10 Settembre 2003
La relazione sulla Gasparri di Giuseppe Tesauro, presidente dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, alla Camera
Con lettera pervenuta in data 3 settembre 2003, il Presidente della IX Commissione (Trasporti) della Camera dei Deputati ha richiesto, anche a nome del Presidente della VII Commissione (Cultura), una sintetica memoria scritta, in vista dell’audizione informale dell’Autorità relativamente al disegno di legge n. 3184, recante “Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A., nonché delega al Governo per l’emanazione del testo unico della radiotelevisione” approvato dal Senato della Repubblica il 22 luglio 2003. Nel dar corso a tale richiesta, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato intende svolgere le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si osserva che l’Autorità già nel dicembre dello scorso anno, in occasione dell’avvio del dibattito parlamentare, ha espresso, ai sensi dell’art. 22 della legge n. 287/90, il proprio parere in relazione alle questioni di tutela della concorrenza poste dal disegno di legge . Il parere risulta ancora di attualità per quanto concerne alcune rilevanti problematiche di natura concorrenziale rimaste sostanzialmente irrisolte a seguito dell’iter parlamentare.
Appare pertanto opportuno in questa sede, nel porre in rilievo i principali profili che caratterizzano il progetto di riforma, sottolineare e approfondire le preoccupazioni di ordine concorrenziale che essi presentano.
Obiettivi generali del disegno di legge
L’obiettivo principale del disegno di legge è quello di introdurre, nel settore radiotelevisivo, la tecnologia digitale e di favorirne lo sviluppo, tecnologia che diverrebbe il mezzo per la crescita della concorrenza nel settore. In linea generale, il perseguimento di un siffatto obiettivo – l’accelerazione del processo di digitalizzazione delle reti di trasmissione televisive – è senz’altro condivisibile, così come è auspicabile il risultato di un maggior livello di concorrenza nel settore, che da esso dovrebbe conseguire.
E’ convincimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, d’altra parte, che il conseguimento dell’obiettivo disegnato richieda una attenta considerazione di due aspetti cruciali. In primo luogo, occorre interrogarsi se il percorso prefigurato dal disegno di legge sia effettivamente atto a garantirne il compimento in condizioni e con modalità adeguate. In secondo luogo, è necessario chiedersi se il complessivo assetto regolamentativo del settore sia, a regime, in grado di tenere conto, in modo adeguato e coerente, del non semplice intreccio che lega sia le finalità, non sempre coincidenti, di pluralismo e di tutela della concorrenza, sia il gioco tra regolazione ex-ante e interventi fondati su valutazioni ex-post.
Con riferimento al primo aspetto, il percorso che l’impianto complessivo del disegno di riforma prefigura e la sua cadenza temporale appaiono problematici, là dove rischiano di lasciare sostanzialmente inalterata l’attuale struttura duopolistica del mercato nazionale; e, al contempo, sembrano ignorare, con grave pregiudizio dell’intero processo, l’esistenza di un inevitabile lasso temporale, indispensabile per l’effettiva diffusione, tra le famiglie italiane, delle apparecchiature necessarie per poter fruire dei servizi televisivi digitali.
Occorre, infatti, sottolineare come sussista una stretta relazione tra il grado di concorrenzialità di un determinato mercato, nello specifico di quello televisivo, e la sua capacità di evolversi verso forme tecnologiche più avanzate. Tanto maggiore è il livello di concorrenza del mercato, tanto più rapida ed effettiva sarà la propensione degli attori che in esso vi operano ad introdurre, allo scopo di differenziare la propria offerta, innovazioni tecnologiche.
Il sistema televisivo nazionale soffre invece di gravi carenze nelle condizioni strutturali di concorrenza. Esso si caratterizza infatti per la presenza di un duopolio stabile, che mostra, anche al suo interno, uno scarso livello concorrenziale, ciò che ha determinato il costituirsi di un mercato fortemente concentrato, poco dinamico e con un basso grado di innovazione.
Nel corso dell’ultimo decennio il contesto competitivo si è progressivamente e ulteriormente deteriorato: il tasso di concentrazione, in termini di audience share dei primi due gruppi televisivi, pur partendo da livelli estremamente elevati (nel 1992, era pari all’89%), si è ancora incrementato, raggiungendo, a fine 2001, il 90,2%, valore che non ha eguali in Europa. Tale struttura di mercato si riflette inevitabilmente anche sul mercato della raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo, che presenta in Italia un tasso di concentrazione particolarmente elevato, pari al 96,8%. Ciò a fronte, in Europa, di valori meno elevati, pari all’88% della Germania, all’82% della Gran Bretagna, al 77% della Francia ed al 58% della Spagna.
In tali condizioni, l’obiettivo prioritario che un disegno di riforma del sistema radiotelevisivo italiano dovrebbe porsi è quello di pervenire ad un assetto strutturale meno concentrato, più aperto e in grado di favorire l’effettivo ingresso di nuovi soggetti.
L’intervento di riforma avrebbe pertanto richiesto l’individuazione degli opportuni strumenti per addivenire, entro il termine che la Corte Costituzionale ha improrogabilmente indicato nel 31 dicembre 2003, ad una struttura di mercato più concorrenziale. In questo senso, non può non ricordarsi come le massime istituzioni dello Stato abbiano affermato più volte tale necessità. Con il messaggio alle Camere del 23 luglio 2002, il Presidente della Repubblica, evidenziando, tra l’altro, come “la garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta”, sollecitava il legislatore a disegnare un assetto regolamentare del sistema televisivo che assicurasse un effettivo regime concorrenziale, nel rispetto dei principi comunitari e in ossequio alle indicazioni della Corte Costituzionale.
Né è inutile, in questa sede, ricordare a quali regole la Corte Costituzionale, nel corso degli anni, ha richiesto di informare l’assetto del sistema radiotelevisivo. Nel 1988, con sentenza n. 826, la Corte ha rilevato come “il pluralismo in sede nazionale non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato che sia rappresentato da un soggetto unico o che comunque detenga una posizione dominante nel settore privato”. Nel 1994, la Corte, con sentenza n. 420, ha ribadito che “il legislatore è vincolato ad impedire la formazione di posizioni dominanti nell’emittenza privata e favorire il pluralismo (“esterno”) delle voci nel settore televisivo (così da garantire il diritto all’informazione e la libertà di manifestazione del pensiero); […]; nel senso che l’esistenza di un’emittenza pubblica non vale a bilanciare la posizione dominante di un soggetto nel settore privato”. Infine, in data 20 novembre 2002, la Corte, con sentenza n. 466, ha evidenziato come “rispetto a quella esaminata dalla sentenza n. 420 del 1994, la situazione di ristrettezza delle frequenze disponibili per la televisione in ambito nazionale con tecnica analogica si è, pertanto, accentuata, con effetti ulteriormente negativi sul rispetto dei principi del pluralismo e della concorrenza e con aggravamento delle concentrazioni”.
Con riferimento al secondo aspetto richiamato, nel tener conto, innanzi tutto, dell’intreccio tra finalità di pluralismo e di concorrenza, occorre considerare che se, da un lato, le istanze di tutela del pluralismo possono rendere necessarie, in talune circostanze, forme di intervento più invasive e stringenti di quelle richieste dalla tutela di un assetto concorrenziale del mercato – come, in via di esempio ipotetico, sarebbe il caso qualora i parametri tecnologici fossero compatibili con il raggiungimento di assetti industriali efficienti solo in presenza di un numero limitato di imprese di grandi dimensioni – d’altro lato, l’esistenza o l’assenza di un potere di mercato, in grado di ostacolare o favorire l’operare di meccanismi concorrenziali, non possono essere meramente ricondotte alla presenza di un generico numero di imprese operanti in ambiti di attività economiche connotate, di fatto o in prospettiva, da interdipendenze tecnologiche, ma come è ben noto dalla ormai secolare disciplina antitrust devono essere accertate alla luce di parametri rigorosi, che dipendono da precise condizioni di sostituibilità dal lato della domanda dei vari prodotti o servizi offerti e, per questa via, dalla esatta definizione dei mercati rilevanti; solo da tale definizione può, infatti, conseguire il calcolo di quote di mercato che possono essere interpretate come evidenza prima facie, sebbene non esclusiva, dell’eventuale costituzione di posizioni dominanti.
Con riguardo all’intreccio tra regolazione ex-ante e interventi ex-post, occorre, in secondo luogo, richiamare come l’attuale fase di evoluzione della normativa comunitaria dell’ordinamento della comunicazione si caratterizzi precisamente, come ben dimostra il pacchetto di direttive sulle comunicazioni elettroniche (v., in particolare, direttiva quadro n. 2002/21/CE), per il travaso dei principi e delle metodologie antitrust nel campo della regolamentazione. A tale orientamento si ispira, correttamente, la Relazione al Disegno di riforma, là dove afferma che “All’attualità acquista dunque maggiore efficacia, ai fini della tutela della concorrenza e del pluralismo, l’applicazione di regole antitrust basate su di un giudizio ex-post anziché su di una regolazione”.
Consegue, pertanto, da tali premesse, che quando interventi di regolazione ex-ante sono comunque ritenuti necessari, è essenziale che essi siano conformi ai principi fondamentali, consacrati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, che guidano l’applicazione del diritto della concorrenza. In mancanza di siffatta conformità, due esiti, ugualmente non desiderabili, possono infatti paventarsi: da un lato, la incapacità di incidere della norma ex-ante di regolazione, ogniqualvolta una fattispecie concreta, portata all’attenzione dell’Autorità di concorrenza, investa esattamente quella “formazione di posizioni dominanti” che la Relazione al Disegno di riforma di settore richiama esplicitamente come “la” ratio della norma; dall’altro, il rischio che, in forme varie e allo stato non facilmente prevedibili, la valutazione della fattispecie risulti condizionata dall’operare di un vincolo improprio, basato su criteri estranei ai principi basilari del diritto antitrust, universalmente condivisi in sede europea.
Né è agevole immaginare la possibilità di un terzo esito, alternativo e diverso dai due appena paventati, quando ci si confronti, per esempio, con l’articolo 15, comma 2, del Disegno di riforma in esame, nonostante il dettato letterale dell’incipit, che intenderebbe far salvo “il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il sistema integrato delle comunicazioni”.
Problematiche di ordine concorrenziale relative alla fase transitoria
Venendo ora a dei rilievi più puntuali relativamente alle modalità identificate nel disegno di legge ai fini del completamento del percorso necessario per pervenire ad un’accelerazione del processo di digitalizzazione delle reti televisive e ad un maggiore livello di concorrenza nel settore, la prima questione di rilevanza concorrenziale riguarda il tema delle frequenze.
Frequenze
Desta infatti preoccupazione, sotto il profilo della concorrenza, il sistema di assegnazione delle frequenze televisive, o meglio l’assenza di un meccanismo che ponga rimedio a quella situazione che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 466/02, ha definito di “occupazione di fatto delle frequenze (esercizio di impianti senza rilascio di concessioni e autorizzazioni), al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo nella distribuzione delle frequenze e di pianificazione effettiva dell’etere”. Il sistema disegnato dalla proposta di riforma, limitandosi a sanare le situazioni di mero fatto attualmente esistenti, non soltanto viola i principi fondamentali della concorrenza, sancendo una grave discriminazione tra operatori, ma, oggi, risulta altresì in contrasto con la vigente legislazione comunitaria in materia di comunicazioni elettroniche.
L’articolo 23, comma 4, del disegno di legge prevede infatti che la licenza di operatore di rete sia rilasciata su domanda ai soggetti che esercitano legittimamente l’attività televisiva o sulla base di un “generale assentimento”; meccanismo quest’ultimo, previsto dal comma 1 del medesimo articolo, che sostanzialmente assegna le frequenze agli attuali operatori televisivi in tecnica analogica, consentendo agli stessi di ottenere, a richiesta, “le licenze e le autorizzazioni per avviare le trasmissioni in tecnica digitale terrestre”. Tale previsione, nella misura in cui permette di mantenere l’uso di risorse frequenziali comunque acquisito, è idonea a produrre una grave discriminazione nei confronti di quelle società che, pur in possesso di titolo concessorio, non sono state poste in grado di esercitare l’attività d’impresa. Inoltre, siffatto meccanismo comporta, a differenza di altri Paesi europei (quali, ad esempio, il Regno Unito) che stanno disciplinando in modo puntuale e rigoroso la fase di transizione (e soprattutto di allocazione delle risorse frequenziali necessarie) al digitale terrestre, una situazione non pianificata e sperequata di assegnazione di dette risorse. In altre parole, si rischia in tal modo di creare un processo che, in considerazione dell’attuale situazione duopolistica e delle elevate barriere all’entrata, si tradurrà, anche per il nuovo sistema trasmissivo digitale terrestre, in un esito di mercato del tutto insoddisfacente.
Il sistema delineato dal disegno di legge appare, peraltro, non conforme alla vigente normativa comunitaria. E’ noto che il quadro regolamentare delineato dalle direttive del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di comunicazioni elettroniche ha introdotto una disciplina organica dell’intero settore delle comunicazioni, settore che ricomprende nel proprio ambito anche le reti di diffusione radiotelevisiva.
Il legislatore comunitario ha previsto, sulla base del presupposto che le frequenze rappresentano un bene scarso indispensabile per operare in molti dei mercati del settore delle comunicazioni, che la loro allocazione e assegnazione siano fondate su criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati (articolo 9 della direttiva quadro n. 2002/21/CE; articolo 7 della direttiva autorizzazioni n. 2002/20/CE; art. 4 direttiva concorrenza n. 2002/77/CE).
In tale prospettiva sistematica va letto l’articolo 5, comma 2, della direttiva autorizzazioni (2002/20) nella parte in cui fa salvi criteri e procedure specifici adottati dagli Stati membri per concedere i diritti d’uso delle frequenze. Ed infatti, la disposizione àncora la possibilità per gli Stati di mantenere criteri e procedure specifici, in primo luogo, all’esigenza di conseguire “obiettivi d’interesse generale conformemente alla normativa comunitaria” e, in secondo luogo, richiede comunque che “tali diritti d’uso” siano “concessi mediante procedure pubbliche trasparenti e non discriminatorie”. La previsione comunitaria non può, dunque, essere invocata per sottrarre i meccanismi di assegnazione delle frequenze ai generali principi di pubblica, oggettiva e non discriminatoria selezione degli operatori o per consentire l’adozione di norme nazionali che autorizzino il protrarsi di situazioni di fatto.
Né la previsione comunitaria può ritenersi in alcun modo soddisfatta dalla mera attribuzione del carattere di “interesse generale” allo svolgimento dell’attività di informazione radiotelevisiva, da qualsiasi emittente esercitata, come previsto dall’art. 6, comma 1, del disegno di legge, nel testo modificato dal Senato della Repubblica; e ciò, in particolare, nel momento in cui si intenderebbe farne discendere la conseguenza di far salva una disciplina derogatoria. Ciò che il legislatore comunitario intende per obiettivi di interesse generale, che possono, entro limiti ben precisi, giustificare specifici criteri di assegnazione delle frequenze è infatti rappresentato da quell’insieme di compiti e funzioni al quale il disegno di legge dedica il capo IV e che viene definito come servizio pubblico generale radiotelevisivo. Attività, questa, estranea ad ogni caratteristica commerciale, che viene svolta in conformità al contratto nazionale di servizio stipulato con il Ministero delle Comunicazioni, che è finanziata dal canone di abbonamento e che risulta sottoposta alla vigilanza del Parlamento. Non è, dunque, la mera attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque soggetto svolta, che può giustificare una deroga di tale rilievo alle regole di assegnazione delle frequenze stabilite dal legislatore comunitario, bensì soltanto lo svolgimento del servizio pubblico radiotelevisivo.
La fase di avvio del digitale terrestre (art. 25)
Un ulteriore profilo che è motivo di serie preoccupazioni sotto il profilo della tutela della concorrenza è rappresentato dalla carente disciplina della fase di transizione alla trasmissione in tecnica digitale. E’, infatti, inevitabile che per un periodo di tempo, che si ha ragione di ritenere significativamente lungo, vi sarà una coesistenza delle trasmissioni in tecnica analogica e in tecnica digitale.
Le ragioni di preoccupazione sono rappresentate dalla modalità di determinazione della base di calcolo che verrebbe utilizzata per la definizione del limite del 20 per cento al numero complessivo dei programmi televisivi concessi o irradiati. L’aspetto problematico risiede, da un lato, nella circostanza che la norma in parola stabilisce che a formare la base di calcolo concorrono anche i programmi televisivi irradiati in tecnica digitale ove raggiungano una copertura pari al 50 per cento della popolazione, dall’altro che il computo del limite viene effettuato, a differenza della normativa vigente, non più sulle reti, ma sui programmi . Atteso che l’attuale numero di reti/programmi analogici nazionali è pari a 13 e che, tecnicamente, ciascuna rete digitale è in grado di ospitare fino a 5/6 programmi, l’esistenza di una rete digitale con copertura del 50 per cento comporta che ciascun soggetto possa detenere legittimamente fino a tre programmi/canali televisivi. E’ appena il caso di ricordare, al riguardo, come la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 466 del 2002 abbia fissato la data del 31 dicembre 2003 come termine indifferibile entro cui rendere effettivamente operativo il vigente limite al possesso di più del 20 per cento delle reti televisive irradiate su frequenze terrestri, in virtù del quale, stante l’attuale numero di reti televisive programmate, nessun soggetto può legittimamente detenere più di due reti televisive.
Ma i motivi di preoccupazione, sotto un profilo più strettamente antitrust, derivano dalla circostanza che, anche qui, concorrono a formare la base di calcolo elementi tra loro non comparabili. Un programma irradiato su una rete digitale con copertura del 50% non può in alcun modo essere considerato equivalente ad un programma esistente diffuso attraverso una rete analogica.
Va, infatti, rilevato come il segnale trasmesso dalle reti di diffusione digitali, a differenza di quello che viaggia nelle reti analogiche, necessita, stante l’attuale configurazione del parco televisivo nazionale , di specifiche apparecchiature di ricezione istallate presso le famiglie raggiunte dalla copertura del segnale digitale. Sulla base di dati di recente diffusione, la quantità di decoder (per la ricezione del segnale digitale su frequenze terrestri) istallata presso le famiglie italiane ammonta a qualche decina di migliaia di unità, mentre le stime di conversione, da parte dell’utente finale, delle apparecchiature televisive (modifica delle antenne di ricezione, decoder ecc.) indicano che, anche tenendo conto degli effetti delle politiche pubbliche di incentivazione all’acquisto, tale fenomeno non potrà realisticamente assumere una dimensione significativa prima di setteotto anni.
Nonostante l’esistenza di tali oggettive e fisiologiche limitazioni di ordine tecnico e temporale, la citata previsione recata dall’art. 25, comma 7, del disegno di legge considera equivalente ponendolo nella medesima base di calcolo un programma diffuso attraverso una rete digitale (con copertura del 50 per cento), programma che realisticamente non potrà raggiungere, per un significativo numero di anni, che qualche decina di migliaia di telespettatori, ai programmi/reti analogici reti quest’ultime che, è bene ricordare, raggiungono livelli di copertura e di effettiva ricezione, nella maggioranza dei casi, di estensione pressoché prossima alla totalità delle famiglie italiane.
E’ innegabile che il dato di effettiva ricezione da parte della popolazione di tali canali è un elemento di essenziale rilevanza. Com’è noto, infatti, nei modelli di business degli operatori televisivi che trasmettono in chiaro e percepiscono i ricavi dalla raccolta pubblicitaria, il numero e la frequenza dei contatti dei telespettatori rappresenta l’elemento chiave che è in grado di determinare l’ammontare dei ricavi attesi. E poiché su questi si basa l’entità degli investimenti che ciascun operatore sarà disposto ad effettuare, la prospettiva di poter raggiungere, per un lungo periodo di tempo, un numero estremamente contenuto di potenziali telespettatori non potrà che condizionare negativamente l’effettivo sviluppo di nuovi programmi/canali. Pertanto, in presenza dell’attuale grado di sviluppo e diffusione delle apparecchiature di ricezione del segnale televisivo digitale, gli eventuali nuovi entranti non possono essere considerati una reale ed effettiva alternativa concorrenziale, in grado di contrastare il potere di mercato attualmente detenuto dai due attuali incumbent del mercato televisivo in chiaro.
E’ per tale ragione che la soglia del 20 per cento al numero complessivo di programmi irradiabili, nel momento in cui pone nella base di calcolo anche quelli diffusi attraverso le costituende reti digitali con copertura del 50 per cento, non costituisce in alcun modo un limite antitrust in grado di impedire il formarsi di posizioni dominanti nel settore televisivo.
Una possibile modifica della disposizione in parola potrebbe essere quella di prevedere, quale momento in cui si ridetermina la base sulla quale calcolare la soglia dal 20% dei canali irradiabili, l’effettiva ricezione da parte degli utenti del segnale televisivo digitale, anziché la mera copertura.
Connesso a tale questione, vi è un ulteriore aspetto che merita di essere rilevato: la mancata previsione di una soglia in capo agli operatori di rete, dall’articolato prevista invece soltanto per i fornitori di contenuti (articolo 15, comma 1, del disegno di legge). L’assenza di un limite al possesso di reti, date le attuali caratteristiche strutturali del mercato nazionale, rischia di compromettere il futuro assetto concorrenziale del settore televisivo anche nel sistema di diffusione digitale. Infatti, i due operatori incumbent, che già detengono una posizione di assoluto rilievo nell’attuale mercato televisivo in tecnica analogica, rimarranno liberi di acquisire una posizione di dominanza nel mercato della fornitura di capacità trasmissiva per la diffusione del segnale televisivo in tecnica digitale. Un operatore in tale posizione nel mercato a monte delle infrastrutture trasmissive sarà in grado di condizionare l’accesso al mercato a valle della fornitura di contenuti e, quindi, di indirizzare, anche in virtù delle sopra rilevate barriere all’ingresso, l’evoluzione della struttura competitiva di tale secondo mercato. Non è, dunque, da escludersi un esito strutturale che veda un mercato a monte delle infrastrutture trasmissive controllato da pochi, al limite due, operatori (le attuali emittenti televisive incumbent) attivi anche nei mercati a valle della fornitura di contenuti televisivi e della raccolta pubblicitaria.
Tale futuro scenario di mercato, in cui pochi operatori, verticalmente integrati, competono con molte emittenti presenti soltanto nello stadio a valle della fornitura di contenuti, rischia di compromettere gravemente gli effetti positivi sulla concorrenza nel mercato televisivo che potrebbero derivare dall’adozione della tecnica di trasmissione digitale, connessi all’incremento del numero di canali attualmente disponibili.
Deve rilevarsi, al riguardo, come un progetto di riforma del sistema televisivo nazionale dovrebbe tendere a realizzare condizioni di piena concorrenza anche nel mercato delle infrastrutture di rete di trasmissione televisiva, consentendo e incentivando la creazione di una pluralità di reti alternative e concorrenti, che offrano, in competizione tra loro, i servizi di trasmissione in tecnica digitale ai soggetti fornitori di contenuti. L’esperienza delle telecomunicazioni mobili (che si basano anch’esse sull’uso esclusivo di risorse frequenziali), a livello nazionale e internazionale, dimostra che un’effettiva e reale concorrenza tra le imprese si esercita anche, se non principalmente, nella costruzione e gestione di reti di trasmissione alternative.
Va aggiunto, infine, che le preoccupazioni di ordine concorrenziale connesse all’assenza di un limite al possesso di reti sono vieppiù aggravate dalla circostanza che l’art. 2-bis del decreto-legge n. 5/2001, convertito con legge n.66/2001, ha previsto, sebbene per un periodo di tempo definito (tre anni), un sistema di negoziabilità dei diritti d’uso delle frequenze, consentendo il trasferimento di impianti tra concessionari televisivi locali e nazionali. Al di là del fatto che l’art. 23, comma 3, del disegno di legge rende permanente tale possibilità, si osserva che, in presenza di una struttura di mercato connotata dall’esistenza di un duopolio stabile, conferire la facoltà di acquistare risorse frequenziali a soggetti che dispongono già di una cospicua capacità trasmissiva, non può che comportare un ulteriore rafforzamento della loro posizione con gravi conseguenze sulle dinamiche concorrenziali; ciò soprattutto nel momento in cui tale possibilità è, invece, preclusa a nuovi entranti, che non dispongano già di un titolo abilitativo. Non è superfluo affermare, in questa sede, come l’Autorità, nell’assolvimento dei propri compiti istituzionali in materia di controllo delle concentrazioni, verificherà se, e in che misura, l’acquisizione di impianti e frequenze sia suscettibile di determinare la creazione o il rafforzamento di posizioni dominanti.
In ogni caso, sarebbe opportuno estendere la possibilità di acquisto delle frequenze anche agli operatori nuovi entranti.
Problematiche di ordine concorrenziale relative all’assetto definitivo
Fin qui i profili attinenti essenzialmente alla fase di transizione e che, a giudizio dell’Autorità, sono suscettibili di compromettere il raggiungimento dell’obiettivo perseguito dal disegno di riforma, quale dichiarato nella relazione allo stesso. Anche a regime, tenuto conto degli intrecci prima richiamati tra pluralismo e concorrenza, da un lato, e regolazione ex ante e interventi ex post, dall’altro, l’assetto regolamentativo del settore è tale da porre problematiche di ordine concorrenziale, in particolare in ordine al sistema integrato delle comunicazioni.
Il sistema integrato delle comunicazioni
Il disegno di legge in commento, così come risulta dalle modifiche apportate dal Senato della Repubblica, prevede infatti, come limite per evitare la costituzione di posizioni dominanti, il tetto del 20 per cento alla raccolta delle risorse nel cosiddetto “sistema integrato delle comunicazioni” (articolo 15, comma 2). Tale settore (come risulta dalla definizione fornita dall’art. 2, comma 1, lett. g) comprende tutte le attività svolte da imprese che operano nei seguenti settori: produzione e distribuzione radiotelevisiva, qualunque ne sia la forma tecnica; editoria quotidiana, periodica, libraria, elettronica, anche per il tramite di internet; produzione e distribuzione cinematografica; industria fonografica; raccolta pubblicitaria, quale ne sia il mezzo o le modalità di diffusione. Fanno, dunque, parte di tale aggregato prodotti e servizi di natura alquanto diversa, quali le sponsorizzazioni televisive e la vendita di prodotti musicali, ma anche la commercializzazione di prodotti editoriali e la raccolta pubblicitaria sull’annuaristica telefonica.
L’Autorità intende ribadire, in questa sede, come siffatta aggregazione dei mercati sia del tutto inadeguata rispetto al fine di contenere il potere di mercato delle imprese, atteso che questa dovrebbe essere la ratio della norma. I principi del diritto della concorrenza comunitario e nazionale, e le metodologie di analisi economica che ne sostengono l’applicazione, impongono di valutare e accertare il potere di mercato, singolo o congiunto, di una o più imprese, in qualunque mercato esse si trovino ad operare, assumendo come indefettibile punto di partenza la definizione del mercato. Soltanto una sua corretta identificazione può consentire di affermare se, e in che misura, un determinato soggetto dispone di potere di mercato o meglio, utilizzando la terminologia propria del diritto della concorrenza comunitario, una posizione dominante.
La definizione del mercato rilevante, ambito merceologico e geografico all’interno del quale si esplicano le relazioni concorrenziali tra le imprese, costituisce un processo di “fondamentale importanza” per la formulazione di ogni giudizio che verta sul potere di mercato delle imprese e, conseguentemente, sugli eventuali rimedi da adottare per contenerlo o impedirne la formazione. Tale processo, come da ultimo la Commissione Europea ha avuto occasione di affermare , “non è un processo meccanico o astratto, ma richiede un’analisi di tutti gli elementi disponibili relativi al comportamento del mercato nel passato e un esame complessivo del funzionamento di un dato settore”. In tale ottica, una definizione per via legislativa di settori, più o meno ampi, di beni o servizi, appare priva di fondamento giuridico ed economico.
Infatti, sulla base di una consolidata giurisprudenza nazionale e comunitaria il mercato rilevante comprende tutti quei prodotti o servizi che siano sostituibili non soltanto in termini di caratteristiche tecnologiche, ma soprattutto in relazione alla loro capacità di soddisfare, allo stesso modo, le preferenze dei consumatori ; i prodotti o i servizi che sono solo scarsamente o relativamente intercambiabili tra loro, sulla base delle preferenze espresse dalla domanda, ossia dai consumatori di un dato bene o servizio, non fanno parte dello stesso mercato .
Il disegno di legge in commento, negando in radice siffatti principi, e aggregando in un coacervo eterogeneo, in via astratta e generale, beni e servizi che, sulla base dell’applicazione dei menzionati principi antitrust, non possono essere ricondotti ad un medesimo ambito di mercato, priva di qualunque efficacia la soglia antitrust del 20 per cento.
Deve, dunque, ritenersi che la fissazione di limiti alla raccolta delle risorse nel sistema integrato delle comunicazioni, non soltanto poggia su un’assunzione metodologicamente non corretta, che, in quanto tale, rende lo strumento inadeguato rispetto allo scopo che si prefigge di conseguire, ma soprattutto, da un punto di vista più strettamente istituzionale, incrina la validità generale di consolidati principi comunitari e nazionali, in un settore – quello televisivo – vitale per la vita democratica del Paese. Settore economico nel quale gli interventi a tutela della concorrenza devono potersi esplicare pienamente, affinché questa eserciti effettivamente la propria forza di disciplina del comportamento delle imprese che in esso vi operano.
Per altro verso, non può sottacersi che l’individuazione, a fini regolamentari, del settore integrato delle comunicazioni, come base su cui calcolare le quote di mercato degli operatori, non trova alcun riscontro nell’esperienze legislative di altri paesi economicamente avanzati.
Una breve disamina degli aspetti salienti delle normative vigenti in alcuni Paesi europei può essere utile in proposito.
I diversi Paesi dell’Unione Europea hanno adottato differenti approcci di regolamentazione per disciplinare le attività nel settore dei media e governarne i processi di concentrazione. In particolare, i modelli prevalenti sono essenzialmente basati su due criteri: i limiti alle quote di audience (Regno Unito e Germania) e quelli sulla proprietà delle licenze per la trasmissione radiotelevisiva (Spagna, Francia) .
In Germania la legge ha fissato un limite alla concentrazione nel mercato della televisione, sia in chiaro che a pagamento, pari al 30% della quota di audience nazionale. Sul piano operativo, la Commissione per l’Analisi della Concentrazione nei Media (KEK Komission zur Ermittlung der Konzentration im Mediabereich), istituita nel maggio del 1997, ha il compito, tra l’altro, di monitorare che nessun gruppo attivo nel settore della comunicazione acquisisca una “posizione di potere nella formazione delle opinioni”. Un operatore televisivo ricade in tale situazione qualora abbia raggiunto, a livello nazionale, una quota pari al 30% dell’audience share media annuale, comprensiva di tutte le trasmissioni televisive in qualsiasi tecnica trasmissiva (analogica e digitale) e su qualsiasi piattaforma tecnologica (cavo, satellite ed etere). Il superamento di detto limite da parte di una società, in qualunque modo esso avvenga, anche per mezzo di crescita interna, comporta la preclusione della concessione di ulteriori licenze trasmissive, sia direttamente che tramite acquisizioni, nonché l’avvio di un processo che conduca al ripristino del rispetto della medesima soglia. Siffatto processo può avvenire attraverso due distinte modalità, negoziate dalla Commissione e dalla società eccedente i limiti di legge. La prima si concretizza nella deconcentrazione delle attività televisive della società, fino al raggiungimento della soglia del 30%. La seconda prevede la concessione di spazi trasmissivi a parti terze ed indipendenti al fine di contribuire alla varietà dei programmi culturali, educativi e di informazione.
Anche nel Regno Unito la legge prevede limiti alle concentrazioni di tipo orizzontale, che si applicano soltanto alle emittenti private, fissati in termini di quote di audience media annuale attribuibile a tutti i servizi televisivi qualsiasi ne sia la modalità tecnica (digitale o analogica) e la piattaforma trasmissiva (cavo, satellite, etere). In particolare, tali limiti prevedono il divieto di possedere una quota azionaria superiore al 20% in due o più emittenti, sia nazionali che regionali, la cui audience complessiva sia maggiore del 15%.
Altre limitazioni concernono: il divieto di possedere contemporaneamente le due licenze nazionali analogiche (ITV e Channel 5); il divieto di possedere contemporaneamente due o più licenze regionali nella stessa area locale; il divieto per gli operatori di rete in tecnica digitale terrestre di detenere più di tre licenze ; un divieto ai fornitori di contenuti televisivi in tecnica digitale terrestre articolato secondo le seguenti modalità: limite al possesso di più di 2 canali nel caso in cui sia disponibile in tutto il mercato un numero complessivo minore o uguale a 10 canali; tale limite passa a 4 canali nel caso di 10-40 canali complessivi, ed al 25% nel caso di più di 40 canali totali.
In Spagna la normativa di settore contempla, in materia di limiti alle concentrazioni orizzontali nel mercato televisivo, previsioni specifiche a seconda della modalità e della piattaforma trasmissiva. Per quanto riguarda le trasmissioni terrestri in tecnica sia analogica sia digitale vige, al fine di mantenere una pluralità di operatori sul mercato, il divieto di possedere, in via diretta e indiretta, quote azionarie di più di un licenziatario nazionale.
In ambito locale, la legge ha stabilito il limite, per ogni area geografica, di due sole concessioni televisive analogiche terrestri: la prima destinata alle autorità locali, la seconda assegnata attraverso meccanismi di gara. La legge impedisce sia la partecipazione azionaria in più di una concessionaria locale, sia la creazione di reti di concessionarie locali.
Il modello francese di regolamentazione del settore televisivo si basa essenzialmente su due criteri che si applicano, ai soli operatori privati, in modo cumulativo: a) un limite al possesso di capitale azionario degli operatori licenziatari, b) un limite al numero di licenze.
Il primo limite stabilisce che una società (ovvero una persona fisica) non può detenere più del 49% del capitale azionario di un’emittente televisiva nazionale che trasmette su etere (tale soglia è pari al 50% per le emittenti locali e per gli operatori satellitari) . Con riguardo al numero di licenze, valgono i seguenti limiti: divieto al possesso, diretto e indiretto, di più di una licenza per i servizi televisivi nazionali in tecnica analogica terrestre; divieto per un licenziatario nazionale di possedere una licenza per i servizi televisivi locali in tecnica analogica terrestre; divieto al possesso, diretto e indiretto, di più di due licenze per i servizi televisivi satellitari.
Alla luce delle suddette considerazioni, l’Autorità ritiene auspicabile, al fine di assicurare un corretto funzionamento del mercato televisivo, che sia riconsiderato il limite alla raccolta di risorse, con particolare riguardo alla definizione dell’ambito di attività economica di riferimento, allo stato individuato nel c.d. sistema integrato delle comunicazioni; che siano rivisti i criteri di assegnazione delle licenze e delle risorse frequenziali; che sia prevista l’introduzione di una soglia che si applichi agli operatori di rete (in modo analogo a quanto previsto per i fornitori di contenuti); nonché la possibilità di acquisire, anche per i nuovi entranti, rami d’azienda ai fini delle trasmissioni in tecnica digitale.
Si tratta di modifiche che, ad avviso dell’Autorità, consentirebbero di raggiungere l’obiettivo del progetto di riforma del sistema radiotelevisivo, che è di fondamentale importanza per il Paese, e di garantirne un corretto e dinamico assetto concorrenziale.