Vale la pena osservare il naufragio dell’opposizione italiana con
l’aiuto d’un terzo occhio, più ingenuo forse ma più vero: l’occhio che
ci guarda da fuori. Perché il nostro sguardo s’è come consumato col
tempo, se ne sta appeso alla noia, è al tempo stesso astioso e non
severo, collerico e passivo. Non credendo possibile cambiare la cultura
italiana dell’illegalità, siamo da essa cambiati. Se qualcuno
riscrivesse le Lettere Persiane di Montesquieu, racconterebbe il nostro
presente come i due principi Usbek e Rica videro, nel 1700, la Francia
di Luigi XIV: con stupore, senso del ridicolo, e realismo. È quello che
i giornali stranieri hanno fatto negli ultimi giorni: dal New York
Times alla Süddeutsche Zeitung, da Le Monde al Guardian o El País.
Tutti si son domandati, candidamente, come mai tanto clamore sul caos
nel Pd e quasi nulla sull’evento per loro sostanziale: la condanna di
Mills. Come mai Veltroni addirittura si scusava, mentre il capo del
governo protetto da una legge che lo immunizza avallava il più
singolare dei paradossi (il corrotto c’è, ma non il corruttore).
Chi
fuori Italia si interroga ha poco a vedere con la sinistra salottiera o
giustizialista criticata da Veltroni. Naturalmente c’è caos, nel
partito nato dalle primarie del 2007. Ma soprattutto c’è incapacità di
fare opposizione, di dire quel che si pensa su laicità, testamento
biologico, sicurezza, immigrazione, giustizia, per non urtare gli
apparati che compongono il nuovo-non nuovo ancor ieri esaltato
all’assemblea che ha eletto Franceschini segretario provvisorio. Il
partito democratico non è nato mai, e oggi è chiaro che alle primarie 3
milioni di italiani hanno eletto il leader di un partito senza statuto,
senza iscritti, in nome del quale si è distrutto il governo Prodi per
poi lasciare l’elettore solo. Arturo Parisi lo spiega bene a Fabio
Martini: «Quando un partito si costituisce come somma di apparati,
assumendo come premessa la continuità di una storia e di un gruppo
dirigente, ogni scelta rischia di essere o apparire come l’imposizione
di una componente sull’altra e quindi di mettere a rischio la
sopravvivenza del partito». Solo un «partito nuovo, fatto di persone
che decidono ex novo, democraticamente» può riuscire (La Stampa, 18-2).
Solo un’analisi spietata di errori passati: i siluramenti di Prodi, la
fretta di presentarsi da soli, le intese con Berlusconi quando questi
parve finito nell’autunno 2007.
Veltroni ha giustamente difeso,
mercoledì, il «tempo lungo, quello in cui si misura il progetto (…)
che deve convincere milioni di esseri umani». Ma lui per primo ha tolto
tempo al tempo, ha avuto fretta d’arrivare, di esserci. Non è un errore
di anziani ma di cacicchi, che della politica hanno una visione
patrimoniale. L’Ulivo cancella i cacicchi: è stato quindi seppellito. I
cacicchi vogliono il potere, senza dire per quale politica: lo vogliono
dunque nichilisticamente, al pari delle destre. Come scrive Gustavo
Zagrebelsky: lo vogliono «come fine, puro potere per il potere» (la
Repubblica 9-2). Per questo il Pd non ha un leader, che rappresenti
l’opposizione nella società e sia sovrano sulle tribù. Anche qui Parisi
ha ragione: non di facce nuove e giovani c’è bisogno (ci sono giovani
vecchissimi), perché «in politica le generazioni che contano sono le
generazioni politiche». Si capisce bene lo scoramento di Veltroni: le
correnti del Pd e Di Pietro lo hanno logorato. Ma non l’avrebbero
logorato se il suo sguardo si fosse interamente fissato sul fine, che
non era il potere partitico ma la risposta a Berlusconi. Se Di Pietro
non fosse stato bollato, ogni volta che parlava, di giustizialismo.
Naufragi
analoghi si son già visti in Europa, conviene ricordarli. Il socialismo
francese, prima di Mitterrand, era assai simile. La Sfio (Sezione
francese dell’internazionale operaia) fu per decenni un’accozzaglia di
partitelli incapaci d’opporsi a De Gaulle. Oscillavano fra il centro e
il marxismo, un giorno erano colonialisti l’altro no, volevano e non
volevano ampie coalizioni. Erano perpetuamente in attesa, assorti nel
rinvio della scelta: proprio come ieri all’assemblea Pd, che ha
rinviato primarie e nomina d’un vero leader («Perché Bersani non si
candida segretario oggi, e invece rinvia?», ha chiesto Gad Lerner).
Sempre c’era un segretario a termine, guatato da falsi amici. La
parabola fu tragica: nel ’45 avevano il 24 per cento dei voti, nel ’69
quando Defferre sindaco di Marsiglia si candidò alle presidenziali
precipitarono al 5.
È a quel punto che apparve Mitterrand: non
mettendosi alla testa d’un partito ormai cadavere, ma creando una vasta
Federazione a partire dalla quale s’impossessò della Sfio e di tutti i
frammenti e club. Anche la Sfio era un accumulo di clan in lotta.
Mitterrand guardò alto e oltre: l’avversario non era questo o quel
clan, ma De Gaulle e poi Pompidou. In una decina d’anni costruì un
Partito socialista, lo rese più forte del Pc, portò l’insieme della
sinistra al potere.
Prodi ha fatto una cosa simile, battendo
Berlusconi due volte. Anch’egli edificò inizialmente una federazione
(Ulivo, Unione): è stata l’unica strategia di sinistra che ha vinto.
Mentre non è risultata vincente né coraggiosa l’iniziativa veltroniana
di correre da solo, liberandosi dell’Unione. A volte accade che si
frantumi un’unione per riprodurne una ancor più frantumata. Veltroni
osserva correttamente che «Berlusconi ha vinto una battaglia di
“egemonia” nella società. L’ha vinta perché ha avuto gli strumenti e la
possibilità di cambiare dal mio punto di vista di stravolgere il
sistema dei valori e persino le tradizioni migliori» in Italia. Ma che
vuol dire «avere strumenti»? Berlusconi ha le tv ma Soru ha ragione
quando dice che su Internet la sinistra «ha già vinto, anzi stravinto».
Quel che occorre è «lavorare in profondità sulla cultura degli
ignoranti, sulle coscienze dei qualunquisti e battere l’incultura del
nichilismo aprendo dappertutto sezioni di partito e perfino case del
popolo». Berlusconi da tempo inventa realtà televisive, ma è anche sul
territorio che lavora.
Per questo è così importante il terzo
sguardo. Perché da fuori si vedono cose su cui il nostro occhio ormai
scivola: l’illegalità, il fastidio di Berlusconi per ogni potere che
freni il suo potere, il diritto offeso degli immigrati, la fine del
monopolio statale sulla sicurezza con l’introduzione delle ronde.
Perché fuori casa fanno impressione più che da noi certi tristi
scherzetti: sui campi di concentramento, su Obama, sulle belle ragazze
stuprate, sulla gravidanza di Eluana, su Englaro che «per comodità» si
disfa della figlia, sui voli della morte in Argentina: voli concepiti
dall’ammiraglio argentino Massera, membro con Berlusconi della P2 di
Gelli.
Veltroni ha lasciato senza rappresentanza molti italiani
d’opposizione, e il suo monito non è generoso («Non venga mai in nessun
momento la tentazione di pensare che esista uno ieri migliore
dell’oggi»). Per chi si sente abbandonato c’è stato uno ieri migliore,
e la sensazione è che da lì urga ripartire: dalle cadute di Prodi,
inspiegate.
Come nell’Angelo Sterminatore di Buñuel, è l’errore
inaugurale che va rammemorato. In un aristocratico salotto messicano, a
Via della Provvidenza, un gruppo di smagati signori non è più capace,
d’un tratto, d’uscire dal palazzo. È paralizzato dal sortilegio della
non volontà, o meglio della non-volizione. Sfugge alla prigione
volontaria quando ripensa al modo in cui, giorni prima, si dispose nel
salotto. È vero, appena scampato s’accorge che liberazione non è
libertà: anche il vasto mondo è una gabbia, tutti come pecore
affluiscono in una Cattedrale oscura. Ma almeno i naufraghi hanno
sentito una brezza, e in quella Cattedrale potrebbero anche non
entrare, e fuori dal Palazzo il mondo è un poco più vasto.