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6 Luglio 2005

Un’agonia troppo lunga

Autore: Piero Ostellino
Fonte: il Corriere della Sera
Questo giornale l’aveva scritto subito dopo la disfatta del
centrodestra alle regionali, l’aggravarsi delle divisioni al suo
interno e la semi- paralisi decisionale del governo.
Andare a elezioni anticipate, invece di aspettare la fine naturale
della legislatura, «un anno di dolorosissima agonia» (Angelo
Panebianco: «Le elezioni anticipate», Corriere del 10 aprile). Che
piaccia o no, è convinzione diffusa, anche in vasti settori del
centrodestra, che il dopo-Berlusconi sia incominciato da un pezzo.
Durerà, però, ancora a lungo, perché lo stesso presidente del Consiglio
è ancora convinto di vincere le elezioni del 2006, i suoi alleati non
sanno che pesci pigliare e ciascuno pensa a salvare la propria pelle,
più di quella della coalizione. La gazzarra inscenata a Strasburgo dai
rappresentanti della Lega contro Ciampi (e l’Europa) e l’accentuato
disimpegno dell’Udc appartengono alla serie «si salvi chi può».
Berlusconi che, dopo una colazione di lavoro con Fini e Follini,
dichiara di essere (ancora) il candidato della Casa delle libertà alle
prossime politiche, e Follini che, pochi giorni dopo, auspica le
primarie per la designazione del futuro leader, tratteggiano i
caratteri della «dolorosissima agonia». Nel frattempo, l’ipotesi del
partito unico è stata rimandata a dopo le elezioni, sia nel
centrodestra sia nel centrosinistra, il che vuol dire che è stata
definitivamente archiviata. D’altra parte, come ha spiegato più volte e
bene su queste stesse colonne Giovanni Sartori, con un sistema
elettorale che produce coalizioni frammentate e litigiose non si
capisce come potrebbe mai nascere una sorta di bipartitismo più o meno
perfetto. Ma tant’è. Da una parte e dall’altra si tende a vendere sogni
a un Paese sempre meno incline a crederci. La stessa natura onirica
rischia, perciò, di avere anche la prospettiva del «partito moderato»
del centrodestra. In realtà, a destra come a sinistra, non di un
partito«moderato» ma di un partito «rivoluzionario», nell’accezione
«blairiana» del termine, avrebbe bisogno il Paese.
Sarebbe infatti necessario che il prossimo Parlamento e il prossimo
governo, quali essi siano, procedessero a una serie di riforme
strutturali «forti»: sistema elettorale e sistema politico che
producano governabilità; modernizzazione della Pubblica amministrazione
e deregolamentazione legislativa (un Paese con oltre 150 mila leggi è
condannato alla paralisi e alla corruzione); sistema fiscale non
punitivo, ma equo; bonifica del Sud dalla criminalità; liberalizzazione
delle professioni; privatizzazione di servizi locali e nazionali;
riduzione del peso delle corporazioni e degli interessi organizzati
attraverso iniezioni di mercato e di concorrenza.
Ma sarebbe altresì necessario che anche il Paese riflettesse su se
stesso: non aspettandosi più che lo Stato faccia al suo posto quello
che lui stesso dovrebbe fare; chiedendosi se non viva al di sopra delle
proprie possibilità; ridefinendo le proprie priorità; diversificando
gli investimenti; abbandonando quelle produzioni che non sono più
competitive e affrontando le nuove sfide attraverso massicci
investimenti nella ricerca e nell’innovazione.
Si illuderebbe, invece, chi pensasse che tutto si aggiusti
semplicemente aumentando la pressione fiscale, (re)distribuendo un po’
dei soldi così racimolati, procedendo con l’ordinaria amministrazione
per non disturbare gli interessi organizzati, facendo altre iniezioni
di dirigismo e di statalismo. Così, «l’agonia», che rischia di
diventare strutturale, continuerebbe, chiunque fosse al governo.