La sorte dell’università italiana è segnata, allo stato dei fatti.
Segnata da un decreto «finanziario», il 112 del 25 giugno, presentato
da Tremonti e approvato in nove minuti dal Consiglio dei ministri, che
mina una parte essenziale delle conquiste sociali e culturali di età
repubblicana. Tre o quatto norme, quasi distrattamente gettate qua e là
nel testo, bastano a cambiare radicalmente, in una direzione che
sembrerebbe – sembrerebbe… – priva di senso, l’università e la ricerca
scientifica. Fatto questo, non c’è più bisogno di portare in Parlamento
alcunché. La cosa di cui mi pare ci sia ancora poca consapevolezza, nel
campo di quello che fu il centrosinistra, è che patto costituzionale e
patto sociale stanno, sotto la potente e debolmente contrastata spinta
della destra, rovinando insieme.
Il decreto prevede innanzitutto un
costante definanziamento per i prossimi cinque anni. Cinque. Sono gli
anni in cui l’Italia dovrebbe onorare gli impegni presi a Lisbona:
costruire lo «spazio europeo dell’università e della ricerca», portare
gli investimenti al 4.5% del pil. Parlo naturalmente non di spesa, ma
di investimenti.Anche a prescindere dal valore assoluto, fuori da una
logica di merce, della conoscenza, è noto che il principale fattore di
produttività economica si chiama istruzione, formazione superiore,
ricerca. Ci sono stime internazionali: ogni dollaro, o euro, che metti
nella ricerca, ne produce tre. Gli obiettivi di Lisbona, che altri
Paesi europei hanno già raggiunto, o fortemente avvicinato, sono per il
nostro irraggiungibili: ci vorrebbero nei prossimi anni incrementi fino
a 40 miliardi di euro l’anno. Scendere, assomiglia al suicidio di una
nazione. Formazione superiore e ricerca sono assolutamente
sottofinanziati: 0.8% sul pil l’Università, 1.1% la ricerca scientifica
(era 1.4%anni fa). Lisbona no, ma almeno le medie europee, almeno le
medie di area OCSE! Si tratta per l’Italia di una cifra intorno ai 10
miliardi di euro aggiuntivi. Non dimenticando che negli ultimi venti
anni c’è stata nel mondo una impressionante crescita degli
investimenti, di cui sono stati protagonisti Stati Uniti, Cina e India,
a seguire l’Europa, ma una moltitudine ancora di Paesi di tutti i
continenti. Spesa pubblica e privata: in Italia lo Stato ci mette un
po’ meno degli altri Stati della Ue, le imprese italiane, mediamente,
clamorosamente meno delle loro sorelle europee.
Nei venti mesi del
governo Prodi questa è stata una questione molto combattuta. Lo dico
per personale esperienza. Quando si decise, con il primo provvedimento
finanziario del 2006, con il mio dissenso di ministro, il taglio dei
consumi intermedi -che poteva valere intorno ai 100 milioni di euro,
norma in extremis poi revocata, si accese un torrido dibattito
pubblico, paginate di giornali. Ora Tremonti- Gelmini prevedono un
taglio di circa 1.5 miliardi euro nel quinquennio, e si sono letti qua
e là degli articoli (per esempio sull’Unità), rari Nantes nel mare
magno di una informazione sempre più conformistica e d’intrattenimento,
ma nessuna discussione pubblica all’altezza del problema che si apre.
Il governo di centrosinistra, nelle sue due finanziarie, aveva
stabilizzato la spesa, anzi l’aveva un po’ incrementata,
accompagnandola con misure di serietà. Insufficienti? Insufficienti.
Con la destra si scende d’un colpo sotto il livello di sopravvivenza.
Si apre semplicemente una lotta darwiniana tra istituzioni
universitarie e centri di ricerca. Di dove cominceranno i tagli?
Certamente riguarderanno tanto la didattica quanto la ricerca, e
saranno colpiti i più giovani. Vedo che ci sono gà atenei che
dichiarano di non poter rispettare la norma dell’aumento delle borse di
dottorato, che era garantito dal Fondo di finanziamento 2008. Lo stesso
passaggio dalla biennalità alla triennalità degli scatti di carriera
(che non ha nulla a che fare con la premialità del merito e
dell’impegno) colpirà soprattutto i docenti e i ricercatori più
giovani, all’inizio della carriera. Una cosa è sicura: aumenteranno
fortemente le tasse. E così, per un certo numero di nonni che potranno
comprare qualche pacco di pasta al supermercato con la social card , ci
saranno milioni di nipoti le cui famiglie dovranno versare molto molto
di più. Però, com’è noto, la destra non mette le mani in tasca dei
cittadini, mai e per definizione…
Ma la trappola mortale per
giovani, nel decreto del governo Berlusconi, è la norma che limita il
turn over al 20% delle uscite. Abbiamo il corpo docente universitario
più vecchio del mondo, organizzato in una struttura di ordinari,
associati e ricercatori, bizzarra e altrove sconosciuta. In pochi anni,
almeno la metà dei docenti in attività andrà in pensione. Una occasione
importante di riequilibrio e di rinnovamento. Se ne entra solo uno ogni
cinque che escono, si brucerà una generazione intera di giovani di
talento, quelli stessi che già oggi a migliaia emigrano, senza essere
compensati da loro coetanei che arrivano da altri Paesi. Si ridurrà
drasticamente il corpo docente, senza ridurne significativamente l’età
media. Nella legge che proibisce ai giornali di pubblicare certe
notizie giudiziarie in loro possesso, sarebbe opportuno allora fare un
emendamento: “Di qui in avanti è proibito, per decenza, scrivere e
stampare la frase: fuga dei cervelli”.
È evidente che tutta questa
roba non ha niente a che fare con una strategia della qualità e di
innalzamento degli standard del sistema universitario. E che le nuove
norme creeranno un groviglio inestricabile di problemi. Sono sicuro che
lo sa bene Giulio Tremonti, visore globale e autore della geniale
irresistibile gag nella quale appaiono quali responsabili del
mercatismo liberista l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e il
comunismo. Lo vede talmente bene che una soluzione l’ha trovata: le
università possono trasformarsi in fondazioni di diritto privato. A
parte il fatto che il trasferimento diretto dallo Stato è in Italia due
punti sotto la media europea (documentazione presentata al Meeting di
Londra sul “Processo di Bologna” nel giugno 2007), e già molte
università , oltre al gettito tutt’altro che trascurabile delle tasse
degli studenti, già attingono a rilevanti risorse autoprocurate. A
parte il fatto che in Italia non ci sono né i Rockfeller che mettono
soldi nelle Foundations, né i Guggenheim che li mettono nell’arte, né
mecenati che elargiscono con liberalità alla scienza e alla cultura
(anche lì. negli Usa, non sempre disinteressatamente, magari per
comprarsi l’accesso a prestigiose ed esclusive università per i figli
bighelloni).
Si capisce l’idea del governo di destra:
privatizzare. E magari si muoverà di certo qualche privato (e magari
qualche privato che prende molti soldi dallo Stato, magari un qualche
otto per mille).
Il punto è che, con tutti gli innegabili guai dei
grandi sistemi pubblici, l’eccellenza è pubblica: nella sanità, nella
scuola, nell’università, nella ricerca.
Che qualità, merito ed
efficienza siano una esclusiva del privato, non è un fatto, ma, come
diceva Norman Mailer, un “fattoide”, cioè una balla: Una balla di
successo, ma una balla. Tutti i nostri sistemi sono misti, c’è il
pubblico e c’è il privato. Quando relazioni sono pulite, questo è un
valore. Ma se si smantella il pubblico -in quei territori che hanno a
che fare per esempio con la salute, il patrimonio culturale e la
conoscenza- non è il moderno che arriva, è il passato che torna. Come è
tornato il passato remoto con il “Lodo Alfano”, un pezzo di diritto
medievale scagliato nel presente. Bisogna muoversi, ora.