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14 Ottobre 2008

Democratici per la Democrazia. Democrazia dei partiti. Democrazia nei partiti. Conclusioni di Arturo Parisi

Autore: Arturo Parisi

Nonostante accanto al mio nome ci sia scritto “conclusioni”, non penso di poter concludere un confronto che è appena iniziato. Lo dico pensando alle relazioni introduttive. Lo dico pensando agli interventi svolti. Lo dico pensando a quelli che avrei voluto ascoltare, come ad esempio quello di Giulia Innocenzi che da candidata a Segretaria dei giovani democratici è diventata presto esperta di primarie e di democrazia nel partito.

Anche tenendo conto del voto che mi chiama in Parlamento, potrei perciò cavarmela con poche parole, forse addirittura con una sola: amen, così sia! Sia perchè condividendo gran parte delle cose dette, mi auguro che le parole divengano fatti. Sia perchè debbo confessare che ho sostenuto l’organizzazione di questo incontro sapendo che sarebbe stato in qualche modo un incontro di rito.

Oggi siamo qua infatti, come ha detto e scritto Gianfranco Pasquino, per celebrare le primarie, per celebrarle e allo stesso tempo tirare un bilancio e avviare un confronto.

Come ha detto Barbara Pollastrini io penso che il nostro dovere sia costruire il Partito. E costruire il partito è per me semplicemente fare quello che abbiamo promesso, con la preoccupazione di promettere solo quello che riteniamo di poter fare. Ma penso che dentro costruzione abbiamo anche il dovere di significare quello che stiamo facendo.

Le collettività e le istituzioni parlano infatti attraverso quei segni che si chiamano simboli e riti. Simboli e riti rappresentano e allo stesso tempo promuovono i progetti e i valori che le tengono insieme, evocano il cammino fatto e indicano il cammino da fare.

Oggi è il 14 ottobre, il primo anniversario del fatto che, nonostante il severo giudizio che noi manteniamo ancora sulle modalità di quell’evento, noi consideriamo fondativo del Partito al quale abbiamo dato vita.

Abbiamo atteso a lungo un segno di questa memoria. Pensavo che un giorno come questo meritasse un momento di riflessione, da parte del Partito come comunità. Difronte al silenzio e alla indifferenza della Segreteria che pure a quel fatto riconduce la sua legittimità abbiamo ritenuto di doverci fare carico noi noi carico di questa necessità collettiva. E’ solo per onorare il significato simbolico di questo giorno che abbiamo collocato questo incontro in un giorno e in un orario così ristretto e scomodo.

Sempre per motivi simbolici abbiamo voluto ricordare le primarie qua in questa e in questa piazza dove tutto è nato: in quella Piazza SS.Apostoli dove organizzammo nel 1996 la campagna elettorale dell’Ulivo, dove celebrammo le due vittorie dell’Ulivo, e su su prima le primarie del 2005 per la presidenza del Consiglio e poi quelle per il Pd nel 2007.

Vogliamo ricordare le primarie qua per affermare in modo visibile che il nostro progetto ha una storia. Vogliamo ricordarle qua per dire ancora una volta no alla linea politica della discontinuità, del rigetto degli ultimi quindici anni come anni da dimenticare, che costituisce la base del “teorema” che da tempo guida e allo stesso tempo imprigiona il Partito.

Io penso che in politica le parole contino, contino molto più di quel che il qualunquismo dà spesso ad intendere.

Quando per la prima volta sentii come attribuita a Spadolini la frase “Gli unici fatti che contano sono le parole. Tutto il resto è chiacchera.” sorrisi. Ero un ragazzo. Con il passare degli anni non finito invece di apprenderne la profonda verità.

Le parole contano perchè esigono di essere onorate. Non possono essere dette con leggerezza. Prima o poi le parole presentano il loro conto.

Oggi è il turno di Bologna. Il conto della parola “primarie”, quella che ci ha offerto l’occasione per l’incontro di oggi, è stato presentato a Bologna: non più le “primarie” come manipolazione democratica, secondo la definizione di Corsini di questa mattina, o come democrazia manipolativa, ma le primarie come allargamento del potere dei cittadini chiamati a scegliere non più solo gli eletti ma anche i candidati.

Oggi approda a Bologna, un lungo cammino, fatto di approssimazioni successive, fatto di avanzamenti imprevisti, come le primarie pugliesi del gennaio 2005, parziali depotenziamenti come in quelle nazionali del 16 ottobre 2005, gravi arretramenti come quelle dello scorso anno. E tuttavia la talpa del cambiamento continua a scavare.

Oggi Bologna la città più a lungo caricata della tradizione di una democrazia guidata è chiamata alla prova. Si rende conto che le decisioni segrete dei caminetti e delle riunioni ristrette, che la politica come “ars combinatoria”, come governo degli organigrammi, come politica del personale politico, diventa ogni giorno più difficile, se non addirittura impossibile. Anche gli artisti più esperti vanno arrendendosi e stanno arrivandosi alla conclusione che l’unico modo per governare e allo stesso tempo evitare il conflitto tra persone e linee è la competizione aperta e regolata. Anche gli artisti combinatori più esperti vanno accorgendosi che la democrazia dei cittadini oltre ad essere la strada più giusta è anche la più conveniente. Come coordinare in una realtà che va divenendo sempre più complessa le pretese di quanti provengono da un partito con quelli che provengono da un altro, di quanti in un partito appartengono ad una corrente con quelli di un’altra. Come ripartire e comporre poi tutte queste richieste tra una istituzione e un’altra, tra una provincia e l’altra? E’ meglio riconoscere che gli unici legittimati a decidere sono i cittadini. Compito dei partiti è appunto quello di favorire l’esercizio di questo diritto.

No. Non sarà un cammino facile. Basta guardare al linguaggio che descrive gli spasmi che accompagnano l’allargamento dello spazio di scelta dei cittadini. Le parole che ricorrono in questi giorni nelle cronache locali le abbiamo sentite citate anche qua. Faide, scontri, strappi, confusione, squassi… Tutti termini che propongono il confronto democratico aperto come una patologia alimentando nel contempo la nostalgia per il bel tempo antico delle spartizioni nascoste per quote.

Ma il cammino è segnato. Se un tempo le primarie erano una strana usanza americana della quale tutto quello che sapevamo era per sentito dire, ora gli italiani sanno degli Stati Uniti molto di più di quello che sanno dell’Italia. Se un tempo era possibile imitare la politica americana all’italiana, ora con un semplice cambio di canale è possibile misurare la distanza tra l’Italia e gli Stati Uniti, tra le parole e i fatti. Non è più tempo di Americani a Roma, o di “Ti vò fa l’americano”. Il tempo di Sordi e Carosone è definitivamente alle nostre spalle. E’ bene che la segreteria del partito se ne faccia una ragione.

Ed egualmente è sotto i nostri occhi la vicenda di questo anno. I 3 milioni e cinquecentomila partecipanti dello scorso anno, i 2885 delegati alla assemblea regionale, ma anche la mancanza totale di luoghi dove si possa dibattere e decidere in modo democratico. Come ha giustamente ricordato Barbi non si ricorda luogo dove si sia deciso qualcosa se non per acclamazione e alla unanimità. Il partito è costretto ad alimentare un dibattito sui giornali tra correnti che non hanno il coraggio di dichiararsi in quanto tali perchè avrebbero difficoltà a svolgerla in pubblico.

E’ pensando a questo che siamo qua a chiederci se sia possibile che una democrazia fondata sui partiti, quale è ancora la nostra, sopravvivere come democrazia senza democrazia all’interno dei partiti.

La verità è infatti che si è aperta nel nostro Paese una questione democratica.

Non è da oggi che in Italia si è manifestato un gap tra la legittimazione dei partiti e il potere del quale essi dispongono. Ma è solo negli ultimi anni che questo gap è cresciuto oltre il livello di guardia. Per l’esattezza, come ci ha ricordato Guzzetta, questo è avvenuto da quando, venendo meno il principio di legittimazione dall’alto e la stessa idea di una verità ufficiale di partito, i partiti sono stati spinti a cercarla tra i cittadini sulla base di procedure democratiche anche per quel che riguarda la definizione della linea e della identità politica. Cercare non significa naturalmente trovare. In questo sta appunto la questione democratica: nella esistenza di partiti che hanno perduto la vecchia base di legittimità e non hanno ancora trovato la nuova. Nel momento nel quale i partiti, cioè i vertici dei pariti, affidano alla loro democraticità interna la loro legittimazione ma non la trovano, si espongono alla accusa di disporre di un potere superiore a quello che sono legittimati ad avere.

Il fatto è questo gap è negli ultimi anni ulteriormente cresciuto, cresciuto ad un livello pericoloso.

Da una parte è infatti cresciuto a dismisura il potere dei loro vertici. Si pensi al potere di nomina dei parlamentari, per ora nazionali e domani anche europei. Ma non meno importante è il potere messo nelle loro mani dalla legge di finanziamento dei partiti.

A questa crescita esponenziale corrisponde purtroppo una diminuzione della legittimità. Non solo cala infatti la partecipazione e il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni interne, ma questa consapevolezza spinge i partiti ad alimentare la retorica partecipativa. Si determina così un giro vizioso: il bisogno di legittimazione democratica spinge all’appello partecipativo, la chiusura verso la domanda così alimentata o la risposta in termini meramente manipolativi produce delusione e crescita dell’astensionismo, la riduzione della base partecipativa riduce la legittimità dei vertici.

Questo gap tra potere e legittimità, questo depotenziamento della partecipazione, attraversa tutti i partiti, ma in particolare interessa i partiti, il partito, che nella democrazia ha individuato il tratto costitutivo della sua identità affidando ad essa e ad essa sola la sua denominazione.

Per questo motivo possiamo perciò dire che la questione democratica è per eccellenza una questione dei democratici.