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25 Agosto 2009

Afghanistan, Parisi: la partecipazione alle elezioni incoraggia la democrazia afghana. Nessun governo puo’ permettersi due linee di politica estera

Autore: Pietro Orsatti
Fonte: Terra

La politica estera italiana, in particolare per quanto riguarda la vicenda  Afghanistan, sembre attraversare un momento molto particolare. La  maggioranza, dopo gli ultimi distinguo della Lega, sembra volersi  “sganciare”. Si inizia a prospettare una exit strategy italiana?
L’Afghanistan è solo un esempio delle contraddizioni che vanno crescendo  all’interno della maggioranza. Da una parte sta infatti Bossi, che,  lisciato da Berlusconi, fa il Ministro di lotta e di governo, alimenta e  amplifica il buon senso da bar raccolto tra i suoi elettori in italiano e  soprattutto in dialetto. Dall’altra i ministri degli Esteri e della Difesa  che sanno che, dialetto o italiano che sia, ogni parola detta da un  Ministro in Italia li costringerà a rispondere all’estero a interrogativi  pressanti. Anche se a nessuno è possibile ignorare le domande e  l’avversione che vanno diffondendosi sulla missione afghana nell’opinione  pubblica occidentale a cominciare dall’America nessun governo può  permettersi contemporaneamente due linee di politica estera. Proprio chi  rifiuta l’interventismo per mestiere sa che per poter lavorare ad una exit  strategy collettiva, deve assicurare gli alleati di non perseguire una  propria exit strategy autonoma. Se il governo pensa di avere qualche idea  su come portare a termine assieme agli alleati la missione afghana invece  di parlarne alla leggera non ha che da prospettarla seriamente.
Fino a quel momento gli italiani e gli alleati debbono sapere che non  rimarremo in Afghanistan un giorno in più del necessario, ma neppure un  giorno in meno del dovuto.
Ogni parola in più mette a rischio le vite dei nostri soldati e danneggia  il Paese.
 
Le regole di ingaggio e la natura della missione italiana sono rimaste  invariate (almeno formalmente) nonostante il cambio di comando del 2003/4.  Lei è uno dei pochi politici italiani che, davanti all’offensiva talebana  degli ultimi mesi e la necessità  di un cambio di strategia espresso da  governo e forze armate, ha dichiarato la necessità di un passaggio  parlamentare. In che modo e in quali tempi?
Non è solo la difesa formale del parlamento come l’unica sede legittimata a  prendere decisioni così importanti. E’ che solo nel confronto aperto che si  può verificare se la nostra azione riesce a mantenersi nel sentiero  tracciato dall’art.11 della nostra costituzione, che da una parte ci chiama  al ripudio della guerra, e dall’altra contemporaneamente alla difesa della  pace. E’ per permettere questa verifica che avevo indicato 72 ore come  limite per poter rispondere alla richiesta di ridislocare stabilmente i  nostri reparti oltre i limiti del mandato attuale. Prendere un impegno  più stretto significa infatti esporre il governo al rischio di infilare il  Paese in avventure fuori dal nostro controllo e dalle nostra  disponibilità senza essere neppure riusciti a sentire il  Parlamento.
 
Dalle ultime dichiarazioni di alcuni alti ufficiali è sempre più diffusa la  percezione di un’inadeguatezza delle iniziative del governo per migliorare  le dotazioni e la sicurezza del contingente italiano. Si tratta di una  forzatura degli Stati Maggiori oppure di problemi concreti?
Sono i tagli al bilancio della Difesa che cominciano a far sentire i loro  effetti in Afghanistan esattamente come per la sicurezza interna in Italia.  In una situazione impegnativa come quella afghana le esigenze di  disponibilità di mezzi adeguati, il logoramento dei mezzi esistenti, e  l’insufficiente addestramento del personale pongono problemi naturalmente  molto più pesanti.
 
Un cambio della natura di peacekeping della missione, e quindi di una  partecipazione offensiva accanto alle truppe Nato e Usa, secondo lei è  accettabile?
Io so che il Presidente Obama, parlando qualche giorno fa dell’Afghanistan  agli ex-combattenti, ha detto “Non è una guerra in cui c’è una scelta. E’  una guerra necessaria”. E’ una affermazione e una posizione che a noi non  è consentita: nè ad un governo di centrosinistra, ma neppure ad uno di  destra. Nel quadro di condizioni e di alleanze attuali a noi è consentito  operare in un territorio nel quale, come dice Obama, c’èuna guerra, anche  se una guerra particolare visto che giovedì si è votato. Ma pur standoci da  militari che possono trovarsi impegnati in conflitti armati a noi non è  consentito di starci da belligeranti. Noi siamo infatti lì all’interno  dell’Isaf, una missione che persegue come proprio specifico compito  l’assistenza alla costituzione del quadro di sicurezza del nuovo Stato  afghano. Naturalmente non mi nascondo che il sentiero lungo il quale  camminiamo è stretto, anzi strettissimo. Stretto sul piano dei principi  costituzionali. Strettissimo perchè la missione alla quale prendiamo parte  in Afghanistan è condizionata dalla presenza della Enduring Freedom, una  missione che non ha difficoltà a qualificarsi di guerra, la cui  impostazione e il cui svolgimento è fuori dal controllo nostro e della  Nato. E’ per questo che dal governo e dall’opposizione ho posto il problema  del rapporto tra le due missioni, sia dal punto di vista strategico che  operativo. E’ evidente che, nonostante alcune recenti correzioni, l’attuale  rapporto tra le due missioni continua ad essere decisamente  insoddisfacente. Se per motivi strutturali o operativi le finalità della  missione Isaf dovessero finire per coincidere con quelle della Enduring  Freedom potrebbe aprirsi per noi una questione serissima.
 
Il voto a Kabul, con un affluenza del 50 % alle urne, sembra dimostrare che  nonostante la pressione e gli attentati degli estremisti la popolazione  afgana vuole uscire dall’incubo della guerra. I Talebani vengono sconfitti  dalla politica e non dalle armi?
Che la vittoria sia affidata solo al ritorno della politica, come confronto  pacifico e decisione comune, è fuori discussione. La premessa di questo  approdo è la certezza che il bilancio tra vantaggi e svantaggi della  violenza è negativo per tutti. Perchè questo risultato sia raggiunto nella  realtà e nelle convinzioni, è bene che chi è guidato da un disegno opposto,  sia neutralizzato e aiutato a tornare alla ragione.
 
La classe dirigente afgana, almeno quella emersa finora, è in grado di  reggere il paese?
E chi potrebbe dichiararsi soddisfatto? Chi potrebbe dimenticare che se  è vero che all’art.7 della costituzione afghana sia scritto che lo Stato si  conforma alla “dichiarazione dei diritti dell’uomo”, all’art.1 è ribadito  che la religione di stato della Repubblica Islamica dell’Afghanistan è la  “sacra religione dell’Islam” alla quale deve rifarsi ogni disposizione di legge?  E tuttavia quando giudichiamo gli altri non è mai male guardare  all’orologio della storia e confrontarli con il cammino che abbiamo noi  stessi percorso. Forse saremmo più oggettivi e allo stesso tempo più  ottimisti. Tra l’imposizione di modelli che neppure noi riusciamo a  rispettare e la resa alla violenza e alla sopraffazione ci saranno pure  delle vie di mezzo? Sento ad esempio dibattere sulle misure della  partecipazione elettorale afghana dimenticando che alle ultime elezione per  il parlamento di Strasburgo ha votato appena il 43% degli europei. Sento  giustamente denunciare le quote di territorio dominate da organizzazioni  illegali, o la diffusa presenza di politici corrotti. A proposito del voto  delle donne mi è capitato di leggere che tanto sono sono influenzate dai  maschi delle loro famiglie e dalle appartenenze tribali. E noi?
Come non riconoscere in queste obiezioni contro la democrazia le stesse  critiche che nel dopoguerra il qualunquismo rivolgeva alla nostra  democrazia nascente, gli stessi umori che una parte importante della  maggioranza di governo diffonde ancora oggi quando chiede ai padani  perchè mai con Garibaldi sono finiti nel Sud e cosa aspettano a tornarsene  a casa.