7 Novembre 2004
“Vinceremo con i nostri valori, e un leader forte, Prodi”
Autore: Pasquale Cascella
Fonte: l'Unità
ROMA «Altro che congresso inutile: tutto quel che sta accadendo intorno a noi dimostra quanto sia importante che la più grande forza dell’opposizione discuta apertamente, metta in campo idee ed elaborazioni che coinvolgano l’insieme dei militanti sul futuro della sinistra». Massimo D’Alema ci ha messo del suo: l’analisi sull’esito del voto americano ha riacceso discussioni e contrasti. «Discuterne apertamente, confrontarci liberamente – dice il presidente dei Ds – può farci solo che bene. Ne potremo uscire tutti più forti».
D’Alema, se voleva dare uno scossone al dibattito congressuale c’è riuscito, a giudicare dal vespaio di polemiche. Obbiettivo centrato
«Ma no. E’ compito della politica chiedersi come e perché negli Usa abbia vinto questa destra che pure dà risposte fallaci e illusorie a bisogni in tutta evidenza diffusi e di massa. Questo ho fatto, e mi dispiace che alcuni compagni abbiano ceduto a qualche riflesso polemico prima ancora di approfondire la sostanza politica della riflessione…».
D’Alema, scusi il bisticcio, ma «Basta con i girotondi» non basta
«Ma quello è un titolo, e non si polemizza con i titoli dei giornali. Non ho mai detto “Basta con i girotondi”, così come non ho mai detto “Bisogna andare al centro», espressione di cui non si comprende neppure più bene il significato. Non mi si può far dire che il fatto che Gorge W. Bush abbia vinto significa che abbia ragione e che invece J.F. Kerry solo per aver perso abbia torto. È una caricatura, persino personalmente offensiva, di tutt’altre posizioni politiche. Ho semplicemente detto, e dico, che la vittoria Bush, tanto più a fronte della battaglia strenuamente combattuta da Kerry e dai democratici, pone grandi interrogativi».
Affrontiamoli. A cominciare da quello sulla grande partecipazione al voto, che però ha premiato Bush anziché il candidato democratico che aveva puntato proprio sui nuovi elettori. Una sorpresa
«Per l’esattezza ha premiato anche Bush. Evidentemente accanto ai democratici si è mobilitata un’America più viscerale ma non per questo meno reale. E’ un punto d’analisi inedito sulla natura di questa destra. Ci dice che ha radice profonde, rappresenta una identità, riflette sentimenti, fa leva sulle paure scatenate dalla minaccia del terrorismo, sempre incombente dopo l’11 settembre, e raccoglie il bisogno di certezze e di sicurezza».
Ma quale sicurezza può dare la guerra
«Nessuna, lo sappiamo. Ma, attenzione, il tema è la guerra per noi, per la sinistra. Ma nelle elezioni americane il tema è stato quello della sicurezza collettiva e individuale rispetto a un fenomeno, come il terrorismo, che ha mutato la vita e la psicologia di milioni e milioni di persone. Se si dà la sensazione che il terrorismo non è un problema ma una sorta di complotto, e che il problema vero è solo la guerra, si finisce per dare una risposta inefficace alla domanda reale di sicurezza. Mentre la destra offre e si mobilita su una risposta persino ideologica».
Un paradosso questo invertirsi delle parti nell’era della fine delle ideologie
«Così è. La destra ha fatto dell’Occidente una ideologia, ha evocato il fondamentalismo religioso richiamandosi a una sorta di chiesa delle crociate per legittimare l’uso della forza e mostrarsi come la più determinata nella guerra. E’ una risposta sbagliata, distorta, inefficace. All’orrore del terrorismo fondamentalista si contrappone l’errore della guerra unilaterale. Ma, per quanto erronea e controproducente sia questa risposta, da doppio Stato che difende la sicurezza e i diritti degli occidentali ma impone agli altri popoli la legge del più forte, è stata data».
Ma i democratici americani e, più in generale la sinistra, anche nel nostro continente, sono in grado di dare una risposta più efficace
«Il problema è che nella campagna elettorale dei democratici non è risultata sufficientemente forte una risposta alternativa allo stesso problema. Al dunque, il voto si è risolto in un referendum pro o contro Bush, se si vuole in un referendum sulle bugie e gli errori di Bush. Ma quel referendum per la maggioranza degli elettori americani bisognosi di certezze è risultato meno importante della sensazione che Bush fosse il più determinato a usare la forza e a combattere per difendere la loro sicurezza. Ecco perché dico che da quel bisogno non si può prescindere, che va costruita una risposta radicata nei propri valori, anziché inseguire, disprezzare e demonizzare quella dell’avversario…».
Radicata più che radicale, ripensando alle critiche che Kerry per primo si è attirato per il suo apparire troppo politically correct
«La risposta comporta una vera e propria sfida sul terreno dei valori e degli ideali che appartengono alla nostra cultura e alla nostra storia. Che nulla ha a che fare con il cedimento all’avversario, il buonismo o il centrismo».
Cosa significa, allora
«Significa opporre al fondamentalismo religioso e allo scontro di civiltà della destra quell’idea universale della religiosità come grande fattore di dialogo, di unificazione, di rispetto della vita e della dignità degli uomini. Significa far valere quel nucleo di valori su cui le grandi correnti di pensiero religiose e laiche hanno realizzato un equilibrio unico tra la libertà individuale e la solidarietà sociale. Significa mettere in campo l’idea che la lotta al terrorismo passa anche attraverso il rispetto dei diritti umani perché arrestare indiscriminatamente, torturare illegalmente, far passare come danni collaterali il massacro di popolazioni civili, come avviene sistematicamente a Guantanamo, in Iraq e in Cecenia, non serve a contenere il terrorismo ma finisce per provocare odio e allargare le basi del fanatismo. Significa far passare la lotta al terrorismo attraverso un diverso ordine del mondo e il rispetto dei diritti di tutti i popoli».
Mi lasci prendere la palla al balzo. In queste ore si consuma l’agonia di Yasser Arafat e il mondo si ritrova davanti all’annosa questione palestinese. E’ un paradosso che la scomparsa di Arafat possa favorire la ripresa del processo di pace
«Dire che con Arafat scompaia l’ostacolo alla pace è offendere la verità della storia. Certo, una storia segnata anche dagli innegabili errori di Yasser, a partire da quello di rifiutare la prospettiva offertagli da Bill Clinton fino all’avallo di una Intifada armata diventata incontrollabile e foriera di degenerazioni terroristiche. E però il percorso della road map è stato sbarrato anche dall’enorme ostacolo di una leadership israeliana dichiaratamente avversa alla convivenza tra due popoli e due Stati. Si rifletta sull’impietoso e arrogante, oltre che provocatorio, annuncio del divieto di seppellire Arafat a Gerusalemme…»
A lei cosa dice
«Brutalmente: “A Gerusalemme Arafat non viene neanche da morto”. Il segnale è inequivoco: la città è da considerarsi annessa, in palese violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite che prevedono il ritiro dai territori occupati nel ’67. Lo stesso ritiro da Gaza – come ha giustamente sottolineato il Consiglio europeo – è apprezzabile se è il primo passo per la liberazione di tutti i territori occupati e la creazione di un vero e proprio Stato palestinese sulla base della road map. Se invece prelude alla creazione di riserve indiane all’interno dei confini di Israele, allora non porterà alla pace. E se un’opportunità c’è di riprendere il cammino verso una pace giusta, in questo drammatico momento, va colta da tutti nel segno del rispetto dei diritti del popolo palestinese per i quali un uomo come Arafat ha combattuto».
Grandi questioni di principio. Ma è il terreno dell’uso della forza che si è rivelato scivoloso per Kerry. Non lo è, ancor più, per la sinistra europea storicamente alle prese con il dilemma pace-guerra
«Una visione forte sul piano dei principi non è mai disgiunta dalla responsabilità. So bene che non è la stessa del pacifismo integrale, che pure rispetto. Ma dentro questa visione resa forte dai principi e dai valori, per cui il mondo è governato dal diritto internazionale, è anche giusto che la sinistra sia pronta ad assumersi le sue responsabilità quando l’uso della forza risulti inevitabile e legittimo per creare condizioni di sicurezza e di pace».
È ancora recuperabile questa visione di fronte a una amministrazione americana che può spendere il voto popolare per radicalizzare il suo dominio nel mondo
«In questo drammatico scenario internazionale abbiamo il dovere di interloquire con gli Usa, sia perché è il paese in cui oltre 54 milioni di cittadini hanno votato contro la dottrina della guerra preventiva, sia perché il suo governo è un interlocutore obbligato per chiunque voglia cambiare i destini del mondo. Certo, avremmo preferito prevalesse una scelta elettorale diversa, ma non per questo l’Europa può mettersi a braccia conserte. Una Europa che ritrovasse la sua unità e prendesse l’iniziativa di una collaborazione multilaterale, per aprire una via d’uscita di una pace giusta dal pantano dell’occupazione irachena e dare soluzioni eque al dramma mediorientale, potrebbe anche condizionare la politica americana. In fondo i momenti migliori della cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico sono stati quando ognuno è stato se stesso, assumendosi le proprie responsabilità come nell’uso della forza nei Balcani ma nel quadro del diritto internazionale e del primato della politica».
Non teme che il vento di destra dagli Usa si spinga fino all’Europa e provochi contraccolpi
«Francamente credo che, finita la guerra fredda, la dinamica dell’opinione pubblica europea sia diversa da quella americana. Gli europei hanno un’idea propria, una percezione diversa della funzione nel mondo dell’Occidente, che non è contrapposta ma distinta proprio sul piano dei valori da quella americana».
Vale anche per l’Italia, il paese europeo più filo americano del vecchio continente
«Abbiamo una destra che, per alcuni versi, ha caratteri similari a quella americana e, per altri, prova a scimmiottarla. Come con il tentativo alla Marcello Pera di infilare liberalismo e fondamentalismo religioso in uno stesso calderone. O, come quello, in vero un po’ provinciale, di Berlusconi di fare il verso al Bush che taglia le tasse. Si illudono però che, così come per la parola d’ordine di certi radical americani, “Chiunque ma non Bush”, noi non si sia avvertiti che lo slogan “Chiunque ma non Berlusconi” non basta per vincere. Non ci affidiamo davvero a chiunque…».
Attendete il ritorno di Romano Prodi…
«E non partiamo da zero – basti ricordare l’ultimo 7 a 0 alle suppletive politiche – nell’affrontare questa destra con un progetto in grado di conquistare il consenso della maggioranza del paese. Sì, ci affidiamo all’uomo che, ancora in queste ore per effetto del disastro Barroso-Buttiglione, è il presidente della Commissione europea e rappresenta l’Europa di cui c’è tanto più bisogno. E ci affidiamo al lavoro politico di un gruppo dirigente che, con il ritorno di Prodi, avrà la sua piena visibilità».
Mentre il governo s’accapiglia sul rimpasto alla Farnesina e non solo. Come giudica quelle trattative
«Lo stato confusionale del rimpasto è l’ulteriore prova di un fallimento. Ma non torneremo al governo solo per demerito altrui. Comincia ad essere merito nostro, perché il centrosinistra ha rinnovato la sua unità, si è dato una forte leadership attorno a cui definire una credibile piattaforma di governo e si è avviato sul cammino di una grande alleanza democratica che ha il suo nerbo in una affidabile forza riformista».
Lo scontro è già aperto, qui e ora. Prendiamo l’ultima mossa di Berlusconi, quella della riduzione delle tasse. Volenti o nolenti può avere un effetto propagandistico. Quale alternativa può risultare vincente
«Sicuramente non serve protestare perché si vogliono diminuire le tasse, apparendo come quelli che vogliono aumentarle. Non ci capirebbe nessuno. Altro è denunciare che il governo si comporta come un Robin Hood alla rovescia che fa pagare ai ceti più deboli quel che si concede ai più ricchi, con un effetto depressivo per l’economia perché se imponi al pensionato a pagare il ticket sulla medicina salvavita lo costringi a ridurre altri consumi fors’anche essenziali. Altro è dire: se ci sono delle risorse, usiamo la leva fiscale per la competitività delle imprese e i redditi dei ceti più deboli. Anche qui, si tratta di dare slancio all’intera società sfidando il centrodestra con la stessa chiave della questione della sicurezza nelle elezioni americane. L’esigenza di innovazione e di modernizzazione è reale, altrimenti Berlusconi non avrebbe vinto le elezioni nel 2001 con quegli slogan. Poi, certo, ha dato risposte sbagliate, ha scambiato la liberalizzazione della società con l’illegalità, con la giungla dove vige la legge del più forte, con gli abusi e i condoni. Ha prodotto, all’opposto, vincoli e impedimenti allo sviluppo moderno del paese. Un disastro a cui tocca rimediare, ma dubito serva presentarci con l’aria di quelli che vogliono restaurare, ripristinare, riedificare».
Come, allora
«La sinistra è nata non per conservare ma per cambiare la società. Ecco, dobbiamo presentarci come quelli che hanno i valori e le idee del cambiamento per una società giusta, in cui l’apertura alla modernizzazione e il dinamismo della crescita offra maggiori opportunità a tutti, dignità al lavoro, solidarietà non pelose ai ceti più deboli e, soprattutto, una visione sicura del futuro».
Lungo questa strada si ripresentano sensibilità d’identità ma anche di equilibrio politico tra la parte più riformista e quella più di sinistra. Che dire, ad esempio, della campagna di Rifondazione sulla Costituzione europea
«La scelta dell’unità comporta anche una scelta di responsabilità nella ricerca di contenuti innovativi. È su questo piano che trovo contradditoria la posizione di Rifondazione: per quanti sforzi si facciano per nobilitarla come critica ultraeuropeista, finisce per confondersi con l’antieuropeismo delle forze più conservatrici e localistiche. Tanto più è importante che la più larga unità del centrosinistra si verifichi attorno a una grande forza che dia affidabilità alla leadership, al programma e alla futura squadra di governo».
Arriviamo al nocciolo del congresso dei Ds. Si confrontano diverse mozioni, anche se da diverse parti si era proposto un metodo diverso, più unitario ma senza sacrificare le differenze. Era proprio inevitabile
«Non vedo dove sia lo scandalo in un metodo normale della dialettica e della vita democratica del partito. Né capisco la polemica contro le mozioni. Il bisogno di chiarezza sull’orientamento politico dei Ds non passa attraverso la confusione o, peggio, l’ambiguità in una fase così cruciale per la sinistra. Parliamoci chiaro, quella del documento aperto è questione astratta: Fassino ha presentato una prima bozza del documento politico per il congresso, ha raccolto le osservazioni, alcune le ha anche recepite, e se fossimo stati tutti d’accordo niente e nessuno avrebbe potuto costringere a presentare mozioni diverse. Se ci sono, vuol dire che siamo di fronte a discriminanti significative, oltre a importanti novità come quella costituita dalla mozione ambientalista. Addirittura abbiamo due mozioni a sinistra».
Eppure non ci sono candidature alternative a quella di Piero Fassino alla segreteria…
«E’ importante, questo riconoscimento giusto al lavoro che il segretario ha compiuto, al di là delle posizioni politiche espresse dalla maggioranza del congresso di Pesaro, per l’unità del partito e l’unità del centrosinistra. Così come è importante che Fassino abbia espresso in partenza l’orientamento a un governo unitario del partito. Questo duplice segnale deve poter arricchire l’impegno comune».
Non è sicuro che sia così
«Francamente non vorrei che con il venir meno di divisioni drammatiche, come conferma proprio la non messa in discussione della leadership, ci sia una distrazione sull’importanza di questo appuntamento».
Cosa auspica, invece, il presidente dei Ds
«Che il congresso di questo grande partito non sia soltanto la registrazione dei voti. Io andrò a dare il mio voto alla mozione di Fassino, ma conto anche di partecipare a ogni occasione di confronto, di ascolto reciproco e di evoluzione delle diverse posizioni, altrimenti diventa una liturgia ripetitiva, autoreferenziale. E mi auguro che già da ogni sezione ciascun militante ci aiuti, con l’attiva partecipazione e le proprie idee, a dar vita a una discussione vera, libera, così da fare del congresso di Roma un momento creativo per dire qualcosa di nuovo al paese».