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16 Dicembre 2003

Spigolature a margine della legge Gasparri

Autore: Elisabetta Rubini

La legge Gasparri ­ così come votata dalle Camere ed oggi rinviata alle stesse dal Presidente Ciampi per un ulteriore esame – non fa che condurre alle estreme, e per certi versi paradossali, conseguenze l’infelice percorso della legislazione italiana in tema di disciplina dell’emittenza televisiva, iniziato nel 1990 con la legge n.22390 (più nota come legge Mammì); si cercherà di seguito di dare conto di alcune delle più evidenti incongruenze del sistema normativo da allora costituitosi e coronato dalla recente approvazione, appunto, della Gasparri.


La prima macroscopica incongruenza si rileva tra il regime delle regole antitrust vigenti per l’emittenza televisiva, da un lato, e per i giornali quotidiani, dall’altro; per i secondi vale, sin dal 1981 ­ epoca in cui i politici evidentemente temevano e non controllavano la carta stampata ­ un limite antitrust pari al 20% del totale delle copie tirate a livello nazionale. Ciò significa che nessun soggetto può, direttamente o indirettamente, controllare più del 20% del mercato dei giornali quotidiani; la legge in questione (la n.416 del 1981, successivamente modificata per renderla ancora più restrittiva) ha contribuito in maniera decisiva a configurare il mercato dei giornali quotidiani in Italia, che infatti si presenta come caratterizzato da un alto indice di concorrenzialità, posto che i primi due operatori non controllano più del 35% del mercato nel suo complesso. Per inciso si osserva che in nessun altro paese europeo esiste una normativa antitrust specifica per i giornali quotidiani.


All’estremo rigore che ha presieduto, dunque, alla disciplina dei quotidiani sin dalla nascita ha fatto riscontro, invece, l’estremo lassismo nella regolamentazione dell’emittenza televisiva, la cui cifra distintiva è stata sin dagli esordi la finalità di dare legittimazione alla posizione di mercato raggiunta dall’unico operatore privato allora, come del resto oggi, esistente nel nostro paese. Già il “limite” di tre reti nazionali sposato dalla legge Mammì altro non era che la fotografia delle dimensioni raggiunte all’epoca dall’operatore privato: dunque non di limite si trattava, bensì, appunto, di legittimazione. Laddove il solo aspetto limitante poteva individuarsi nell’aver vietato l’acquisizione, da parte del detentore di tre reti televisive nazionali, di radio nazionali e giornali quotidiani.


La legge Mammì dava altresì inizio alla tradizione ­ propria degli interventi legislativi di disciplina dell’emittenza televisiva ­ secondo cui gli stessi nascevano piuttosto per disattendere che non per attuare i principi enunciati in materia dalla Corte Costituzionale. Leggiamo cosa diceva la sentenza n.826 del 1988 della Corte in tema di pluralismo: la Corte ritiene necessario ribadire il valore centrale del pluralismo in un ordinamento democratico… reputa indispensabile altresì chiarire che il pluralismo dell’informazione radiotelevisiva significa, anzitutto, possibilità di ingresso, nell’ambito dell’emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici…il pluralismo si manifesta nella concreta possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità di fonti informative, scelta che non sarebbe effettiva se il pubblico al quale si rivolgono i mezzi di comunicazione audiovisiva non fosse in condizione di disporre, tanto nel quadro del settore pubblico che in quello privato, di programmi che garantiscono l’espressione di tendenze aventi caratteri eterogenei.


Investita successivamente di svariate questioni di costituzionalità nate nella fase di attuazione della legge Mammì e di assegnazione delle frequenze per l’emittenza televisiva nazionale via etere, la Corte, con la sentenza n.420 del 1994, ribadì che condizione indefettibile per il superamento della riserva statale dell’attività di radiodiffusione è costituita da un’idonea disciplina che prevenga la formazione di posizioni dominanti le quali in questo settore possono non solo alterare le regole della concorrenza, ma anche condurre ad una situazione di oligopolio, che in sé pone a rischio il valore fondamentale del pluralismo delle voci, espressione della libera manifestazione del pensiero. La Corte sottolineava quindi come, nell’ambito dell’emittenza privata, si imponga come ineludibile imperativo costituzionale la necessità di garantire il massimo di pluralismo “esterno”, cioè di pluralità di soggetti diversi ai quali le emittenti televisive facciano capo. Né il pluralismo potrebbe dirsi in ogni caso realizzato dal concorso tra un polo pubblico ed un polo privato che sia rappresentato da un soggetto unico o che comunque detenga una posizione dominante nel settore privato. In forza di questi principi, la Corte dichiarava fondata l’eccezione sollevata con riguardo all’art.15 della legge Mammì, quello appunto che stabiliva il limite antitrust delle tre reti televisive nazionali, ritenuto dalla Corte inadeguato ad assicurare il necessario pluralismo delle fonti di informazione.


Si noti che, in quegli stessi anni, gli altri paesi dell’Unione Europea si erano dati discipline antitrust relative all’emittenza televisiva ispirate ai medesimi principi richiamati dalla Corte Costituzionale, tutte molto più restrittive rispetto alla normativa italiana e tali da garantire la compresenza di una pluralità di operatori privati diversi.


Stante dunque l’accertata illegittimità costituzionale dell’assetto antitrust disegnato dalla legge Mammì, il legislatore non poteva che intervenire nuovamente. Lo fece con la legge n.24997 (cd. legge Maccanico) la quale, tuttavia, perseverò nell’obiettivo di eludere le indicazioni della Corte Costituzionale e di privilegiare, invece, il consolidamento e la salvaguardia dell’unico ­ e sempre più forte ­ operatore televisivo privato.


La legge n.24997 ­ pur valutando che, a regime, nessun operatore può controllare più del 20% dei programmi radiofonici o televisivi via etere su frequenze terrestri ­ in sostanza restituì un quadro giuridico certo e favorevole all’operatore privato, prorogando sia la distribuzione delle frequenze così come si era di fatto configurata negli anni sia la possibilità di mantenere tre reti nazionali via etere in capo ad un unico operatore. Ciò fu realizzato mediante delega all’autorità di settore (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) affinchè stabilisse un termine ­ in seguito ripetutamente prorogato ­ per il passaggio delle cosiddette “reti eccedenti” (cioè le reti esercitate dall’operatore pubblico e da quello privato in eccedenza rispetto al numero di due, considerato come soglia antitrust accettabile) sul satellite.


L’opera di rinnovata legittimazione del duopolio televisivo e di elusione della decisione n.420 del 1994 posta in essere dalla legge n.24997 è stata, quindi, oggetto di nuova censura da parte della Corte Costituzionale. Sulla base di ricorsi presentati da reti televisive private che non avevano potuto ottenere le frequenze necessarie alla trasmissione su scala nazionale (nonostante fossero destinatarie di provvedimenti concessori), la Corte ­ con la sentenza n.466 del 20 novembre 2002 – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.3 comma 7 della legge n.24997 nella parte in cui non prevede un termine certo e non prorogabile (che comunque non oltrepassi il 31 dicembre 2003) per la fine del cd. regime transitorio e l’entrata in vigore della soglia antitrust (due reti nazionali via etere per singolo operatore, pubblico o privato che sia) prevista all’art.6 della medesima legge. Ad esito di una lunga istruttoria, la Corte ha accertato tra l’altro che deve escludersi la realizzabilità in Italia in tempi congrui della soglia minima prevista di diffusione dei sistemi di trasmissione televisiva alternativi alla via terrestre analogica (cavo, satellite, digitale terrestre).


Nel giugno 2003, è l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni a rilevare ­ benchè con una riluttanza resa evidente dal ritardo nell’attività di verifica e dalla mancata adozione di sanzioni ­ che le reti televisive sia private che pubbliche già negli anni dal 1998 al 2000 hanno superato i limiti posti alla raccolta di risorse economiche complessive previsti all’art.2, comma 8 della legge n.24997: si tratta del tetto del 30% rispetto alle risorse del settore televisivo nazionale (comprensivo di pubblicità, canone, ricavi da televendite, sponsorizzazioni e convenzioni con soggetti pubblici) nonché del tetto posto dal medesimo articolo della legge n.24997 alla raccolta pubblicitaria da parte di Publitalia 80.


Al contempo, si sviluppa negli anni una controversia relativa alle modalità di effettuazione delle cd. telepromozioni, una forma di pubblicità che ­ in base alla normativa italiana vigente (art.8 comma 7 della legge Mammì) ­ deve essere ricompresa nel calcolo degli affollamenti pubblicitari e che, invece, le televisioni ritengono di poter trasmettere al di fuori di tali limiti.


Il quadro legislativo, dunque, non corrisponde più allo straordinario sviluppo conosciuto ­ dal 1990 in avanti ­ dall’operatore televisivo privato: il 31 dicembre 2003 è vicino, i tetti alla raccolta delle risorse sono ormai troppo bassi, le regole sulla pubblicità stanno strette. Vediamo qualche numero ad illustrazione di tale straordinario sviluppo: Mediaset detiene nel 2002 una quota pari al 65% del mercato della pubblicità televisiva; con riferimento al mercato della pubblicità nazionale commerciale (che include anche giornali, radio e affissioni) la quota di mercato di Mediaset è pari al 40% circa, cioè supera la quota detenuta da tutto il settore della stampa italiana; il fatturato supera nel 2003 la cifra di 2,5 milioni di euro, con un margine di oltre il 20%.


Nel frattempo, come è noto, l’unico operatore televisivo privato è divenuto altresì detentore del potere politico; dunque, a fronte della situazione sopra brevemente descritta di contrasto tra la legislazione in vigore, i comportamenti delle emittenti e le decisioni della Corte Costituzionale, si confeziona con urgenza una nuova legge, che assecondi al meglio le aspirazioni delle televisioni.


E infatti: nella legge Gasparri il “tetto” del 20% dei programmi televisivi viene riferito ad una futura situazione nella quale sarà conseguita la completa attuazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze radiofoniche e televisive in tecnica digitale (art.15): anche a prescindere dall’indeterminatezza di tale data ­ posto che ad oggi il digitale è solo in fase sperimentale nel nostro paese ­ va detto che si tratta di un limite in sé privo di significato, in quanto il numero dei programmi televisivi, in ambiente digitale, è potenzialmente illimitato. Dunque, un primo ostacolo derivante oggi dal disposto della legge n.24997 così come emendata dalla Corte Costituzionale viene (almeno nelle intenzioni) eliminato.


Il tetto alla raccolta di risorse economiche viene ­ rispetto alla già criticabile formulazione contenuta nella legge n.24997 ­ ulteriormente snaturato, mediante il riferimento ad un mercato ­ il sistema integrato delle comunicazioni ­ che costituisce, per dirla con le parole del presidente dell’Autorità Antitrust prof.Tesauro un’aggregazione che tende ad includere mercati tra loro così distanti da apparire priva di giustificazioni economiche (cfr. testo dell’audizione di Tesauro alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 2002). Il ”sistema” individuato dalla Gasparri comprende infatti, oltre alla raccolta pubblicitaria per tutti i mezzi di informazione, anche il canone televisivo nonché i ricavi provenienti da vendite di beni, servizi e abbonamenti relativi ai settori televisivo, della stampa, dell’editoria libraria ed elettronica, della cinematografia e della musica nonché, ancora, alcune categorie del tutto vaghe quali gli investimenti di enti ed imprese in attività finalizzate alla promozione dei propri beni e servizi, le convenzioni con soggetti pubblici e le provvidenze pubbliche.


Non è chi non veda come ­ per dirla ancora con il presidente Tesauro ­ siffatta aggregazione dei mercati sia del tutto inadeguata rispetto al fine di contenere il potere di mercato delle imprese, atteso che questa dovrebbe essere la ratio della norma (cfr. nota dell’Autorità Antitrust del 10 settembre 2003 alla Camera dei Deputati).


Dunque, un altro limite derivante dalla legge n.24997 ­ il cui superamento era stato rilevato dall’Autorità per le comunicazioni già con riferimento agli anni dal 1998 al 2000, come si è visto – viene così cancellato.


Si noti che la legge Gasparri cancella altresì qualsiasi limite alla raccolta pubblicitaria ad opera delle società concessionarie di pubblicità controllate o collegate con gli operatori televisivi, consentendo così alle stesse di incrementare liberamente la propria attività, operando senza alcun limite anche a favore di mezzi di informazione terzi, che verrebbero per questa via indirettamente controllati, posto che ­ come è ovvio ­ il canale di accesso alle risorse pubblicitarie spiega decisiva influenza su chi di tale risorse fruisce per svolgere la propria attività economica. Al contempo, permane invece in vigore un rigoroso limite antitrust a carico delle concessionarie di pubblicità controllate o collegate agli editori della carta stampata, in base al quale tali concessionarie non possono raccogliere pubblicità per giornali quotidiani la cui tiratura superi il 20% della tiratura globale dell’anno precedente (art.12 legge n.41681).


Dalla programmatica assenza di contenuti dei limiti antitrust posti dall’art.15 della legge Gasparri discende altresì che nessun limite permane al contemporaneo possesso di partecipazioni di controllo nelle televisioni nazionali e negli altri mezzi di informazione: radio nazionali e locali, televisioni locali, giornali quotidiani nazionali e locali. L’articolo in esame anzi espressamente consente ­ eliminando il vincolo posto a suo tempo dalla legge Mammì ­ agli operatori televisivi di acquisire partecipazioni in società editrici di giornali quotidiani, senza limite alcuno, rinviando tale facoltà al 2008. Tale devastante disposizione consentirà all’operatore televisivo privato di estendere la propria posizione dominante nell’editoria dei quotidiani, grazie alle ingentissime risorse finanziarie di cui beneficia, in forza proprio della posizione detenuta nel mercato televisivo.


Il contrario non è dato: alcuni commentatori hanno asserito che l’eliminazione del divieto precedentemente in vigore beneficerebbe gli editori, aprendo loro il mercato della televisione. Tale assunto non tiene evidentemente conto delle dimensioni economiche e delle risorse reali delle quali possono disporre le imprese editrici di giornali quotidiani nel nostro paese, che ben difficilmente possono alimentare un ingresso nella televisione nazionale, mercato che richiede ingentissimi investimenti ed è caratterizzato da una elevatissima concentrazione e da imponenti barriere all’ingresso, in termini di frequenze e di programmi.


Ma la finalità primaria della legge Gasparri emerge in maniera trasparente anche da altre disposizioni, in tema di pubblicità: due modifiche all’art.8 della legge Mammì, che disciplina gli affollamenti pubblicitari, consentono infatti di a) effettuare le telepromozioni al di fuori dei limiti orari, mediante la previsione che tali limiti si applichino solo agli spot; b) escludere dal calcolo degli affollamenti anche la pubblicità dei prodotti editoriali e librari: sorge il dubbio che l’operatore televisivo privato abbia interessi anche nell’editoria…


Inoltre, la legge Gasparri guarda avanti, ai futuri possibili concorrenti: e così stabilisce che i grandi operatori di telecomunicazioni ­ che potrebbero come tali avere le risorse per tentare l’avventura televisiva ­ non possono conseguire nel settore integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10% del settore medesimo.


Pur innestandosi su un quadro normativo complesso, la legge in esame non abroga espressamente la legislazione previgente; non a caso: il compito di predisporre il testo unico della radiotelevisione è delegato dal legislatore al governo, entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge medesima, insieme al potere di apportare alle norme vigenti le integrazioni, modificazioni e abrogazioni necessarie al loro coordinamento o per assicurarne la migliore attuazione.


Con ciò si corona il percorso della legislazione italiana in materia televisiva: con il proprietario delle tre reti private che predispone, nella sua qualità di capo del governo, il testo unico che disciplina il mercato nel quale opera la sua azienda.


A fronte di un prodotto legislativo del calibro della legge Gasparri, alcuni commentatori si sono soffermati a formulare dubbi e sottili distinzioni in ordine alla possibile incostituzionalità delle disposizioni in essa contenute. A noi pare, in verità, che non vi sia spazio alcuno per i dubbi e le domande: anche nella prospettiva dello spettatore più pacato e istituzionale, risulta evidente come tale legge si ponga in contrasto con i principi fondamentali in tema di pluralismo più volte enunciati dalla Corte Costituzionale, già con riguardo alla legge Mammì, laddove censurava il fatto che tale legge anziché muoversi nella direzione di contenere posizioni dominanti già esistenti così da ampliare, ancorché gradualmente, la concreta attuazione del valore del pluralismo …ha invece conseguito l’effetto di stabilizzare quella posizione dominante esistente, che tuttora si riscontra, trascurando viceversa che il valore da tutelare era l’allargamento del pluralismo, prevalente sulla facoltà di concentrazione quale conseguenza estrema dell’esercizio della libertà di iniziativa economica: concentrazione che, pur potendo in ipotesi rispondere alla opportunità di conseguire una dimensione di impresa ottimale sotto il profilo economico-aziendale, non risponde alla preminente necessità di assicurare il maggior numero possibile di voci, in rapporto alle frequenze disponibili e alla esigenza che struttura, dimensione e forza delle imprese siano funzionali alla finalità primaria di garantire, anche grazie alla indipendenza delle imprese stesse, la libertà e il pluralismo informativo e culturale. (sentenza n.420 del 1994).


Dunque, la contrarietà della legge Gasparri con i principi posti, in materia, dalla Corte Costituzionale è lampante, anche e proprio in termini di priorità degli obiettivi perseguiti Da ciò il più che condivisibile intervento del Presidnte Ciampi e la conseguenza che ­ qualora il Parlamento non provvedesse a correggere le storture evidenziate – la strada maestra per ristabilire nel nostro ordinamento i valori costituzionali afferenti la tutela del pluralismo non potrebbe che passare, anzitutto, per il ricorso alla Corte che tali valori custodisce.


Ma la legge Gasparri si pone in aperto contrasto anche con le direttive comunitarie di recente emanate in materia di telecomunicazioni (20029CE;2002CE;2002CE;2002CE). Tali direttive impongono l’adozione, anche nel settore televisivo, di rigorosi criteri di assegnazione ed uso delle frequenze, prevedendo in particolare che la relativa allocazione sia fondata su criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati.


Al contrario, come è stato rilevato in maniera pungente dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.466 del 2002, “La formazione dell’esistente sistema televisivo italiano privato in ambito nazionale ed in tecnica analogica trae origine da situazioni di mera occupazione di fatto delle frequenze, al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo nella distribuzione delle frequenze e di pianificazione effettiva dell’etere.”


La situazione di occupazione di fatto delle frequenze da parte dei principali operatori televisivi viene perpetuata dalla legge Gasparri, la quale prevede anche che gli stessi operatori possano richiedere le licenze e le autorizzazioni per avviare le trasmissioni in tecnica digitale terrestre (art.23). E’ facile prevedere che tale disposizione prelude ad una pura e semplice estensione del duopolio alla televisione digitale.


In tal modo, la legge in esame si pone in diretto contrasto con le direttive europee sopra menzionate, che tra l’altro prevedevano il termine del 31 luglio 2003 per il loro recepimento all’interno degli ordinamenti degli Stati membri.


Di conseguenza, un’altra strada per rimediare alle distorsioni introdotte dalla legge Gasparri potrebbe consistere nel presentare in sede europea un esposto contro la violazione, da parte dello Stato italiano, degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, finalizzato all’avvio di un cd. procedimento di infrazione.


Infine, non potrebbe essere più evidente la natura anticoncorrenziale della legge in esame, posto che essa sancisce e rafforza la situazione di abnorme concentrazione esistente, in Italia, nel mercato dei mezzi di informazione nonché nel mercato pubblicitario, che del primo costituisce la base e l’alimento essenziale. Come ha rilevato un autorevole commentatore, la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia afferma la prevalenza dei principi in materia di concorrenza vigenti a livello comunitario rispetto a normative nazionali che assecondino e legittimino assetti anticoncorrenziali dei mercati.


Dunque, gli strumenti per intervenire ­ anche nel caso in cui il Parlamento rifiutasse di accogliere i rilievi del presidente Ciampi e votasse nuovamente la legge in esame, senza emendarne i gravissimi difetti – non mancano; fondamentale è ristabilire la prevalenza dell’interesse generale ad un assetto pluralista e concorrenziale del sistema dell’informazione, rispetto all’interesse privato alla salvaguardia della formidabile redditività di un’azienda televisiva.


A quanto si legge sui giornali, il proprietario di tale azienda avrebbe dichiarato che la Gasparri salva Retequattro, poiché la stessa ­ se trasferita sul satellite ­ avrebbe visto i suoi ricavi pubblicitari annui scendere da 700 milioni di euro a dodici. Vale a dire che le Camere hanno votato una nuova legge sull’emittenza televisiva per salvaguardare 688 milioni di euro di ricavi dell’azienda del presidente del consiglio in carica.


A quando una legge nell’interesse dei cittadini?