Per il momento, il Consiglio di Stato rimette il caso alla Corte di
Giustizia europea e nell´attesa sospende di conseguenza il giudizio di
merito. Ma pone al Tribunale di Lussemburgo dieci “quesiti
pregiudiziali”, cioè dieci questioni interpretative di legittimità, che
contengono ognuna un´ipotesi accusatoria precisa. Si va dalla
violazione del pluralismo e della concorrenza nel settore televisivo al
trattamento discriminatorio nei confronti di “Europa 7”;
dall´infrazione delle norme antitrust a quella della disciplina
comunitaria. Per arrivare, infine, a puntare il dito contro la
transizione al sistema digitale terrestre vagheggiata dalla riforma
Gasparri (che “rischia di ulteriormente aggravare la scarsità delle
frequenze disponibili”, com´è scritto nel provvedimento) e contro il
famigerato Sic, il Sistema integrato delle comunicazioni, che prevede
un limite del 20 per cento delle risorse pubblicitarie (“collegato a un
nuovo paniere molto ampio che include – sottolinea però lo stesso testo
– anche attività che non hanno impatto sul pluralismo delle fonti
d´informazione”).
Il ricorso di “Europa7”, la rete che appartiene all´imprenditore
Francesco Di Stefano, rappresentato dal professor Alessandro Pace e
dagli avvocati Giuseppe Oneglia e Ottavio Grandinetti, risale al 1999.
A quell´epoca, l´emittente partecipò alla gara per il rilascio delle
concessioni televisive e si classificò al settimo posto della
graduatoria. Il Piano nazionale ne prevedeva in totale 11, tre delle
quali riservate al servizio pubblico, con un “tetto” antitrust del 20,
pari a due reti per ciascun soggetto privato.
Ma da allora a oggi il ministero delle Telecomunicazioni non ha mai
provveduto ad assegnare a “Europa7” le relative frequenze, perché
queste risultavano occupate abusivamente da due “reti eccedenti”,
Retequattro e Tele+ Nero, che superavano i limiti delle concentrazioni.
E tuttavia, sotto una forte pressione politica a cui neppure la vecchia
maggioranza di centrosinistra è stata capace di resistere, vennero
autorizzate entrambe “in via transitoria” a proseguire le trasmissioni
in attesa di una riforma complessiva del settore.
Al contrario, come si legge a pagina 44 della decisione del Consiglio
di Stato, “emittenti come Europa7, pur avendo ottenuto la concessione,
non essendo nella condizione di esercire una rete all´atto di
presentazione della domanda di connessione, ma essendo nuovi entranti
che non possiedono una rete d´impianti in esercizio, attendevano
l´assegnazione delle frequenze”. In una guerra infinita di carta
bollata, la paradossale situazione s´è trascinata così fino al dicembre
2003, termine ultimo e perentorio fissato dalla Corte costituzionale
per la scadenza del regime transitorio, quando il governo Berlusconi ha
dovuto emanare in tutta fretta il cosiddetto “decreto salva-reti” per
evitare appunto che Retequattro fosse trasferita sul satellite. Poi, è
arrivata l´approvazione definitiva della legge Gasparri, già bocciata
nel frattempo dal Capo dello Stato per una palese incostituzionalità, a
mettere al sicuro la terza rete del presidente del Consiglio dietro il
paravento del digitale terrestre che dovrebbe moltiplicare il numero
dei canali disponibili.
Senza entrare per ora nel merito del giudizio, e rinviando quindi anche
la decisione sulla richiesta di risarcimento danni presentata da
“Europa7” per una cifra che va da un minimo di 882 milioni di euro a un
massimo di tre miliardi, nella sua decisione il Consiglio di Stato
richiama però tutta la legislazione comunitaria in materia. E per
quanto riguarda in particolare la legge Gasparri, cita la denuncia
della Commissione europea sulla democrazia e sulla legalità, oltre al
rapporto stilato recentemente dalla “Commissione di Venezia” su
incarico del Consiglio d´Europa che, fra l´altro, considera al momento
l´adozione del Sic un criterio “non adeguato a creare condizioni di
effettiva concorrenzialità”.
Ma ancora più significativo, e carico evidentemente di implicazioni
giuridiche per gli sviluppi futuri, è il passo in cui il provvedimento
ribadisce esplicitamente la prevalenza della normativa europea sulla
legislazione italiana e sulla giurisprudenza della stessa Consulta.
“Una volta pronunciatasi la Corte costituzionale di uno Stato membro –
si legge a pagina 54 – non deve ritenersi improprio che lo scrutinio su
di una legge possa essere effettuato anche dalla Corte di Giustizia
delle Comunità europee, per verificare eventuali contrasti con il
diritto comunitario”. E poco più avanti: “Da ciò deriva che
l´accertamento di un eventuale contrasto originario della legge
Maccanico con il diritto comunitario, non è precluso dal giudicato
costituzionale”.
La parola alla Corte, insomma. Ma l´ultima spetta ora a quella europea: a Lussemburgo, piuttosto che a Roma.