Non dovrebbe meravigliare nessuno la mia totale condivisione della proposta di formulata da Giuliano Amato e Massimo D’Alema in una lettera aperta al Partito Socialista Europeo per la costruzione di una “casa comune di tutti i riformisti europei” guidata dalla stessa ispirazione che ha portato Romano Prodi a riproporre in passato la costruzione di una “casa comune dei riformisti italiani”. Perciò, oltre che esplicitare sommariamente le ragioni della mia condivisione, vorrei qui associarmi all’impegno di dare risposta a obbiezioni che quella lettera ha provocato, attraverso il contributo di qualche riflessione che ho svolto nel tempo di fronte a obbiezioni in larga misura identiche che mi sono state rivolte e che ora agli autori della proposta vengono rivolte dall’interno della “famiglia politica” alla quale appartengono.
Nell’analisi delle trasformazioni nella società europea che sono alla base del nostro ragionamento credo che si possa partire dal riconoscimento di una dinamica messa in moto, da una parte, dal processo di globalizzazione che modifica la scala e il teatro della politica superando i limiti finora rappresentati dagli stati nazionali, e, dall’altra, dal processo di individualizzazione, dove con questa espressione si intende la dissoluzione delle aggregazioni di massa preesistenti e la emersione degli individui in quanto titolari di progetti di vita personali non più soddisfacibili e organizzabili all’interno delle risposte preesistenti. E’ lo svolgimento di questo duplice processo che chiama i riformisti non solo ad avanzare un progetto all’altezza di questa sfida, ma a dotarsi di un soggetto capace di formularlo e di attuarlo. Le sub-culture, i “mondi” separati, gli individui “ammassati”, le masse, appunto, che costituivano il referente sociale dei partiti di rappresentanza di massa, si sono infatti dissolte per sempre o sono in corso di definitiva dissoluzione e i progetti di vita di vita degli individui così liberati sono sempre meno riconducibili ai progetti collettivi del passato e meno che mai a quelli riconducibili nei soli schemi delle storie nazionali. Da qui l’esigenza di quel nuovo grande progetto collettivo che chiamiamo costruzione dell’Europa. Da qui la indispensabilità di centri istituzionali e politici resi forti dalla legittimazione diretta da parte dei cittadini che guidino questo processo, e la necessità di ricondurre le risposte incarnate volta a volta dai singoli programmi a un progetto di lunga durata. Ed è a partire da questo che nasce l’esigenza di dar vita a un partito nuovo, che sia tale per la sua base sociale, e tale anche per le sue dimensioni. Un partito che si pensi come partito europeo, e non semplicemente come un partito che sta in Europa.
Ma come costruire un soggetto che sia capace di interpretare e guidare un progetto all’altezza della sfida che abbiamo di fronte?
Intanto cominciamo col dire che dobbiamo parlare di un soggetto che, in Europa e nei diversi paesi, è soggetto di governo. Capace quindi di interpretare la ambizione maggioritaria che ogni progetto di governo in democrazia deve nutrire e di immaginare un orizzonte bipolare a ispirazione bipartitica, in cui i soggetti del bipolarismo non siano delle mere aggregazioni parlamentari o partitiche ma siano chiamati a farsi carico di quelle che un tempo erano le funzioni alte associate alla categoria di partito. Cioè siano ponte permanente tra cittadini e istituzioni e non mero strumento intermittente, finalizzato alla competizione elettorale.
Costruire un soggetto con queste caratteristiche significa necessariamente muovere dal riconoscimento della parzialità di tutte le tradizioni politiche preesistenti. Noi sappiamo infatti che, a fronte della pluralità di “fratture sociali” che hanno definito il panorama del sistema partitico europeo, (penso innanzitutto a quella tra capitale e lavoro, a quella tra centro e periferia, a quella tra città e campagna, a quella infine tra stato e chiesa) le diverse storie dei partiti nazionali sono riuscite a farsi carico di volta in volta di una o dell’altra, ma difficilmente a interpretarle tutte limitando la capacità di rappresentanza sociale dei singoli partiti e quindi la possibilità di proporsi singolarmente come referenti di una proposta di governo capace di raccogliere un consenso maggioritario. Una capacità oggi ulteriormente indebolita dalla riformulazione se non addirittura dall’appianamento delle “fratture” originarie che costituivano la ragione sociale dei distinti partiti e questo in massima parte grazie proprio alla vittoria delle forze politiche che contro di esse erano scese in campo. Da qui il risultato che il progetto generale che il nostro tempo ci chiede non dispone ancora di un soggetto capace di una vocazione generale, né possiamo pensare che esso possa essere il risultato della somma dei soggetti parziali definiti da progetti parziali superati, portati a compimento, e comunque estranei alle nuove fratture nel frattempo insorte.
E’ questo il limite toccato ormai in modo evidente dalla strtuttura multipartitica che continua a caratterizzare gran parte dei paesi del continente che finora era purtuttavia riuscita ad associare l’istanza della rappresentanza con l’istanza del governo. Una struttura che non è più riproducibile al livello continentale se non al prezzo di ripercorrere a tale livello lo stesso percorso che è stato svolto a livello nazionale, privando troppo a lungo il governo dell’Europa e quindi del pianeta di quella base di legittimità della quale noi abbiamo assolutamente bisogno per traghettare questa società radicalmente cambiata nel mondo nuovo che si annuncia ormai da troppo tempo. Questo è in sintesi il problema che abbiamo di fronte. Ecco perché ho difficoltà a collocarmi in un’ottica meramente elettorale che individua nei successi o nelle sconfitte elettorali delle forze democratiche la spinta a ragionare sulla necessità di riorganizzare il nostro campo politico. Le vicende elettorali possono infatti darci volta a volta una vittoria in un paese o terrorizzarci con un improvviso arretramento in un altro, ma per recuperare il senso del dibattito noi dobbiamo andare alla sostanza del problema.
Ed è per questo motivo che ritengo che nessuna delle tradizioni riformiste possa illudersi di cercare il futuro guidata dalla preoccupazione di una meccanica continuità con il passato. In questo contesto le obbiezioni che sono state rivolte in interventi ospitati da questa rivista alla proposta di cui parliamo (prima approfondiamo i nostri valori e poi ci apriamo al confronto con gli altri; prima recuperiamo il confronto con le nostre basi di militanza e solo poi potremo dire se la nostra forza propulsiva si è in qualche misura esaurita, prima intensifichiamo la nostra azione e poi allarghiamoci all’esterno) sono tutte linee di approccio a una non negata crisi del socialismo europeo che mi appaiono segnate da una misura elevata di inadeguatezza. E incontrano l’antica contro-obbiezione che ci sconsiglia di immettere vino nuovo in otri vecchi per le note conseguenze.
Il fatto è che non si va lontano se si è tentati di combattere sempre la stessa battaglia guidati dalla speranza di ripetere la stessa vittoria, magari solo per la circostanza che la sopravvivenza degli eserciti che quella vittoria hanno colto spinge a ripetere sempre lo stesso gioco. La sfida è ad avventurarsi in campo aperto. E se l’invito all’appello alla base dei partiti non può trovarci indifferrenti non possiamo tuttavia dimenticare come esso possa trasformarsi in una trappola, perché le basi dei partiti sono figlie della storia precedente ma non sempre madri della storia futura. E neppure si va lontano se si ritiene di risolvere il problema attraverso un processo di progressiva annessione e innesto di storie politiche distinte nell’antico albero che fu piantato in passato. Sotto questo profilo non posso non cogliere nella posizione assunta da Amato e D’Alema come elemento di radicale novità la scelta di non riproporre a livello europeo ipotesi come quella che fu definita la “cosa 2” penso anche in considerazione della insoddisfacente esperienza italiana. La continuità che vedo rifiutata nel loro documento, e che mi spinge a riconoscere la nostra convergenza, non è infatti solo quella di chi sotto lo stesso nome o con nome mutato vuole portare ad ulteriore sviluppo la propria storia, ma anche di chi vorrebbe costruire attorno alla propria storia le storie degli altri. E lo stesso mi pare si possa dire per la questione del nome, perché il passaggio relativo nel testo mi sembra da interpretare non come il tentativo di cambiare il nome per salvare la cosa, né di aprire le porte solo per consentire ad altri di entrare. Ma per cercare sotto un nome nuovo una cosa nuova e per mettersi compiutamente in gioco, come si mette in gioco chiunque apre le porte della propria casa sapendo che esse sono aperte in entrata ma anche in uscita e che condividere storie significa anche condividere rischi.
L’ispirazione aperta e paritaria della proposta ci costringe a riconoscere che seppure non tutte le storie partitiche che oggi si incontrano all’interno del perimetro denominato socialista abbiano una cifra riformista sicuramente riconoscibile, nel Partito socialista europeo passi una parte importante se non addirittura decisiva del riformismo europeo, così come ci alleggerisce dalla necessità di ricordare la qualità delle ispirazioni riformiste che si sono svolte all’interno di alvei diversi da quello socialista. Pensiamo alle componenti del riformismo che si son fatte carico nella storia di rappresentare il valore della società articolata, plurale e fondata sulle autonomie secondo un principio di sussidiarietà sia verticale che orizzontale di cui la tradizione socialista non sempre è stata equivalente interprete, costruendo la propria proposta sul ruolo forte dello stato e in particolare dello stato centrale.
Che dire a questo punto del sospetto se non proprio dell’accusa che la proposta di cui discutiamo sia in sostanza un escamotage per risolvere il problema della collocazione europea dell’Ulivo se non che si tratta di una obbiezione provinciale? Se è vero che l’Ulivo non può essere immaginato come la costruzione di un soggetto nuovo in un solo paese, e quindi ha bisogno di un orizzonte europeo se non per sopravvivere certamente per crescere, date le premesse credo che si possa contrastare l’idea che il nostro discorso muova da una semplice convenienza nazionale. Pur non potendosi negare come la proposta nasca all’interno della nostra esperienza nazionale, la proposta muove viceversa da una riflessione, che noi abbiamo il dovere di proporre a quanti militano nel campo riformista negli altri paesi europei. Noi non poniamo infatti il problema di una “casa comune dei riformisti europei” perché italiani, ma perché europei.
Anche se la condizione di marginalità ci porta spesso a pensare e a parlare come se l’Europa fosse sempre altrove, dappertutto all’infuori che in Italia, noi ci sentiamo siamo anche spinti in questa ricerca dalla urgenza di condividere in Europa quella che è la nostra esperienza. Una esperienza che, contrariamente a quelle che sono le rappresentazioni giornalistiche, noi abbiamo il dovere di difendere e descrivere come positiva e come espressione di un avanzamento. Da questo punto di vista più che mai dobbiamo riconoscere che l’Ulivo di cui parliamo non è qualcosa che sta alle nostre spalle, una sorta di momento magico rispetto al quale siamo solo arretrati, ma è viceversa lo svolgimento di un disegno sempre più condiviso (e il documento di Amato e D’Alema ne è prova significativa) nato da una scelta che per una serie di motivi l’Italia ha effettuato tra le ultime nella prima fase della vicenda europea, ma come prima starei per dire nella fase nuova, la scelta della democrazia governante interpretata dalle riforme maggioritarie del 1992-93.
Naturalmente noi sappiamo che si tratta di un processo somigliante più a una gestazione che a una nascita, e quindi visibile solo a chi vuole e sa vedere, e aperto anche a prospettive di spasmi quali sono quelli che accompagnano ogni parto. Ed è guidati da questa consapevolezza, ma anche dalla preoccupazione, che richiamiamo l’attenzione sulla necessità che questo processo non venga interrotto o addirittura possa invertirsi drammaticamente, perché sappiamo che le regole presuppongono i soggetti nel mentre ne costruiscono di nuovi, ma sappiamo anche che la mancata affermazione dei soggetti postulati dalle regole finisce per travolgere prima o poi le stesse regole. Ma mi sento di dire che abbiamo fatto del cammino in avanti proprio perché eravamo arretrati nella fase precedente, e che oggi come spesso capita ai “new comers” siamo più avanzati di quel che noi stessi siamo disposti ad ammettere e quindi in grado di dare un contributo alla costruzione di un nuovo soggetto del riformismo europeo non solo perché ci conviene ma perché abbiamo qualcosa da dire e da dare.
Il perseguimento di questo modello è affidato a un processo che richiede contemporaneamente interventi a livello europeo e a livello nazionale, a livello delle regole e a livello dei contenuti, a livello del progetto e al livello del soggetto, con una accentuazione volta a volta di un punto o dell’altro. Un colpo al cerchio e uno alla botte non per “cerchiobottismo”, per stare fermi facendo finta di muoversi, ma perché il colpo al cerchio e quello alla botte sono guidati dall’obbiettivo di strutturare e costruire la botte, la nuova botte di cui hanno bisogno i riformisti europei per contenere il vino del nuovo riformismo. In questa ottica, si tratta di cogliere le occasioni che si presentano per avanzare sul cammino.
Ora noi sappiamo che uno dei primi appuntamenti è proprio la realizzazione del disegno istituzionale dell’Europa, in questo momento affidato alla Convenzione europea, e in questo ambito si colloca la scelta del fondamento di legitimità della guida della Commissione all’interno del Parlamento. Come non riconoscere che essa non può essere affidata a un processo indifferente all’esito, quale sarebbe appunto una delega ai partiti perché cerchino poi in Parlamento, senza alcun mandato degli elettori, alleanze di convenienza preoccupate soprattutto di equilibri di organigramma? Non basta a mio parere rivendicare al Parlamento la nomina del presidente della Commissione. Perché non dare invece un mandato ai parlamentari che saranno eletti nelle elezioni europee del prossimo anno, raccogliendo e indirizzando il consenso degli elettori su programmi politici e candidature comuni per la guida del governo dell’Europa?
E’ per questo che dobbiamo chiederci allora se in questa fase non sia possibile impegnarsi per dar luogo a un confronto politico in cui già prima delle elezioni un “cartello” di forze politiche a livello europeo arrivi a indicare un programma e un candidato, attivando un processo simile a quello che abbiamo sperimentato in Italia, che ha visto crescere il nostro bipolarismo prima come costruzione di meri cartelli elettorali in competizione tra loro, poi come confronto e competizione di progetti, e infine come indicazione esplicita di candidati. Si tratta concretamente di suggerire un itinerario non dissimile, questa volta nel contesto europeo. Non so a quale delle fasi descritte ci si debba oggi limitare. Ma sarebbe comunque bene che l’Ulivo italiano, e quello che per comodità chiamiamo l’Ulivo da costruire in Europa, vada alle elezioni europee sostenuto da confronti programmatici che indirizzino questo processo.
Da questo punto di vista aggiungerei come elemento concreto la proposta che in quel forum di programma dell’Ulivo su cui stiamo ragionando si assuma come orizzonte immediato l’appuntamento delle prossime elezioni europee, riproponendoci – ma muovendo da ben altro livello – quello che fu l’obbiettivo mancato nelle precedenti elezioni del l999, quando i partiti dell’Ulivo tentarono di elaborare pur senza riuscirci un documento comune che governasse le loro differenze e rappresentasse la comune unità. Occorre mettere in moto qualcosa, perché non potremmo poi lamentarci se aldilà delle decisioni che la Convenzione prenderà, e anche del voto solenne che noi chiediamo ai cittadini come sanzione di questo passaggio alto della storia europea, sopravviveranno poi logiche che lasciano le scelte in ultima analisi in mano ai governi, per lo più guidate da un mero calcolo di opportunità. A me pare che si può ottenere qualcosa di più, incanalando e costruendo un consenso su scala europea, un primo passo che consenta di cominciare a muoversi nella direzione voluta senza attendere l’assenso conclusivo di tutti e senza forzare un processo che richiede tempo.
In questo contesto anche la modalità con cui la rappresentanza dell’Ulivo a Strasburgo, indipendentemente dalla collocazione nei gruppi parlamentari che comunque dovrà essere coerente con il bipolarismo italiano e europeo, organizzerà la propria presenza, potrà essere un ulteriore motore entro la vicenda del parlamento europeo. Perché quanto più forte è il mandato dei nostri elettori e l’unità degli eletti, tanto più una rappresentanza che non sarà numericamente insignificante potrà svolgere un ruolo di propulsione nella costruzione di un “soggetto comune dei riformisti europei” al servizio del “progetto Europa”.