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14 Giugno 2005

Un verdetto chiaro, diagnosi incerta

Autore: Paolo Franchi
Fonte: Il Corriere della Sera

Ai seggi si è presentato un elettore su quattro: la stessa percentuale di votanti di un recente referendum, quello sull’estensione dell’articolo 18 alle piccole imprese, nel quale per l’astensione si pronunciarono un po’ tutti, grandi giornali ompresi, ovviamente con l’eccezione del partito di Fausto Bertinotti. Stavolta, dunque, individuare gli sconfitti è persino troppo facile, e chi scrive, nel suo piccolo, si mette nel mazzo, visto che ha votato quattro sì, e non se ne pente, perché, quando in ballo ci sono valori e princìpi che consideriamo irrinunciabili, si deve fare la propria parte per difenderli, anche se l’esito infausto della battaglia ci appare in partenza pressoché scontato. A tale criterio si sono ispirati alcuni (non molti) politici, da Piero Fassino a Marco Pannella, da Gianfranco Fini a Stefania Prestigiacomo: ed è giusto riconoscere loro qualcosa più dell’onore delle armi. Se la politica ha ancora dignità e senso, un politico vero si riconosce anche da questo. Un simile riconoscimento non basta a rendere meno bruciante una batosta che impressiona anzitutto per le sue dimensioni, impreviste e forse imprevedibili. Così impreviste, e così imprevedibili, da indurre un esponente della Margherita assai vicino a Francesco Rutelli, Enzo Carra, ad allargare il discorso. Per sostenere serafico che buona parte della classe dirigente, da Massimo D’Alema a Gianfranco Fini, «non ha più il polso del Paese». Può darsi. Anzi, è addirittura probabile, almeno a giudicare dalla tempesta che l’esito del referendum ha già scatenato dentro Alleanza nazionale e dal confronto aspro nel centrosinistra tra un centro che si è più o meno compattamente astenuto e una sinistra che è andata più o meno compattamente alle urne. E un contributo significativo in materia non lo ha certo dato l’informazione: né quella scritta, in larga maggioranza schierata per il sì, né quella

televisiva pubblica e privata che ha peccato assai contro il referendum con parole, opere e, ancor più, omissioni.

Tutto vero. E’ anche vero, però, che non è poi così semplice desumere da quel gigantesco settantacinque per cento che i seggi li ha disertati quale in effetti sia questo benedetto «polso del Paese». Lasciamo volentieri ai politologi il compito di destreggiarsi nella difficile arte di soppesare i diversi tipi di astensionismo, quello «fisiologico», quello «motivato» e quello, infine, di chi a votare non c’è andato perché trovava i quattro quesiti troppo complessi o troppo impegnativi. In ogni caso, si sono sommati, con effetti sconvolgenti.

Il quorum in un referendum è stato raggiunto l’ultima volta dieci anni fa, secondo le analisi più accreditate la percentuale di chi a votare per un referendum neanche ci pensa supera il quaranta per cento, quella di incrementare per quanto possibile l’astensionismo per far fallire una prova referendaria è ormai pratica diffusa e spesso vincente: ma, anche tra gli astensionisti, pochi avevano immaginato che ad «andare al mare» potessero essere i tre quarti degli elettori.

E’ difficile stabilire quante divisioni ha il Papa. Ma, certo, l’intervento diretto e inusitato della Chiesa, addirittura sulle tattiche elettorali, è stato politicamente determinante, anche perché la politica, nel complesso, ha latitato. Ciò determina molte legittime preoccupazioni per il futuro, a cominciare dalle sorti della legislazione sull’aborto. Camillo Ruini smentisce.

Si può anche dubitare di queste rassicurazioni. Ma forse è la stessa Chiesa a temere le vertigini da successo: quel 75 per cento è davvero troppo vasto, composito e inesplorato per «appartenerle» ed eventualmente per seguirla su questa strada.