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3 Marzo 2002

I Democratici – Assemblea delle Regioni: Sessione Straordinaria

Argomento:

Cari amiche e cari amici,


innanzitutto grazie, grazie, grazie di nuovo per l’affetto che ieri, oggi e l’altro ieri avete voluto manifestarmi in un passaggio difficilissimo della mia vita. Uno di quei passaggi in cui in qualche modo tutti siamo chiamati. Grazie Francesco, grazie Antonio, grazie ad ognuno di voi. A quelli a cui l’ho potuto dire personalmente e a quelli a cui lo ripeto adesso.


Il vostro abbraccio – lo sento come un abbraccio – mi ha consentito di capire che mi volete bene. E il vostro abbraccio mi impone – resistendo all’imbarazzo del professore puntuto che aveva evocato Francesco presentandomi al Palavobis, lo ricorderete – mi impone di dire che vi voglio bene. Il vostro abbraccio ci chiede di dirci che ci vogliamo bene. Non è poco. Anche se fosse solo questo il risultato di questi tre anni che abbiamo passato insieme, di questi primi tre anni, potremmo dire che esso è ampiamente positivo. Vuol dire che intorno al progetto, che è una categoria della ragione, e anzi qualche volta è evocato in contrapposizione all’identità, all’appartenenza nella sua freddezza razionale, attorno al progetto dicevo è cresciuta un’esperienza, è cresciuta una solidarietà, è cresciuta un’esperienza di solidarietà. E quello che più conta è cresciuta dentro la politica. Dobbiamo ricordarcelo, dobbiamo anche ricordarlo a quanti pensano che la politica è a lato, estranea, spesso contrapposta all’umanità.


Noi sappiamo invece che la politica è la forma più compiuta di espressione dell’umanità. E’ il luogo nel quale le aspirazioni e le speranze personali si incontrano fra loro e si fanno progetto e azione collettiva. Di questo abbiamo condiviso un’esperienza, di questo dobbiamo dare una testimonianza.


Ed ora veniamo al senso di questo incontro. Incontrando, in vista di quest’appuntamento, i coordinamenti regionali allargati, ho detto che questa non sarebbe stata una cerimonia di addio. Vi ripeto: questa non è una cerimonia d’addio. E’ l’adempimento di un impegno.


Intervenendo nell’ultimo coordinamento Regionale della Toscana un amico di Firenze più fresco di reminiscenze latine, ci ha ricordato – lo ha detto come lo imparavamo a scuola – hoc erat in votis. Ed è per questo che quasi adempiendo a quello che è un obbligo rituale debbo rileggere questi impegni. I nostri impegni sono scritti nella carta del processo costituente dei Democratici.


Nel momento in cui demmo vita a una prima forma stabile dell’organizzazione dei Democratici, anteponemmo a quelle pagine che guidarono, cercando di governarlo, uno dei passaggi più faticosi della nostra vicenda, la fase costituente, delle affermazioni che rimangono per noi punto di riferimento obbligato, il punto di riferimento solenne di quest’incontro.


Scrivemmo: “i Democratici non sono scesi in campo per aggiungere una nuova voce al novero già numeroso dei partiti esistenti, ma per promuovere, pur nel rispetto delle ispirazioni culturali e tradizioni politiche, quel nuovo Partito Democratico che secondo il nostro progetto dovrà organizzare in forma unitaria l’intero campo del centrosinistra. Mentre avviano il processo costituente, i Democratici rinnovano perciò la loro determinazione a sciogliersi nelle nuove aggregazioni attraverso le quali si svilupperà il processo di costituzione del nuovo Partito Democratico. Assumendo la denominazione di movimento, invece di quella di partito, i Democratici intendono ricordare la natura transitoria della loro organizzazione rispetto all’approdo finale. Unendo cittadini che provengono da tutte le famiglie del movimento democratico del nostro paese, i Democratici sono il segno che quanti si muovono nella stessa direzione sono destinati ad incontrarsi”. Questo lo scrivemmo in modo inequivoco nel primo testo solenne che ha governato la nostra convivenza. Questo lo abbiamo ripetuto senza esitazione durante tutta la nostra vicenda.


Anche se in un momento inevitabilmente emozionante come questo, ci tratteniamo, come alla vigilia di un matrimonio, a chiederci se, a chiederci chi, a interrogarci sul perché, questa è la scelta alla quale noi siamo stati fedeli e questo è l’impegno che noi qui oggi onoriamo.


L’abbiamo ripetuto durante tutti questi mesi, durante tutti questi anni. Ce lo ha ricordato Romano Prodi nel discorso di Formia, lo ricorderete. Lo ha ribadito nella lettera di saluto che ha inviato a tutti noi e che è stata letta in apertura.


A questa capacità di mantenere gli impegni, vorrei anche ricordare la nostra capacità di mantenerli in tempo, alle date previste.


Dicemmo – lo ricordai anche in apertura di quello che fu il nostro congresso di Venezia – che il processo costituente si sarebbe concluso il 31 gennaio. E, ricorderete, il 31 gennaio si concluse.


Il primo sabato successivo si svolse la prima assemblea delle regioni. Non ci costò poco. Tuttavia noi sappiamo che nella politica bisogna dare prova di essere, come si suol dire, persone serie, e la prima modalità è mantenere gli impegni nei modi e ai tempi previsti.


Dicemmo che entro due anni, cioè entro il mandato biennale che a Venezia veniva affidato all’Esecutivo e a chi lo presiedeva, ci saremmo fatti carico dell’impegno scritto nella carta costituente. Siamo qui appunto a rispettare quell’impegno.


Dicemmo poi, trasferendo la nostra determinazione all’interno della Margherita, che nella primavera del 2002 avremmo dato seguito alla domanda che avevamo raccolto il 13 maggio dagli elettori. Nel primo giorno di primavera, ci incontreremo a Parma per dar seguito a quell’impegno: il primo congresso della Margherita che non a caso si concluderà il giorno della domenica dell’ulivo.


Abbiamo camminato come vedete, abbiamo camminato spediti. Un tempo si diceva come un treno poi i treni sono passati di moda eppure nonostante tutto sono tra i mezzi più puntuali di cui disponiamo. Ma quello che conta è che abbiamo camminato sempre nella stessa direzione. Tre anni – due, di cui davo conto, erano quelli svolti nell’esercizio della mia responsabilità compiuta – ma sono tre anni che siamo sulla scena.


Tre anni brevissimi ma allo stesso tempo infiniti fatti di successi, qui non li ricordo,e di fatiche. Lo ripeto per la terza volta: ah, ah, la fase costituente!


Di fatiche: la rottura con Di Pietro, la ricordiamo tutti, ne portiamo ancora qualche livido addosso.


Di sconfitte: le sconfitte referendarie; il 13 maggio che noi ricordiamo come una sconfitta e non ci permettiamo di cambiarne il segno per il solo avanzamento della Margherita. Ma tre anni guidati da una sola convinzione: la convinzione che la politica, certo, non può accontentarsi della testimonianza. Non può non assumere a criterio della propria azione la categoria della vittoria. Sappiamo che le sconfitte sono terribili. Ma sappiamo anche che più terribile di perdere è perdersi, perdere noi stessi.


Ebbene queste giornate, tutte e tre le giornate, mettendoci tutto intero il passaggio di ieri, ci impongono, ci consentono di dire che non ci siamo persi, anzi che ci siamo ritrovati. Noi sappiamo di esserci. Certo se dovessimo cercare traccia della nostra presenza sui giornali oggi vedremmo passati altri davanti a noi (anche ieri il Televideo segnalava la presenza di D’Alema e Boselli), ma sappiamo che quello che conta è innanzitutto la nostra convinzione.


Abbiamo bisogno di un solido punto di appoggio su cui cercare l’apparenza. Sappiamo anche che l’apparenza da sola è una categoria, uno strumento della politica. Non inseguiamo illusioni di solitarie essenze. Tuttavia sappiamo che l’apparenza che non si fonda su una verità, che non si fonda su una presenza, è destinata a dissolversi prima o poi e il più delle volte prima piuttosto che poi. E noi ci siamo ritrovati, noi ci siamo riscoperti perché abbiamo accettato il rischio di perdere.


Senza l’accettazione del rischio di perdere non si conseguono le vittorie. Lo dicemmo nel momento in cui di fronte a una tranquilla accettazione di disfatta, perché questa era la situazione di partenza pre 13 maggio, noi rifiutammo la categoria della sconfitta onorevole. Dicemmo si può conseguire una vittoria. Può accettare come onorevole una sconfitta solo chi si è battuto per la vittoria. E noi ci siamo battuti per la vittoria e in nome di questa convinzione abbiamo conquistato sotto la guida di Francesco Rutelli nuovi consensi al progetto dell’Ulivo, nuovi consensi al programma dell’Ulivo.


Abbiamo conquistato e rafforzato la domanda di Ulivo. Ieri l’abbiamo vista tra la gente. Ed è la decisione di perderci, di mescolarci tra la gente, che ci ha consentito ieri, di segnare nella nostra agenda, quella giornata, come associata al massimo di presenza e al minimo di apparenza. Ed è anche grazie a questa nostra determinazione che ieri abbiamo visto tornare l’Ulivo. I giornalisti mi chiedono: ma vi siete sorpresi per le presenze? No, non ci siamo sorpresi; tralasciamo le discussioni sulle quantità, noi conoscevamo la presenza del fiume carsico che scorreva sotto, sapevamo che il fiume ogni tanto riappare. Non riappare solo in occasione delle elezioni, a comando; riappare in occasione delle elezioni, è riapparso in occasione delle elezioni, solo perché ha una forza propria che si sviluppa e travolge anche le nostre esitazioni. Ieri ci siamo messi al servizio, ancora una volta, di questa domanda e mescolandoci come Ulivo tra la gente abbiamo interpretato e ci siamo sentiti riconosciuti in questa nostra lettura, in questo nostro impegno. E questo è stato grazie a tutta la nostra azione.


Lo voglio ricordare. Voglio ritornare a 40 mesi fa, quando la bandiera dell’Ulivo fu ammainata, quando la bandiera di una difficile unione, perché questo era l’Ulivo una difficile unione, fu sostituita dal progetto di una pacifica divisione. Se oggi l’Ulivo è tornato in piazza, è tornato fra la gente – non è tornato oggi, lo sappiamo – se nonostante tutte le prove è ancora forte fra la gente questo è anche grazie a noi, è grazie alla nostra azione.


I giornali non lo dicono ma noi lo sappiamo e lo sanno i cittadini che ieri ci hanno salutato, mettendo fra parentesi anche le punture puntute che sono associate al nome dei Democratici e agli zoccoli dell’Asinello. I Democratici non c’erano ieri, ma noi sapevamo di esserci. Sapevamo di aver vinto perché uno di noi, Francesco Rutelli, parlava non a nome nostro, ma a nome di un progetto nuovo e allo stesso tempo del progetto di sempre: l’Ulivo.


Ma non è di questo cammino, del cammino di questi tre anni che noi dobbiamo prendere coscienza. Noi dobbiamo riprendere coscienza del cammino molto più ampio nel quale questi tre anni sono collocati, e soprattutto del cammino che ci attende. Un cammino che è appena iniziato. Io vorrei che questo fosse chiaro.


Il tempo, il nostro tempo, il tempo per il quale e nel quale ci spendiamo, non è un tempo che si calcola in settimane e neppure in mesi, esso è un tempo che si calcola ad anni. Il tempo è un tempo che certamente ha registrato nell’89 un’accellerazione, ma è un tempo che cammina col passo di una generazione.


La generazione che è stata chiamata – lo ricordavo a Milano in un passaggio durante l’ultimo coordinamento regionale – la generazione dei successori, quelli che sono nati dopo il ’45. Quella generazione che ha preso la parola all’interno del processo democratico per la prima volta nel passaggio 74-78 o più semplicemente nel 75 quando fu affidato il voto ai diciottenni, attraverso quello che fu chiamato il terremoto del 15 giugno. La generazione che fu inaugurata appunto dalla leva del baby-boom del dopoguerra.


Io sono sicuro che questa generazione – una generazione alla quale in termini anagrafici io non appartengo, ma con la quale ho sempre camminato, una generazione che sento rappresentata compiutamente da Francesco Rutelli, che è nato appunto negli anni cruciali, negli anni centrali, nell’anno mediano dell’arco generazionale di 25 anni – sono sicuro, dicevo, che questa generazione concluderà il proprio impegno seguendo tutto intero il processo, anche la lunga adolescenza a-politica, pre-politica, anti-politica.


Un’adolescenza che sentiamo riaffacciarsi anche in alcune delle voci che oggi hanno ripreso la parola sulle piazze; un’adolescenza che si riconosce ed è riconosciuta nella generazione dei figli, perché nel frattempo è già scesa in campo la generazione dei figli, la generazione di Genova. Io sono sicuro che questa generazione raggiungerà l’età della pensione avendo portato a compimento non solo tutto il suo itinerario, ma il processo, che la chiama ad essere protagonista di quella creazione, di quella costruzione dell’Italia come Paese “normale” al quale abbiamo intitolato il progetto dell’Ulivo stesso.


Ed è perciò che dobbiamo ritornare un momento al progetto. Lo avevo sentito negli ultimi interventi. Vorrei che fosse a noi chiaro, nel momento in cui lo abbiamo rimesso all’inizio e a conclusione del nostro cammino “Ulivo-Margherita, Margherita-Ulivo”: due volte Ulivo, due volte Margherita, per segnalare appunto le cadenze e le scansioni, il senso del tempo e del cammino. Vorrei che ricordassimo a noi stessi – l’ho ricordato, mi scuserete se mi ripeto – che l’Ulivo per il quale noi siamo scesi in campo non ha fatto in tempo ad esistere, non è mai esistito.


Ognuno di noi certo ricorderà i propri tre mesi, i propri sei mesi, il proprio mese, la propria settimana, quando andasse a contarla esattamente, in cui riconobbe e si riconobbe l’Ulivo, ma nè tre mesi nè una settimana, nè sei mesi e neppure i due anni e mezzo di governo ci consentono di dire che l’Ulivo è alle nostre spalle. L’Ulivo, la forza dell’Ulivo, quello che rende l’Ulivo invincibile è il fatto che “è un segno che incorpora un sogno”. E’ questa la forza dell’Ulivo, quello che lo rende invincibile. Se appena avesse fatto in tempo ad esistere avrebbe le sue rughe e i suoi acciacchi e invece rimane nella sua nitidezza di sogno incompiuto. Il sogno per uscire dal segno di una democrazia governante lo ripetiamo di una democrazia che non si accontenta di rappresentare che mette al centro della sua azione il momento del governo.


E’ questo Ulivo, questa concezione della democrazia che ci spinge a dire che l’Ulivo non è malato, perché sappiamo che se il progetto è stato definito, se il progetto ha camminato all’interno dell’attività di governo, non ha mai fatto in tempo a diventare soggetto; mentre noi sappiamo che i grandi progetti, il grande progetto che ha guidato anche il governo dell’Ulivo, senza un grande soggetto che ne sia il titolare rischia di essere ridotto a una somma di azioni. Una somma di azioni di cui va dimostrata la coerenza, e soprattutto una somma di azioni più o meno casuali, mescolate inevitabilmente a errori, come tutti gli insiemi di azioni, che non assicura in alcun modo che esse possano proiettarsi in modo coerente sul futuro.


Ed è alla ricerca di questo soggetto che dobbiamo spenderci, un soggetto la cui costruzione deve fare i conti inevitabilmente sempre con le fastidiose e infastidite – giustamente fastidiose, giustamente infastidite – obiezioni sulle architetture politiche e istituzionali. Quelle che non interessano alla gente.


Potremmo fare un elenco delle cose di cui si dice “alla gente non interessano”. Potremmo farne un volumetto, come per le barzellette di Berlusconi. “Il conflitto di interessi? Mah, alla gente non interessa” ci si sente rispondere. Male, troveremo il modo di fare interessare la gente al conflitto di interessi. Perché noi sappiamo che questi sono temi decisivi. E sappiamo anche che dietro queste proposizioni c’è il modo obliquo e indiretto per attribuire alla gente profonde convinzioni proprie. E’ una formula che dovremmo abbandonare e individuare in genere come la spia sicura della incapacità e della indisponibilità di un confronto esplicito sulle posizioni politiche.


E’ dunque il soggetto che siamo chiamati a costruire, guidati dalla consapevolezza che solo i grandi soggetti possono rappresentare e garantire i grandi progetti, come il nostro, un progetto che ho appena definito decennale, pluridecennale. Da questo punto di vista giova ricordare l’esperienza della democrazia francese. Ricordare che il compimento del processo – dipende ovviamente da cosa esso assume come punto di partenza e come punto di arrivo – è quasi ventennale. Non sto parlando di categorie metastoriche. Sto facendo riferimento a punti comuni, che forse con l’aiuto degli storici possiamo capire. Guardo direttamente Pietro Scoppola che è qui con noi e che ci è stato maestro durante tutti questi lunghi tredici anni. E’ di questi insegnamenti che abbiamo bisogno per recuperare il senso delle nostre fatiche quotidiane, perché solo questa riflessione ci aiuta a collocarle in una riflessione più grande.


Dicevo allora del progetto. Questo Ulivo nasceva dalla consapevolezza che il bipartitismo imperfetto, quello che aveva dato forma alla Prima Repubblica – non poteva nella democrazia governante trasformarsi in un bipartitismo perfetto attraverso la semplice trasposizione dell’esperienza dei due principali partiti. Non poteva, questo era il punto. Noi sapevamo che il soggetto, titolare di quel grande progetto di salvezza per il paese doveva abitare in una casa nuova. Nessuna delle case esistenti, nessuna, era suscettibile, anche attraverso tutti gli sforzi di miglioramento, a farsi casa di questo nuovo soggetto. Ed è ancora questa la nostra profonda convinzione.


Mentre abbiamo di fronte a noi convinzioni, alcune già sconfitte, guidate da una idea opposta. Quell’idea che ha fissato i termini di riferimento del confronto interno all’Ulivo su “le Cose piuttosto che le Case”.


Dunque una casa nuova, una casa grande capace di accogliere tutte le identità che noi molte volte in forma caricaturale elenchiamo, inventariamo: cattolici-democratici, liberal-democratici, democratici-riformisti.


Ce ne inventiamo anche per l’occasione: “ah, c’è Realacci”, “dove lo metto Realacci?” “Boh”. “Ma Realacci è un ambientalista e quindi va negli ambientalisti”. “Però gli ambientalisti nell’Ottocento non c’erano”. Allora dobbiamo aggiungere anche le nuove tradizioni introducendo una contraddizione in termini. Abbiamo tutte queste formulette.


Dobbiamo dirlo definitivamente: delle buffonate! Dobbiamo alleggerirci definitivamente di queste categorie altrimenti non andiamo da nessuna parte. Le tradizioni e le identità degli apporti e delle voci sono incomparabilmente più numerosi e vanno crescendo.


Già quelle erano delle semplificazioni – un giorno chiederemo a Pietro Scoppola e a quelli che hanno frequentato la storia di raccontarcele concretamente – queste semplificazioni, ipersemplificate poi con l’andar del tempo sono quelle che consentono ai monarchici e ai fascisti di presentarsi insieme alle elezioni inventandosi concretamente una passato comune che era invece un passato di scontri violenti. Come per liberali e repubblicani e un domani anche per comunisti e democristiani, quasi come amici, anzi nemici, che si incontrano all’estero e improvvisamente scoprono che abitavano vicino e quindi in un momento, almeno per un momento, possono mettere tra parentesi le antiche divisioni. O ex combattenti della prima guerra mondiale che si incontrano lungo il fronte: “Ti ricordi quante te ne ho date?”. “Eh sì eravamo nello stesso posto”.


Una strada, insomma, che non ci porta da nessuna parte. Prima ce ne liberiamo e meglio è.


Eviteremo di scrivere inutili storie, ahimè le carte dei principi. E lo dico mentre partecipo alla sua stesura.


Inutili progetti costruiti come abitini che debbono rivestire dei fisici malformati, con una, due gobbe. Certamente abiti che nessuno mai troverà in un grande magazzino.


Questa è la nostra missione: costruire una casa nella quale possa trovare posto anche l’immigrato marocchino senza essere costretto a rispondere alla domanda “ma sei un liberaldemocratico o un laico riformista?”


Ed è in nome di questa ricerca, di questa convinzione che i Democratici sono scesi in campo, dando vita al primo girotondo, un girotondo che ha fatto anche girare la testa. Non so se il girotondo fosse intorno a Palazzo Chigi o ad altri Palazzi. Però possiamo dire che fu il primo degli ultimi girotondi, quelli che hanno rappresentato la loro ostinazione. Un’ostinazione che oggi ha preso la parola su altre bocche, mescolandosi ad altre voci. Questo lo dobbiamo ricordare a chi allora tacque, a chi partecipò, a chi si accomodò al disegno di dissoluzione dell’Ulivo ed anche a chi fece sapere che sarebbe stato con noi… il giorno dopo. Questa è una categoria che, ahimè, dobbiamo ricordare perché la ritroveremo:quando parte un impresa c’è sempre qualcuno che dice “sì, sì, molto interessante, sarò con voi”,…ma il giorno dopo. Naturalmente sempre in nome di un’ impresa più grande.


Ma è a questo progetto di cui ho detto che dobbiamo essere fedeli, nella consapevolezza che questo è un progetto e un processo lungo, ancora lontano da arrivare a compimento. Un progetto nel quale regole, progetto, soggetto sono tre passaggi. La costruzione delle regole è la premessa della possibilità di pensare un nuovo progetto. Il progetto è la modalità attraverso la quale si costruisce un nuovo soggetto. Questo sì è un processo di apprendimento al quale ci ha invitato Berlusconi. Lo dico nel mentre rigetto – dobbiamo rigettare evidentemente in modo sdegnato – la pretesa di Berlusconi di insegnare a noi cosa sia una democrazia parlamentare. Perché sappiamo che lui e molti dei suoi, devono apprendere ancora che cosa sia una democrazia tout court. Però sappiamo che il processo di apprendimento, di passaggio, dalla democrazia della Prima Repubblica alla democrazia governante è ancora lungo e che tutti siamo coinvolti in quest’apprendimento. Lo sappiamo.


Il tema che giustamente è stato ricordato della inesistenza delle opposizioni, di uno spazio, di uno statuto per le opposizioni, non è un tema esclusivo del governo centrale. Attraversa tutto il sistema. Dai consigli comunali, ai consigli regionali. Quelli in cui governiamo noi, l’Ulivo, e quelli in cui governano gli altri. In tutti i livelli noi sappiamo che dobbiamo costruire quella democrazia che non ha più l’intermittenza della delega contro la quale ci siamo battuti, che chiamava sostanzialmente i cittadini a farsi contare ogni cinque anni, ma che rischia di essere peggio, perché trasforma gli anni del governo della democrazia governante in anni di solitudine che annullano la presenza e la dialettica dell’opposizione. Ed è in nome di questo che noi siamo stati chiamati, ed è in nome di questo che abbiamo risposto alla provocazione, alla domanda che ci ha portato ieri a rappresentare nelle piazze quella opposizione che in Parlamento non siamo riusciti a manifestare e a comunicare sufficientemente.


Ed è a questa costruzione che noi abbiamo legato tutto il nostro percorso. Noi sapevamo che il nostro percorso – l’ho detto all’inizio citando al carta costituente – aveva ed ha come punto di riferimento una tensione conclusiva che guida tutta la nostra azione. Ma sapevamo – l’abbiamo scritto con chiarezza anche in un passaggio nel quale anche molti di noi erano tentati dalla solitudine, dalla purezza della solitudine, tutti lo scrivemmo, c’era anche Di Pietro in quel momento – che non ci saremmo potuti attestare su una posizione di attesa, ma avremmo dovuto cercare e costruire tutti i passaggi intermedi purché effettivamente finalizzati all’approdo conclusivo. Ed è in nome di questo che ponemmo il problema a Torino. Ed è in nome di questo che avendo registrato un no, nella prima assemblea cui facevo riferimento, prendemmo l’impegno che oggi sciogliamo, cui oggi adempiamo: quello di realizzare aggregazioni più grandi di unità riformista.


Comunque alla consapevolezza che non potevamo affidare a piccoli partiti grandi progetti senza il rischio che essi si trasformassero in piccoli progetti. L’abbiamo visto anche ieri sul palco: chiamati a dare la parola ai piccoli partiti abbiamo ascoltato delle verità parziali, di cui una sonoramente fischiata, che chiamate a rappresentarsi e ad essere rappresentate perdono la loro capacità di comporsi in una sintesi comune.


Ed è a questa Margherita, questa che chiamiamo per la prima volta una formazione di unità riformista, una Margherita nuova, aperta, che abbiamo orientato tutto il nostro cammino in questi mesi. Ripercorriamo tutte le assemblee delle regioni, faticosissime, nelle quali ci siamo dovuti conquistare uno all’altro per andare nella direzione comune. Tutti ricorderanno le proprie esitazioni. Le esitazioni che ancora echeggiano nel nostro animo. Una Margherita appunto, unita, nuova, aperta, dicemmo. In questa Margherita per l’Ulivo, noi impegnammo il nostro uomo migliore: Francesco Rutelli. Alla costruzione di questa Margherita i Democratici hanno dedicato tutto il proprio impegno: primo sciogliendosi per primi – ricorderemo l’assemblea delle Regioni di giugno – mettendo a disposizione tutte le nostre risorse, spingendo perché i tempi fossero realizzati. Anche la determinazione a voler svolgere questa nostra assemblea per primi, nella sequenza delle assemblee che dovranno preparare il congresso costituente della Margherita, è l’espressione di questo disegno.


Abbiamo lavorato per costruire in Europa le condizioni che ci riparassero dal destino di essere pensati come una espansione del Partito Popolare, ahimè non più italiano, ma addirittura europeo. Abbiamo coinvolto nella nostra appartenenza all’Eldr Rinnovamento Italiano per assicurare, per mantenere aperta anche attraverso l’offerta della candidatura e poi dell’elezione della vicepresidenza a Dini, una scelta che è ancora tutta nelle nostre mani, l’unica scelta che ci riserviamo e che resta affidata alla guida politica e del gruppo parlamentare che opera nel parlamento Europeo e del Movimento, di ciò che rimarrà del Movimento dopo l’eventuale approvazione della mozione che vi sottoporremo alla fine di questa assemblea straordinaria.


Certo qualcuno può pensare, lo ha pensato e lo ha anche detto, che i Democratici non hanno scelta, perché non hanno nulla da perdere: oltre a conseguire il loro scopo sociale, possono mascherare la loro contemporanea dissoluzione. Noi invece abbiamo dimostrato in questi giorni, lo abbiamo dimostrato a noi stessi ma soprattutto agli altri, che avevamo e abbiamo qualcosa da perdere! Quindi per lo stesso motivo per il quale noi ci impegniamo e ci siamo impegnati per la nascita, per la nascita sollecita, compiuta, aperta della Margherita, ci sentiamo impegnati perché quella che nasce non sia una Margherita qualsiasi, ma quella Margherita che noi riteniamo essere aperta a quel progetto più ampio, che è il punto di partenza ed è il punto di arrivo della nostra iniziativa.


Ed è a questa Margherita che noi conferiamo tutta intera la nostra tradizione, ed è in questa Margherita che porteremo tutti i nostri valori: la nostra determinazione ad essere movimento; a non pensarci arrivati come capita, senza esser neppure partiti, appunto ai partiti; il nostro rifiuto della solitudine, quella che ci è costata tante prove in questi anni. La nostra determinazione a rimanere uniti. I Democratici certamente saranno ricordati per la loro presenza spesso importuna, ma nessuno potrà ricordare una dissociazione dei Democratici dall’unità della coalizione di centrosinistra. Noi votammo con disciplina il Governo D’Alema 1. Ed in nome di questa ritrovata unità accettammo di pagare prezzi di incomprensione fra di noi, nel momento in cui decidemmo di entrare nel Governo D’Alema 2, abbandonando la comoda posizione di un soggetto esterno che attendeva la coalizione al varco. In nome dello stesso principio di unità siamo entrati nel Governo Amato, pagando il prezzo della rottura con Di Pietro; in nome della coerenza alla concezione bipolare e allo stesso tempo della coerenza all’idea di unità per la quale noi eravamo e ci sentiamo in campo.


Ma è soprattutto la novità. La novità dei Democratici è qui, nei nostri volti, nei nostri nomi, a cominciare da quello di Francesco Rutelli. La impossibilità di essere raccontati con le categorie del passato. Noi siamo stati la prova che c’è stata una stagione che si è chiamata Ulivo, siamo stati la garanzia che questa stagione si sarebbe riaperta. Quando qualcuno al congresso di Pesaro mi chiese: “ma qual è la differenza tra i Democratici e i Ds?” “E’ innanzitutto nei nostri volti. Guardate le storie della nostra delegazione: ex comunisti; ex democristiani; cattolici che nella lettura del Concilio non hanno ritenuto di impegnarsi nella Democrazia Cristiana e tuttavia hanno mantenuto la barra sempre e permanentemente orientata alla costruzione di un sistema che non fosse costruito sulla pregiudiziale antidemocristiana, pensata come sostitutiva della antica conventio ad escludendum del Partito Comunista”. Tra noi anche ex leghisti, e colgo l’occasione per salutare Marco Formentini, che avevano raccolto e interpretato all’interno del movimento della Lega la domanda di cambiamento e di rinnovamento di cui essa era stata portatrice nella sua prima fase. Tutti uniti dalla categoria del progetto, dalla stessa idea di democrazia. Durante questi anni non ci sono state divisioni fra di noi. E questo il patrimonio più importante, la testimonianza che noi portiamo all’interno della Margherita. Vogliamo essere all’interno della Margherita, quel lievito, quel segno di partecipazione, quello strumento che dà la prova che l’Ulivo è una esperienza, una possibilità, un soggetto a portata di mano, perché appunto nella nostra esperienza noi abbiamo costruito quel soggetto.


All’inizio della vicenda de i Democratici scrivemmo uniti per unire. Ce lo ha ricordato anche Romano Prodi nel suo saluto. Forse lo scrivemmo con facilità, ma anche allora non lo immaginammo come uno di quei motti alla D’Artagnan: “uno per tutti, tutti per uno”. Ma lo pensammo come un’unità più ampia da aprire oltre le forze che si erano incontrate in quel momento all’interno dei Democratici per la costruzione di un’aggregazione sempre più grande.


Ed è quando siamo stati capaci di interpretare questo spirito che siamo stati premiati. Ed è quando siamo stati capaci di interpretare questo spirito che siamo stati chiamati, nonostante le nostre asprezze, a interpretare l’unità. Quando fu chiamato in campo Romano Prodi; quando è stato chiamato Francesco Rutelli pur nella consapevolezza che era un Democratico; quando – se mi consentite – sono stato chiamato al collegio 12, dal collegio 12, a interpretare l’unità dell’Ulivo, in un collegio di frontiera, nel momento di massima tensione interna alla coalizione; e ancora oggi quando Albertina Soliani viene chiamata a Parma e Roberto Reggi a Piacenza, da Democratici, a interpretare e a guidare la battaglia unitaria di tutto l’Ulivo, con la consapevolezza, lo dico ad Albertina per ricordarcelo reciprocamente, che noi siamo sicuri di vincere, ma siamo sicuri che se non si dovesse vincere si cresce, perché è questa linea quella dell’unità, che permette alla coalizione di crescere e avanzare.


Ed è in nome di questo che noi dobbiamo ricordare a noi stessi, quasi seguendo e forzando un precetto evangelico, che se cerchiamo l’Ulivo tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù. Perché questa è la lezione di tutti questi appuntamenti. I nostri voti di parte, ci sono arrivati in quanto siamo stati identificati come capaci di interpretare il tutto. Daremo vita presto ad un seminario di ricerca all’interno della Margherita che dimostrerà l’importanza di questa lettura anche per la Margherita.


So che dobbiamo fare i conti, giustamente, partendo dall’attuale legge elettorale che ci costringe a farci carico della parte proporzionale oltre che della maggioritaria, e quindi a costruire su una giusta interpretazione di queste due norme la ricerca della vittoria. Ma non dobbiamo dimenticare che per la nostra gente la locomotiva del voto è il maggioritario. Sempre e dovunque: nei comuni in cui abbiamo vinto e nei comuni in cui abbiamo perso, è il voto maggioritario il punto di riferimento fondamentale del nostro elettorato e ancor di più dell’elettorato della Margherita piuttosto che quello de i Democratici.


Questa è una verità che non può farci dimenticare anche la capacità di adattarsi, di interpretare la pluralità, di fronteggiare la capacità della parte a noi contrapposta, con moduli non troppo dissimili da loro perché nel bipolarismo non è consentito alle due parti essere troppo diverse tra di loro.


Ed è in nome di questo che noi dobbiamo riproporre e far sentire la nostra voce – come già ieri ha fatto Francesco dal palco a San Giovanni – contro due rischi. Due rischi grandissimi che sono presenti nella nostra azione: uno la interpretazione della Margherita come seconda gamba. L’idea doppiogambista della Margherita. Un’idea che reintroduce quell’idea di pacifica divisione che stava alla base del fallimento dell’Ulivo. E qui debbo ritornare a parlare in latino ricordando appunto che non progredist est non regredit. E’ senza questa tensione verso una progressione ulteriore che permette al passaggio di non perdere il proprio valore, per il solo fatto che è proteso verso un futuro, che saremmo costretti a tornare indietro. Questo è il punto. Cercate di immaginare che cosa succederebbe se noi perdessimo lo specifico di questa tensione unitiva. Per prima cosa darebbero di noi inevitabilmente una definizione negativa, “i non Ds”. Perché questo è il primo passaggio: la incapacità di essere quelli dell’Ulivo, trasformerebbe immediatamente la Margherita in un non Ds. E poi inevitabilmente all’interno della Margherita questo fermarsi al presente, o peggio retroagire sul passato manterrebbe in vita le differenze tra le origini diverse che sono alla base della sua nascita; senza parlare della distinzione laici cattolici che noi Democratici abbiamo completamente superato non dimenticando il rispetto dei rispettivi sistemi valoriali, ma con la consapevolezza che noi dobbiamo costruire ed alimentare un progetto più grande.


E poi una divisione del campo rischierebbe di portare l’intera Margherita fuori dal quadro dell’Ulivo. Ed è perciò che io debbo ricordare che nel ciclo regole, progetto, soggetto, se – Dio non voglia, ma gli uomini, e qualche uomo già lo vuole – si dovesse prospettare un ritorno al proporzionale, quello che è un rischio diventerebbe immediatamente realtà. E anche la nostra tentazione, il nostro egoismo di parte all’interno dell’Ulivo potrebbe farci interessati, cointeressati a un arretramento in nome della ragionevolezza e del senso della realtà.


Ed è per ciò che ritengo che questo sia un pericolo grandissimo. Ed è per ciò che noi siamo rasserenati, tranquillizzati dal fatto che sappiamo che dentro la Margherita, la nostra idea di Margherita, ha fatto passi in avanti. Ma sappiamo anche che ancora deve farne ed è in nome di questo che noi ci sentiamo impegnati e vigili nella costruzione della Margherita come condizione del rilancio dell’Ulivo.


Il secondo rischio è quello dell’abbandono totale dell’idea della costruzione del soggetto attraverso un ripiegamento irenico sul tema del progetto. Questo è un rischio gravissimo che noi corriamo. Immaginare, illuderci che la semplice elaborazione di una piattaforma progettuale all’interno del Parlamento possa essere sostitutiva della necessità di costruire un soggetto nuovo unito, che superi differenze, contrapposizioni, divaricazioni tendenzialmente presenti all’interno della Margherita.


Questi sono i due poli all’interno dei quali noi siamo costretti, prima ancora che chiamati, a cercare appunto la costruzione di una Margherita ulivista. Una Margherita per l’Ulivo, ho detto, una Margherita che anticipa al suo interno l’Ulivo. Una Margherita che accetta anche il rischio della competizione come hanno prefigurato e riconosciuto D’Alema e Fassino a Pesaro, rifiutando ogni ripartizione meccanica degli spazi che non è praticabile, ma non la traduce in una competizione quantitativa che affida al risultato dei numeri nella prima elezione disponibile – che siano amministrative od altro c’è sempre una prima elezione disponibile – la preminenza o la pretesa di una egemonia che sia tentata dall’idea e dalla tentazione di sostituire una egemonia con un’altra egemonia. Ma una emulazione a chi costruisce al suo interno, a chi anticipa al suo interno per primo lo spirito dell’Ulivo.


Ed è per ciò che siamo chiamati a costruire l’Ulivo, nel mentre costruiamo una Margherita ulivista siamo chiamati a costruire l’Ulivo. Qui non c’è molto da inventare. Voi sapete che si è aperto un dibattito sulla federazione, grazie a una precipitazione fortunosa e fortunata. Grazie a un passaggio che rischiava di essere catastrofico, si è riaperto il discorso che si era interrotto a Torino. Noi siamo chiamati a coglierlo tutto intero, guidati dalla stessa idea che abbiamo scritto nella carta costituente. Uso la metafora europea: così come l’Europa si definisce una comunità di popoli, di Stati di popoli, la costituzione dell’Ulivo è chiamata a riconoscere l’Ulivo come una comunità di partiti e di cittadini e che in nome di questa definizione deve inventare una forma totalmente nuova dello stare insieme. Qui non ci sono molte idee da inventare, bisogna semplicemente farle. Da questo punto di vista ogni ora, è un’ora in ritardo.


Ed è a questo punto, perciò, in nome di questi impegni, che io vi chiedo di confermare la delibera dell’assemblea ordinaria delle Regioni, che ci invita ad andare avanti. Lungo lo stesso cammino, per la costruzione della Margherita e attraverso la costruzione della Margherita, per il rilancio dell’Ulivo.


Ed è in nome di questo che io chiudo esattamente come ho aperto assicurandovi che questo non è un addio. Noi ci terremo per mano con le bandiere della Margherita, dentro alla Margherita e dentro all’Ulivo esattamente come abbiamo fatto ieri durante la manifestazione. Ci terremo spalla a spalla, andremo avanti, non più ingessati dalle nostre forme organizzative di partito o partitino, ma guidati lungo lo stesso cammino lungo il quale abbiamo camminato durante questi anni. Forti solo della nostra linea politica e del nostro posizionamento politico.


Come dicemmo all’inizio del nostro cammino: al centro del centrosinistra non il centro del centrosinistra. Anche dentro la Margherita noi abbiamo dimostrato

che è possibile svolgere questa funzione di frontiera e perseguire questa vocazione. Da questo punto di vista voglio assicurare alla stampa, se qualcuno mi segue ancora, che noi non riporteremo l’Asinello nelle stalle. Come dicemmo a giugno, l’Asinello sarà libero, anzi correrà con gioia e con maggiore forza fra le Margherite e fra gli Ulivi perseguendo la sua vera, la sua antica ostinazione. Grazie.