del premier Renzi di essere presente di persona oggi a Bagdad?
Conoscendo lo stile di Renzi, il suo desiderio di “mettere la faccia” nelle scelte che sente fondamentali, di certo non mi ha sorpreso. La leggo come una espressione del suo “agire comunicativo”, un modo per rendere evidente, che l’Italia e l’Europa guarda e vede quel che succede.
Ma l’Italia può svolgere un ruolo specifico nella crisi. E come?
Da sola di certo può fare poco. E tuttavia deve. Questa è una crisi mediterranea. E l’Italia è l’Europa nel Mediterraneo. Non sente i nomi che ritornano ogni giorno sui giornali? Gli stessi dei libri delle elementari. Non credo che ci sia bisogno di troppe parole. E tuttavia ho paura che le parole che andiamo ripetendo rischino di consumarsi prima di riuscire a diventare una vera consapevolezza collettiva. Come spiegare altrimenti gli errori che abbiamo fatto per la Libia… Le rispondo dalla mia Sardegna dove a sud cominciano a intensificarsi nel silenzio profondo gli sbarchi dal Nord Africa, e a nord il fondo sovrano del Qatar programma nel plauso generale i suoi investimenti. Ecco perché dobbiamo approfittare di questo passaggio per aprire un discorso di largo respiro che guardi negli occhi ed affronti in una visione di insieme tutti questi episodi sottraendoli alla contingenza e all’emergenza.
Sono anni che ripetiamo tutti la stessa cosa: l’Unione europea ha concordato una linea comune, ma continua ad affidarsi agli stati nazionali per la sua politica estera. Secondo lei, che è stato titolare della difesa, come fa questo a essere sufficiente per gestire situazioni come quella dell’Iraq?
Ha fatto bene il ministro Mogherini a sottolineare e rivendicare i passi fatti assieme nei giorni recenti fino all’incontro dei ministri degli esteri di Ferragosto. Ha fatto bene a spiegare come il cammino dell’Europa per farsi azione comune debba poi fare i conti con le distinte normative nazionali e le diverse capacità militari. Ha fatto bene ad evidenziare che i quattro Paesi più grandi hanno fatto ognuno le stesse scelte, anche se – aggiungo io – due a monte e due a valle del confronto comune. Questa è l’Europa che abbiamo. Ma non ci basta. Non può bastarci.
Professor Parisi, le chiedo un’ultima cosa: Papa Francesco ha chiesto un maggiore coinvolgimento delle istituzioni internazionali nella gestione della crisi irachena. Qual è la sua opinione?
Come non esserlo? Ma quanto ad impotenza purtroppo l’Onu è una Europa al cubo. Mentre ci aggrappiamo a questo barlume di legalità, a questo “poco meglio che niente”, purtroppo il sangue continua a scorrere, e tra gli stessi vescovi si alzano voci che implorano bombardamenti in difesa dei deboli. Questa è la realtà dei fatti.