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17 Dicembre 2003

E il Cavaliere tornò a dire: “e io cosa c’entro?”

Autore: Gian Antonio Stella
Fonte: Corriere della Sera

«La Gasparri? E io che cosa c’entro?». Conversando amabilmente terreo coi giornalisti, l’altra sera, dopo la decisione di Ciampi di rinviare alle Camere la legge sulle tivù, Silvio Berlusconi era sinceramente stupito di tutte quelle domande sulle tivù. Certo, lo sa che perfino il suo compagno di salesiani Fedele Confalonieri ha spesso ammesso che «il conflitto d’interessi esiste» e che «lui non può mica risolverlo dicendo “sono affari miei, sarò un autocrate illuminato alla Federico II di Prussia”». Ma proprio non si capacita di come i nemici e addirittura certi amici non capiscano una cosa di tutta evidenza che pure ha spiegato e rispiegato: «La migliore garanzia sono io». Macché: non si fidano. Anzi, arrivano a sospettare d’un altro fenomeno eccentrico che si va ripetendo: ad ogni incrocio di interessi economici o giudiziari, come succedeva con certi attori ai crocicchi stradali nei vecchi film del muto, lui è sempre lì per caso. Di passaggio. Per dannatissime coincidenze che, con le malelingue che circolano, finiscono per danneggiargli l’immagine. Gli è successo, ad esempio, con la legge Cirami sul legittimo sospetto quando, per difendersi dagli attacchi degli avversari che insinuavano fosse una indecenza varata con affannata urgenza dal centrodestra per tentare di cavar d’impaccio lui e Cesare Previti imputati a Milano, fu costretto a spiegare che «l’imparzialità dei giudici è un diritto fondamentale che deve essere garantito a tutti i cittadini». Lo difese a spada tratta, quel progetto. Pur non avendo, precisò, «alcun interesse personale».

Una tesi ribadita con fermezza: «Sono decisioni che spettano al Parlamento e io ne sono completamente estraneo. Tant’è che non ho neanche ben capito i motivi di questa urgenza». E confermata dalle parole del suo avvocato, Niccolò Ghedini: «La Cirami è una legge che ci è passata sopra la testa…». Come la «Gasparri» che, a testimonianza della loro totale estraneità, vide Silvio Berlusconi e Gianni Letta, al momento del varo, uscire ostentatamente dalla sala del Consiglio dei ministri («noi andiamo a farci un giro: fate voi») senza manco sapere cosa c’era in ballo, col rischio che l’esecutivo, vedi mai, se ne uscisse con chissà quale strafalcione…

Per non dire del «lodo Schifani» che sospendeva i processi alle più alte cariche dello Stato. Sarà perché stava abbattendosi a Milano una delle sentenze contro Previti & co., sarà perché non risultavano sotto processo altri presidenti in circolazione, divampò un tale incendio intorno all’idea che si trattasse di una legge «ad personam» che il capo del governo, a costo di far la parte del citrullo tenuto all’oscuro delle cose, fu costretto a dettare a verbale il 17 giugno, all’udienza Sme, poco prima dell’approvazione della legge: «Ho guardato nella mia agenda: se non ci saranno fatti estranei al procedimento, che in questo momento si stanno pur discutendo e a cui non ho dato un parere positivo, perché ritengo che non debba esserci ombra su chi rappresenta il governo del Paese all’Italia e all’estero, ma dato che c’è stata insistenza…». E prese appuntamento coi giudici per la settimana dopo. Che ne sapeva, lui, che la Casa delle Libertà aveva deciso di votare l’immunità che lo metteva al riparo contro il suo parere negativo? Tre giorni dopo il processo, non lo avevano ancora informato: «Sul lodo Maccanico la maggioranza e il governo non hanno ancora preso posizione. Io non l’ho presa». Posizione ribadita in un’intervista a Europe 1 in cui spiegava che lui, di quella legge che gli aveva fatto sfangare i processi, era del tutto ignaro: «È frutto di una iniziativa parlamentare, sostenuta dal presidente della Repubblica». Il quale, vittima in quei giorni di velenosissime insinuazioni della destra su un suo coinvolgimento nell’affare Telekom Serbia, manifestò la sua irritazione così chiaramente che Palazzo Chigi si precipitò a precisare: un equivoco.

Così è fatto, il Cavaliere. Ieri, per esempio, è tornato a ribadire: «Le osservazioni dei tecnici del Quirinale non le ho neppure lette e non le leggerò». Certo, lo sa che Emilio Fede è arrivato a dedicare a lui e al suo governo l’87% degli spazi del Tg4 . Ma lui, dell’ipotesi venga rispettata la sentenza che il 31 dicembre spedisce Retequattro sul satellite (ipotesi che renderebbe il 2004 meno fruttuoso del 2003 e di quel 2002 in cui, mentre tutto il mondo era in crisi nera, gli utili della Fininvest erano cresciuti miracolosamente del 70,8%) dice di voler stare alla larga: «Non me ne voglio occupare». Non aveva forse detto, già otto anni fa, al momento dei referendum sulla tivù commerciale «ormai mi sono staccato dalle televisioni, per me i referendum non hanno importanza»? Macché: non gli credono.

Eppure l’ha detto: «In fondo, avere tre reti televisive mi ha danneggiato». Ridetto: «Trovatemi una segretaria o un telefonista che possa dire che a Palazzo Chigi mi sono occupato della Fininvest». E ridetto ancora: «Non oso telefonare al mio gruppo perché un solo operatore telefonico potrebbe dire “Berlusconi sta chiamando”». L’ha giurato: «Io, uomo delle tivù, sono per essenza l’uomo della democrazia». Rigiurato: «Ci sono le mie garanzie personali: non compirò mai un gesto che avvantaggi gli interessi del mio gruppo». Rigiurato ancora: «La miglior garanzia è quella che può venire dall’impegno, dalla passione civile, dal disinteresse personale che io mi accingo a mettere in questo incarico».

Macché: sospettano di tutto. Anche della nomina di Tony Renis a Sanremo. Tutta colpa di qualche indecisione sparata via via nei titoli: «Sono pronto a vendere le mie aziende, ad andare anche oltre il blind trust americano. La mia vita di imprenditore si sta concludendo». «Non venderò mai le mie televisioni». «Oggi vi annuncio che ho deciso di vendere le mie aziende». «Vendere la Fininvest? Non ci penso nemmeno». «Della Fininvest terrò solo il 30%, una quota di minoranza. S’era pensato anche di vendere tutto ma si sono opposti i miei figli». E tutti lì, a fargli le pulci: e il conflitto d’interessi? E il conflitto d’interessi? E il conflitto d’interessi? Un assedio. Eppure, appena eletto, era stato chiaro: «Ho preso un impegno a dare una soluzione entro i primi cento giorni, cosa che faremo sicuramente. Immagino di poterlo fare addirittura prima delle ferie estive». Mica aveva specificato di che anno.