C’è una cosa di cui si può esser certi,
conoscendo solo un po’ il carattere sanguigno del personaggio e ciò che
pensa dei primi passi del nascente Partito democratico: e cioè, che
quello che in queste ore sta davvero mandando fuori dai gangheri
Pierluigi Bersani, è la pioggia di complimenti (provenienti soprattutto
dalle file del suo partito, Fassino in testa) per la “saggezza” e il
“senso di responsabilità” dimostrati con l’annuncio che non si
candiderà alla guida del Pd in competizione con Walter Veltroni e con
chi altro, magari, deciderà di provarci. Quelle dichiarazioni, quei
complimenti gli hanno dato sommamente fastidio. E uno sopra tutti:
quello di Piero Fassino.
E’ al leader diessino più che a
chiunque altro, infatti, che Bersani rimprovera il mancato decollo di
una candidatura mai nata davvero, nonostante appelli e incoraggiamenti
dai settori più diversi della società civile. Ed è a lui, più in
generale, che contesta di aver messo fin dall’inizio il treno del Pd su
un binario sbagliato. E’ questa la ragione del malessere che si cela
dietro le due frasi chiave della lettera aperta (inviata non a caso ai
suoi sostenitori e non al suo partito o addirittura al segretario del
suo partito) con la quale il ministro per lo Sviluppo economico ha
annunciato che non sarà candidato alle primarie del prossimo 14
ottobre.
Con la prima frase, relativa ad una sua possibile
candidatura, spiega: «Per come si sono svolte le cose, quello che
avrebbe potuto essere un arricchimento del nostro percorso rischierebbe
di diventare un elemento di disorientamento». Con la seconda,
indirizzata ai Ds, invece, accusa: «Io stesso ho pensato a come il
nostro primo passo avrebbe potuto essere diverso e diversamente
innovativo anche per la tradizione politica a cui appartengo». Con chi
ce l’ha, e perché?
Dicevamo Fassino. «Piero avrebbe potuto
almeno attendere che Veltroni accettasse la candidatura, prima di
imporre il suo altolà un po’ stalinista esplicitato con il famoso -se
Veltroni sarà candidato tutti i Ds saranno con lui-…», spiegano
dall’entourage di Pierluigi Bersani. Non solo. Perché se la sua prima
dichiarazione non era stata sufficientemente chiara, il giorno
antecedente il discorso di Veltroni al Lingotto – fanno notare dalle
parti di Bersani – il segretario diessino si incaricò di chiarirla: «Io
penso – disse infatti martedì 26 giugno – che personalità come Bersani
e Letta possano concorrere, insieme a me e a tanti altri, a sostenere
Veltroni…». Che senso avrebbe allora potuto avere – se non quello,
appunto, di «disorientare» – una candidatura-Bersani in aperto
contrasto con le indicazioni del segretario del suo partito?
Alla
fine, dunque, il ministro per lo Sviluppo economico s’è fermato. Due
tre colloqui per aver conferma dell’inevitabilità della decisione ormai
maturata e poi l’annuncio che non scenderà in pista: con quel micidiale
«il nostro primo passo avrebbe potuto essere diversamente innovativo
anche per la tradizione politica cui appartengo».
Invece, è
questa la constatazione fatta da Bersani, ha prevalso il riflesso
condizionato all’unità, l’appello a non dividere le forze, l’invito a
serrare le file affinché il primo segretario del Pd sia – e per
plebiscito – un uomo proveniente dalle file dei Ds. Il che, ovviamente,
è importante anche per Bersani: ma non certo sufficiente. «Di questo,
lui è realmente amareggiato», confida Nicola Latorre, dalemianissimo
membro della segreteria diessina. «Ci ha spiegato: “Io ritengo di poter
rappresentare esigenze che Walter non garantisce appieno e non capisco
dov’è il reato, se decidessi di candidarmi. E’ un modo anche per
allargare l’area del consenso al Pd… Invece Fassino ha già chiuso le
porte annunciando che tutti i Ds sosterranno Veltroni, che è una cosa
dell’altro mondo”…». E di fronte a qualche compagno di partito
avrebbe aggiunto: «Allora ci vada lui in Veneto e Lombardia a spiegare
a imprenditori e ceti produttivi che la scelta del sindaco di Roma è un
segnale di attenzione verso il Nord…».
E’ evidente che la
scelta di Bersani – e soprattutto l’animo che la sottende – rappresenta
un’altra grana di non poco conto per Walter Veltroni. E non è l’unica
emersa ieri. Anzi, a ben guardare, ancora più insidiosa è la polemica
sviluppata da Arturo Parisi direttamente nei confronti del sindaco di
Roma, reo di sostenere il referendum elettorale ma di non firmarlo con
la motivazione che «sono candidato alla guida di un partito collocato
in una maggioranza in cui ci sono opinioni diverse».
La replica
del ministro della Difesa, ulivista della prima ora, è al vetriolo: «Se
candidato alla guida significa candidato a guidare, a scegliere, non
riesco a capire perché Veltroni decida di farsi guidare invece che
guidare… Il Veltroni che serve all’Italia è uno che espone la sua
linea e su questa cerca il consenso, non un candidato che si propone
fin dall’inizio come il candidato di tutti e di nessuno».
Il
rilievo è pesante perché punta dritto al cuore delle due questioni che,
a detta di alcuni, rappresenterebbero il vero tallone d’Achille di
Walter Veltroni: la ricerca dell’unanimismo e, dunque, la
predisposizione verso posizioni generiche – se non proprio ecumeniche –
capaci di non scontentare nessuno. Un limite che potrebbe rivelarsi
effettivamente pesante, se non superato, a fronte delle scelte da
compiere da oggi ai prossimi mesi. Riuscirà Veltroni ad assumere il
piglio «decisionista» indispensabile per riportare un minimo d’ordine
nel centrosinistra? E poi: solleciterà effettivamente candidature
alternative alla sua per le primarie di ottobre? A questa seconda
domanda potrà forse rispondere la riunione che il «comitato dei 45»
terrà domani per definire le ultime regole in materia di primarie e
candidature. Per la prima, invece, occorrerà più tempo. Ammesso che
Veltroni – per il possibile precipitare di alcuni fatti di governo –
abbia il tempo necessario almeno per tentare l’indispensabile
trasformazione.