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15 Ottobre 2004

Intervento di Arturo Parisi al seminario di studi dell’Assemblea regionale della Marche – Ancona 15 ottobre 2004 (bozza non corretta)

Vorrei che fosse chiaro che non sono venuto a vendere alcun prodotto.


Né la lista unitaria e neppure la scelta identitaria o solitaria.


Vorrei essere di un qualche aiuto per dare qualche elemento, qualche categoria per ragionare assieme.


E questo lo ripeto per due motivi.


Innanzitutto perché questa scelta è nelle vostre mani.


Chi mi conosce, chi mi ha frequentato non solo come presidente dell’Assemblea federale, sa che difendo in modo ossessivo l’autonomia regionale. Spesso e  prevalentemente sconfitto, perché ci sono anche “regionalisti a giorni alterni”, mentre io aspirerei a essere autonomista permanentemente.


Forse sono anche aiutato dalla mia provenienza isolana ad avere un forte radicamento nella rivendicazione autonomista, ma anche perché se le scelte non sono radicate nelle nostre convinzioni fanno poca strada.


Se la dirigenza locale, sia che scelga la lista identitaria solitaria, sia che scelga la lista unitaria, lo fa per allinearsi a indicazioni umane – poiché i voti, soprattutto nelle elezioni locali, sono affidati alla capacità di traduzione e di rappresentazione della dirigenza locale – il gioco si disfa in pochissimo tempo.


Quindi, ahimé, non vi posso sollevare in alcun modo dalla vostra responsabilità.


Tocca alla dirigenza marchigiana decidere, nelle Marche, che cosa fare.


Detto questo vorrei esplicitare due concetti che sono chiari.


Dire Federazione non significa dire automaticamente lista unitaria, ma significa riconoscere l’esistenza di un processo che assume, come preoccupazione condivisa, l’elaborazione di una linea politica, di una linea di governo, di risposta ai problemi della gente.


Oggi non ne parliamo in concreto, quindi sostanzialmente evochiamo delle categorie, piuttosto che entrare nel dettaglio.


Significa essere – come mi è capitato una volta di registrare in una ricerca fatta per l’Istituto Cattaneo – quelli della soluzione dei problemi, non quelli della loro rappresentazione.


Questo vuol essere la Margherita.


Questo significa scegliere, come propria identità, il momento del governo e non della generica rappresentanza o rappresentazione.


Vogliamo ascoltare la gente?


Sì, ma non ascoltare per accontentarsi di rappresentarla.


Ma per rispondere alle loro domande.


Perché tutti ascoltano la gente, è una delle regole fondamentali della politica quella dell’ascolto, perché è fondata, soprattutto in democrazia, sulla raccolta del consenso.


Anche altre forme fanno capo, poi, alla raccolta del consenso.


Ma noi vogliamo essere quelli che si propongono ai cittadini dichiarando di essere persone che ascoltano ma anche persone che rispondono.


E quindi, inevitabilmente, non si accontentano di raccogliere e trasmettere la loro domanda.


Ma vogliono portarla a sintesi e quindi, parzialmente, anche deluderla.


Perché questa è la differenza tra un partito di rappresentanza e un partito di governo.


Ma è chiaro che intanto noi ci possiamo proporre come partito di governo – quindi partito che ascolta e che risponde – nella misura in cui siamo credibili e riusciamo a convincere l’interlocutore che ci facciamo carico di tutta la sua domanda, anche se oggi non possiamo assicurare tutta la risposta che lui affida nelle nostre mani.


Quindi dire Federazione, dire Ulivo, dire spinta unitaria significa dire questo. Non necessariamente dedurre, da questa scelta, quella che è la conseguenza tecnica dal punto di vista elettorale. Questa è una semplice conseguenza.


Da questo punto di vista — questo è il terzo punto, il rapporto che c’è tra ulivismo e modalità con la quale ci presentiamo alle elezioni — noi dobbiamo essere tanto più ulivisti quanto più siamo identitari.


E’ proprio presentandoci da soli che siamo caricati della necessità di un “più ulivismo”.


Presentandoci con gli altri, possiamo anche dividerci il lavoro, sceglierci le candidature in modo tale che ognuno peschi in modo coordinato nel bacino. Ma la scelta solitaria ci carica di questa necessità.


E qui vorrei che ci capissimo su cosa significa ulivismo.


Altrimenti è una parola che evochiamo con una sintesi, una cifra sintetica, perché ulivismo non significa far parte dell’alleanza dell’Ulivo.


Ogni tanto qualcuno mi dice “io sono ulivista, io sono dentro il campo del centro-sinistra”.


Nessuno immagina di spostarsi nel campo di centro-destra. Neppure di regredire in una posizione terzopolista. Non è questo, né presentarsi sotto il segno dell’Ulivo sulla scheda elettorale.


Dire ulivista significa dire esattamente quello che ho detto prima: assumere a riferimento della propria identità non il proprio passato ma la risposta, a livello di governo, alle domande della gente, a tutte le domande della gente.


Perché questo è il problema.


E questo è tanto più necessario nel caso in cui ci dovessimo trovare nelle condizioni di offrire un nostro uomo o una nostra donna alla guida del Governo, e ancora di più.


Ma come è possibile che un partito si proponga nel senso di “rappresento gli operai”, “rappresento i negozianti”, quando la persona nella quale si riconosce chiede di essere riconosciuta?


Tutto può fare all’infuori di questo.


Perché, essendo appunto caricato di una funzione di sintesi, deve rappresentare tutti.


Questo è il problema.


Io ritengo che noi dobbiamo essere comunque quelli della sintesi, quelli della mediazione, quelli della risposta a livello di governo. Ma a maggior ragione.


Altrimenti rischieremmo di essere inevitabilmente su posizioni diverse dalla persona alla quale chiediamo anche di trascinarci elettoralmente.


Perché questo pure ho sentito.


Qualcuno pensa veramente che noi abbiamo raggiunto il 14,5% semplicemente perché c’era scritto “Rutelli” sulla scheda?


Voi pensate che veramente gli elettori sono caduti nella trappola semplicemente per una identità?


Certo ci ha aiutato, ma ci vuole ben altro.


Se noi avessimo sventolato, nella campagna elettorale, dei principi di identità e se Rutelli durante la campagna elettorale si fosse speso per la campagna della Margherita, saremmo arretrati – perché ricordiamo che nel 2001 noi siamo avanzati dal punto di vista elettorale, non a sufficienza per vincere, ma siamo andati avanti — e la Margherita sarebbe inevitabilmente stata travolta dal disastro che aveva prodotto.


Invece noi non abbiamo chiesto a Rutelli di essere sulle nostre posizioni.


Siamo noi che, offrendo Rutelli alla guida della coalizione, ci siamo attestati sulle sue posizioni.


Non abbiamo chiesto a Rutelli di fare la campagna con noi, non ha fatto neanche una manifestazione di partito, Rutelli, durante la campagna elettorale, era semplice sincronia e sintonia sulle posizioni.


Questo bisogna avere in mente, nel momento in cui pensiamo di spenderci con  il candidato presidente nelle Marche.


Guai se uno pensasse di appropriarsi del candidato presidente, utilizzandolo strumentalmente a livello meramente elettorale.


Sarebbe una scelta assolutamente miope.


Questo significa fare una scelta ulivista ed è una scelta indifferente alla forma organizzativa che pensiamo di adottare dal punto di vista elettorale. Questa nascerà da altre cose.


Questo è il problema che noi abbiamo di fronte ed è solo questo che volevo dire.


Poi ho aggiunto – visto che era un seminario di carattere tecnico, che nasceva dall’analisi elettorale – che l’analisi la dovrete fare voi.


Perché – come ho detto – prima bisognerà individuare le persone e poi ascoltarle, per portarle a sintesi e mobilitarle, mobilitare la loro partecipazione.


Ho individuato due aree specifiche nelle Marche, quasi più che in altre regioni. Non è l’area del non voto, perché — ho visto delle approssimazioni — il 20% che abbiamo indicato non sono persone che non votano.


C’è un po’ di mitologia sul non voto.


Gran parte del non voto è una mancata partecipazione stabile.


Molte volte viene utilizzato per dirimere competizioni e si dice “io mi interesso di questo, non vengo a rubare i tuoi voti concretamente. Mi interesso del non voto”.


Si inizia così, poi si finisce cercando i voti dappertutto, naturalmente.


Invece no, quello che vi ho indicato come obiettivo non è la quota di elettori che non votano.


Ma la quota di elettori che, pur essendo coinvolti nel processo elettorale, non votano in tutte le condizioni.


Perché fanno la differenza in riferimento alle diverse competizioni.


Ed essendo privi di un filo politico complessivo, valutano le competizioni in relazione alla specificità del voto.


Se e nella misura in cui la Margherita svolge, sviluppa, rafforza un rapporto stabile con questo elettorato, dovrebbe essere in condizioni di portare una quota di questo 20% a votare stabilmente.


Spiegando come anche in una elezione meno importante, si giocano la politica e le scelte complessive, anche se apparentemente non appaiono.


Anche nelle elezioni in cui non c’è la stimolazione delle macchine particolaristiche di candidato — perché c’è anche questo — si gioca egualmente la scelta politica. Questo significa.


Il 20% evidentemente è complessivo, non riguarda il 20% del centro-sinistra.


Il centro-sinistra ne avrà tendenzialmente la metà, quindi meno, ma voi capite che noi lavoriamo nell’obiettivo complessivo, su quote molto minori, nessuno pensa di ubriacarsi con il 20%.


Questo è il primo obiettivo.


Il secondo obiettivo è il voto di coalizione.


Nella misura in cui noi abbiamo svolto un discorso a favore della coalizione e non l’abbiamo praticato con coerenza, rischiamo di scuotere l’albero e non raccogliere i frutti, essendo chiaro che l’albero non è il nostro, è un albero che sta lì.


Perché?


Evidentemente diciamo “coalizione” e non riusciamo a dare seguito alle parole che abbiamo lanciato.


E i frutti finiscono inevitabilmente per cadere per terra o per cadere nel cestino di un altro. Questo è il problema.


Anche qui esiste una quota calcolabile provincia per provincia, comune per comune, sezione per sezione.


Si può arrivare addirittura a ipotizzare quali siano gli elettori.


Questo è l’esercizio che vi propongo: quando individuate in una sezione nome e cognome di una persona che probabilmente è una di quelle che ha votato coalizione e non ha votato alcuno dei partiti, interrogatevi: “come lo convinco a votare Margherita?”.


Se non riuscite a darvi una risposta, interrogatevi sul fatto che non riuscite o non riusciamo a darci una risposta. (Interruzione)….


Invece io ti dimostro quantitativamente, con i dati, che c’è una quota significativa.


Il fatto che noi non li conosciamo, è già questo un problema.


Perché esistono, perché dai numeri risulta che ci sono.


Si trova quello che si cerca.


Ma se noi non li cerchiamo non li troveremo mai.


E noi dobbiamo cercarli.


Da questo punto di vista mi riconosco nella saggezza di chi ha detto “facciamocene una ragione, il 14,5 non lo prendiamo più, è stato un fatto occasionale aiutato dalla trappola delle tre volte Rutelli”.


Bisogna contare fino a mille prima di condividere a livello collettivo questa proposizione, e probabilmente è un atteggiamento che dobbiamo anche coltivare dentro di noi, per realismo.


Ma nel momento in cui questo, che è un generico atteggiamento, diventasse una scelta, dobbiamo sapere che cosa ne deriva.


Ne deriva inevitabilmente l’accettazione, tanto più in una regione in cui c’è un rapporto squilibrato tra il partito dominante e gli altri, in una condizione di minorità.


Questo è il problema.


E dentro questo noi dobbiamo riuscire a farci una ragione del fatto che dire ulivista significa in qualche modo evocare una competizione.


Se per paura della competizione siamo guidati dalla tentazione della divisione del lavoro — perché questa è l’opzione alternativa — e se tutti e due ci interessiamo di tutto, inevitabilmente competiamo.


Ma a cosa competiamo se alla fine la somma è zero?


Interessiamoci di cose diverse: uno cattura i voti da una parte e l’altro cattura i voti dall’altra.


Questo è uno dei classici argomenti che esiste concretamente. Da questo punto di vista, inevitabilmente significa accettare una condizione di minoranza.


Le due opzioni sono: o porsi tutto intero l’obiettivo della coalizione, e inevitabilmente predisporsi a una competizione, quindi ragionare sulle modalità entro le quali la competizione è cooperativa e non divisiva.


Altrimenti fare l’altra scelta, per ragionare sull’esito inevitabile dell’accettazione di una condizione di minoranza.


Qui non mi riferisco alla minoranza di carattere quantitativo, al fatto che do per scontato che uno ha il 25 e l’altro ha l’8, ma a una minoranza di carattere qualitativo, perché i numeri sono un fatto tutto sommato secondario.


Non sono irrilevanti, ma tutto sommato sono secondari.


Una volta che noi accettiamo l’idea che esiste un partito generale che si pone tutto intero l’orizzonte di governo – il progetto di governo – ed esiste, e noi accettiamo la condizione di partito particolare – che si pone solo alcuni obiettivi – cadiamo esattamente nella trappola che la rivendicazione della nostra identità vorrebbe evitare.


Perché – invece di essere un partito al centro del centro-sinistra – per portare tutto il centro-sinistra su una posizione di governo, noi accettiamo la posizione di essere un partito ascaro — questo è il termine tecnico — che ha il compito di portare al centro-sinistra e inevitabilmente al partito che guida il centro-sinistra, quella quota di elettorato che il partito che guida il centro-sinistra da solo non riesce a raggiungere.


Accettare questa condizione significa accettare una condizione di partito subalterno, di partito esattamente ascaro, quello che erano i partiti contadini nei fronti popolari dei paesi dell’est.


Chi ha la pazienza di leggere la storia, scopre infatti che non è vero che all’est esisteva il regime del partito unico.


Il modello tradizionale era un modello di fronte dei partiti.


I partiti generali sono quelli che possono aspirare a guidare il governo come linea e anche come persone.


I partiti subalterni e cooperanti hanno dei compiti predestinati, che non riguardano il presente ma definiscono l’identità complessiva del partito. Esattamente di questo noi stiamo parlando.


Dire ulivismo significa dire questo.


L’interrogativo che andiamo a porci è quindi questo, ed  è solo da questo punto di vista che noi mettiamo al centro la politica.


Perciò resisterei all’idea delle candidature, resisterei all’illusione che il risultato sia la somma del contributo dei singoli candidati.


Perché noi abbiamo anche questa opzione: affidare il nostro risultato alla somma dei risultati di candidato.


Noi abbiamo qui una bella tabella che non è stata proiettata, sulle preferenze: emerge senza alcuna incertezza che all’interno del nostro paese e all’interno delle Marche esistevano storie diverse, di partiti che affidavano e definivano il voto di lista come somma dei voti di candidato.


Ma noi sappiamo che dobbiamo ragionare anche sul tipo di elettorato, perché evidentemente l’opzione finale è un mix, inevitabilmente, ma dobbiamo decidere come è fatto questo mix.


Perché in  tutti i cibi c’è del sale, nella gran parte dei cibi c’è lo zucchero, tuttavia la composizione non è uguale.


Noi dobbiamo decidere che cosa vogliamo essere.


Ed è da questo punto di vista che dobbiamo decidere se siamo un partito che è la somma di domande particolaristiche o un partito definito dalla sua proposta. Dobbiamo decidere se il nostro partito è definito perché delimita preventivamente i tipi di domande che rappresenta, o viceversa si fa carico di tutto intero il progetto di governo.


Per quanto riguarda le Marche, mi sembra che la sola alternativa di rendere il partito disponibile a offrire un proprio uomo alla presidenza della Regione, non lascia scelte.


Tanto vale, come si fa per i figli migliori quando partono per l’assunzione di cariche, salutarsi e dirsi addio.


Perché noi sappiamo che l’uomo o la donna della Margherita — in questo caso immaginiamo e lavoriamo perché sia un uomo — parte per questo compito.


Parte per un compito che lo vedrà incaricato di un ruolo generale.


E il partito non potrà che sentirsi a servizio di questo ruolo e a sostegno di questo compito.


Altrimenti invece che un arricchimento elettorale sarebbe, questa, una causa di impoverimento politico.