27 Maggio 2005
Veltroni e Fassino la “panchina” dei Ds
Autore: Edmondo Berselli
Fonte: la Repubblica
Mentre nella Roma di sinistra risuona sordo un tam tam che scandisce «Walter, Walter», i mediatori sono al lavoro e diffondono parole d´ordine sedative: «Suturare la ferita, subito», dice al suo entourage dell´Arel Enrico Letta, «poi si vedrà». Nella piccola tribù prodiana lunghi sospiri precedono ogni considerazione.
Le convinzioni si formano lentamente. Certo, la sensazione generale è che si «siamo all´angolo». Ma «Romano lo conoscete tutti». Dà il suo meglio quando è in emergenza. Quando le cose vanno a rovescio si chiude nel suo studio, come gli rimprovera Franco Marini, stira le labbra, incassa la testa e si prepara a resistere. È un uomo a cui gli attacchi rimbalzano addosso.
Ad ogni modo tutti sono consapevoli che è cominciata una mano di poker segnata da un rilancio altissimo, lo strappo di Prodi. Il quale Prodi è convinto (anzi, più che convinto, sostiene di avere la certezza) che gli uomini di Fassino lo sosterranno. È possibile, naturalmente. Si può ragionevolmente pensare che gli «ex comunisti» abbiano ancora bisogno di Prodi, perché Prodi è una garanzia verso il voto cattolico, perché ha una competenza da economista affinatasi nei processi decisionali di Bruxelles, perché impersona quasi fisicamente l´idea dell´Ulivo. «E anche perché il centrosinistra esiste in quanto l´ha creato lui», come dicono i suoi fedeli: «prima c´era la gioiosa macchina da guerra».
Va bene, ma dietro l´angolo, oltre le trappole in cui il centrosinistra si è cacciato, si intravede qualcosa? A questo punto la storia della crisi diviene intricata, e delicata. E anche a lasciar perdere gli scenari da panico (secessione dei prodiani dalla Margherita, torneo di accuse reciproche, discredito generale della coalizione, disunione dell´Unione), c´è un punto politico ancora più essenziale, un tema cruciale per l´intero presente e futuro del centrosinistra.
Vale a dire: allorché è esplosa la crisi, Piero Fassino e tutti i Ds non ci hanno messo nulla a capire che fra la loro ormai piena legittimazione politica e la candidatura a governare in prima persona c´è solo un diaframma, rappresentato paradossalmente proprio dal democristiano che all´ultimo Congresso li chiamò «care compagne e cari compagni», il professor Romano Prodi.
Basta accennare a un´ipotesi, su questo terreno sdrucciolevole, e subito partono gli esorcismi. Ci vuole una bella riflessione, dice Gavino Angius. Alt, fermi tutti e meditare, si schermisce Pier Luigi Bersani. Si capisce facilmente la ragione di tanta prudenza. Nell´eventuale «Prodi 2, la ricaduta», i Ds non possono interpretare la parte dei killer. Ma se Prodi cade da solo, o lo fa cadere la Margherita, o ancora se Bertinotti lo molla, accadono allora alcune cose forse perfino più complicate.
In primo luogo si verifica sul campo la tesi secondo cui in una democrazia appena decente, e in un bipolarismo appena normale, l´espressione del leader tocca al partito più forte di una coalizione. E in secondo luogo, come corollario, che questo candidato al governo coincide con la figura del segretario politico del partito suddetto.
Sono regole schematiche: e soprattutto è sufficiente enunciarle perché nella Quercia si avverta un brivido. Perché ovviamente il capo del partito è Fassino. Mentre qualsiasi sondaggio formale o informale realizzato fra i Ds rivela che il candidato alla guida della coalizione, il più popolare, sarebbe a furor di popolo Walter Veltroni. «Walter, Walter», appunto, come dice il passaparola romano.
Non conviene mai addentrarsi nella fantapolitica. Intanto però prendiamo tutti nota che in futuro la «normalità» della politica italiana dovrà indurre i partiti, a partire proprio dai Ds, a procedere alle nomine del vertice non più come prodotto di alchimie e compensazioni interne, bensì funzione della competizione politica esterna.
Si tratta di un criterio tendenziale a cui per ora la Quercia non ottempera, e ciò comporta conseguenze. Se infatti i Ds dovessero esprimere oggi il loro candidato alla premiership, si troverebbero alle prese con un rompicapo. Il loro segretario è un perfetto uomo di governo. Serio, credibile, solo sfiorato, non scosso, da una tensione che rappresenta l´impulso elettrico di una capacità di lavoro impressionante, Fassino è un esemplare politico nell´accezione di Max Weber, «Politik als Beruf», politica come vocazione e professione inscindibilmente fuse.
Se oggi la vocazione della sinistra è orientata esplicitamente al governo, il segretario Ds sarebbe l´uomo giusto al posto giusto. Ma per governare occorre vincere le elezioni, cioè condurre una campagna, usare i media, convincere gli indecisi, mobilitare i propri elettori. Bisogna introdurre nella razionalità del messaggio politico una scintilla di creatività capace di accendere anche l´emotività pubblica.
Sotto questa luce, Veltroni non ha rivali, perché è un interprete straordinario della politica post-materialista, basata sulle passioni e le tendenze più che sugli interessi. La sua propensione a innamorarsi di missioni antropologicamente impegnative e il suo essersi defilato in Campidoglio (un «gran rifiuto»?) gli avranno attirato le ermetiche ironie di Francesco De Gregori («Chiudi la porta e vai in Africa, Celestino»), ma la sua popolarità capitolina sembra in grado di trasmettersi anche a tutto un paese che sente ancora il bisogno di mobilitazioni psicologiche e di utopie.
Mentre per il torinese Fassino la politica è ancora un riflesso quasi automaticamente «fordista», un ritrovarsi nelle fabbriche e fra compagni, e il suo cattolicesimo («la fede dei padri mai perduta») contiene un´ombrosità giansenista, per Veltroni la politica è un illuminarsi di notti bianche, in una Roma illuminata dai fari dei concerti, e il credo personale è l´adesione per sentimento a figure interpretate in chiave progressista, da Martin Luther king a don Milani.
Sarebbe facile concludere che Fassino è il popolo e Veltroni è la popolarità, «Walter, Walter». Ma la realtà è che entrambi rappresentano una sintesi ancora imperfetta. Scegliendo l´uno, si perde qualcosa dell´altro. Ed è forse per questo che difficilmente la crisi dell´Ulivo potrà essere risolto con blitz estemporanei. Soluzioni anche ciniche, dopo la rottura fra Prodi e Rutelli, ce ne sarebbero a iosa; e dunque se per ora prevale la cautela, non dipende solo dall´atteggiamento «fair» dei protagonisti e degli attori di contorno.
Già è complicato, come si è visto, trovare procedure e modalità condivise per lo sviluppo della coalizione in direzione riformista. Se poi si aggiunge che gli equilibri interni all´Unione sono talmente delicati da produrre effetti disgregativi e virtualmente «suicidi» quando essi vengono modificati, è facile capire che il grande gioco di ruolo che si sta recitando in queste ore attorno alla figura di Prodi non ha esiti comodi o alternative facili.
Fassino una volta ha lasciato capire che sarebbe un´ingiustizia scartare dalla corsa per la leadership chi si è assunto il lavoro duro di tenere in piedi il partito. Ciascun partito ha il suo uomo «pane e cicoria». È giusto che l´abbia detto, ed è un monito per riconoscergli che al momento buono avrà il diritto almeno a un posto sui blocchi di partenza nella corsa per la candidatura. Ma è anche un criterio più generale per riconoscere che dalle crisi non si esce con invenzioni estemporanee, e che la via più facile non è la più sicura.