24 Gennaio 2006
Vecchi vizi e nuovi errori
Autore: Luigi La Spina
Fonte: La Stampa
Uno scontro istituzionale durissimo per due settimane di lavori parlamentari. Ai tempi della prima Repubblica, si diceva che spiegare la politica italiana ai nostri alleati americani era un’impresa impossibile e si raccontavano gustosi aneddoti sulle surreali conversazioni tra Moro e Kissinger, basate sull’assoluta incomprensione reciproca.
Ma spiegare ai lettori, anche quelli più volenterosi, i motivi «del braccio di ferro» che si sta consumando in queste ore tra i principali palazzi di Roma, non sembra meno difficile del compito che dovevano sbrigare i poveri ambasciatori di quell’epoca.
Come nelle storie troppo complicate, è utile, per cercare di capirci qualcosa, ricominciare dall’inizio e provare a ridurre la vicenda all’essenziale. Poiché i tempi della scadenza della legislatura e del mandato di Ciampi si intrecciano, rischiando il cosiddetto «ingorgo parlamentare», cioè un pasticcio politico-procedurale intricato, era stato convenuto un accordo per separare il più possibile le due date, con un breve anticipo della chiusura del Parlamento e il voto al 9 aprile.
Berlusconi, non essendo riuscito a far cambiare la legge sulla «par condicio» che limita quella sua onnipresenza mediatica di cui ha fatto in questi giorni ampio uso, ora ritiene opportuno allungare il più possibile il periodo in cui non è in vigore tale norma. Il presidente del Consiglio, inoltre, valuta conveniente approvare, prima dello scioglimento delle Camere, alcuni leggi utili per favorire la sua campagna elettorale.
Dall’altra parte, il Presidente della Repubblica, che, in 7 anni, ha inviato al Parlamento un solo messaggio, significativamente incentrato sul rispetto del pluralismo nell’informazione e, quindi, sulla parità delle condizioni tra schieramenti politici nella propaganda elettorale, non vuole venir meno, proprio alla fine del suo mandato, alla sua funzione di garante di tale esigenza e di arbitro imparziale della nostra vita pubblica.
Il problema vero, quindi, non è il varo di leggi e leggine nell’ultimo scorcio della legislatura, per favorire il proprio elettorato o le proprie clientele: ogni governo, centrosinistra compreso, non è stato immune da questo «vizietto», usiamo il vezzeggiativo solo perché le brutte abitudini, quando sono antiche, ci diventano non solo care, ma ci paiono persino tollerabili.
Né scandalizza troppo che sia il governo a decidere la data delle elezioni, non solo perché lo prescrive la Costituzione italiana, ma anche perché la facoltà di stabilirla nel momento più opportuno per l’esecutivo in carica, entro certi limiti temporali prefissati, naturalmente, è concessa nella maggioranza delle democrazie del mondo, compresi i Paesi più importanti e di antica tradizione.
La questione, perciò, non riguarda l’aspetto formale, procedural-giuridico, ma, per usare un termine di cui il gergo sessantottino abusava volentieri, è «essenzialmente politica».
L’irritazione del Quirinale, si spiega inoltre con l’atteggiamente del presidente del Consiglio che, da una parte, non smentisce l’intenzione di ripresentare la legge Pecorella, nonostante la bocciatura di Ciampi, senza correzioni che tengano conto del parere presidenziale.
Dall’altra, il Cavaliere arriva al punto, come ha fatto ieri sera, di minacciare lo spostamento della data delle elezioni in periodo quasi estivo, pur di allungare la legislatura fino al termine ultimo possibile. Una mossa di cui peraltro non si capisce la convenienza, vista la tradizionale avversione del centrodestra per un voto in periodo di vacanze scolastiche.
La convinzione di Berlusconi di poter ribaltare i sondaggi, che finora lo danno sconfitto, a suon di martellanti presenze televisive e di una campagna elettorale aggressiva sul caso Unipol è evidentemente così forte da comprendere la possibilità di uno scontro finale anche col Presidente della Repubblica.
Ipotesi certo pericolosa, perché porterebbe il livello della polemica, in campagna elettorale, fino al conflitto istituzionale. Un caso mai avvenuto nella storia della nostra Repubblica, prima, seconda o persino terza come qualcuno ha definito quella attuale.
Ma soprattutto perché potrebbe contraddire una regola che lo stesso presidente del Consiglio si è dato durante tutto il periodo di difficile sua convivenza con l’attuale inquilino del Quirinale: arrivare anche a forti tensioni con Ciampi, ma senza mai proclamare un aperto scontro.
Sia per non «regalare» all’opposizione la figura di gran lunga più popolare e universalmente stimata che la scena politica italiana oggi possa vantare. Sia per non ingaggiare una sfida che difficilmente lo vedrebbe vincitore, sia pure considerando la notevole autostima di cui certamente Berlusconi non difetta. La coerenza, neanche con se stessi, non è la virtù dei politici, ma spesso evita di doverti pentire due volte per un errore.