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23 Luglio 2007

Tra Walter, Rosy e Furio cosa fa la differenza?

Autore: Mario Pirani
Fonte: La Repubblica

Il giorno
in cui Rosy Bindi e Furio Colombo annunciavano di voler contendere a Walter
Veltroni la guida del Partito democratico, quest?ultimo con una
dichiarazione di due righe («Draghi ha detto cose dure ma coraggiose:
dobbiamo avere la forza di guardare all?interesse generale partendo da chi è
meno tutelato, cioè i giovani») ha segnato ben netta la linea di confine,
almeno finora, tra lui e gli altri candidati. Val la pena, quindi, di
analizzare i risvolti di quella affermazione, con la premessa, peraltro,
della positività di una competizione aperta e dissonante. In questo senso il
«made anti Berlusconi» che caratterizzerà, come annunciato, la campagna
dell?ex direttore dell?”Unità” è nettamente agli antipodi dell?invito
reiterato nel discorso di Torino del sindaco di Roma, ad una
contrapposizione senza anatemi tra i due poli, basata sui fatti e non sugli
odi e i furori che l?hanno fin qui segnata.

Quanto alla recente “petite
phrase” di Walter Veltroni essa si presta a letture più complesse, ben oltre
la sua apparente semplicità. Due erano state, infatti, le «cose dure» evocate dal Governatore: I) l?innalzamento graduale della età media effettiva di
pensionamento; II) l?asserzione che «non esiste un tesoretto da spendere.
L?extra gettito si dovrebbe utilizzare per ridurre disavanzo e debito o
semmai per diminuire le imposte, non per aumentare le spese».Sulle pensioni
il governo ha fatto quel che poteva, ma pur sempre costretto a subire il
vincolo politico della sua maggioranza. Non a caso Prodi ha fatto trapelare il
suo disappunto per le parole di Draghi (e, indirettamente, per quelle di
Veltroni). Un incipit di campagna per le primarie che, quindi, comincia a
delineare anche un profilo per la candidatura Bindi, sostenuta non a caso
dal prodiano Parisi. Speriamo che le differenziazioni divengano anche più
nette, così da permettere agli elettori una scelta chiarificatrice. Quanti
preferiscono l?unità, ancorché fittizia, potrebbero, però, obiettare che,
richiamandosi tutti i candidati (e, del resto, il partito stesso) al
riformismo, non si capisce in cosa gli aspiranti alla leadership dovrebbero
differenziarsi, se non per le personali doti individuali.

Chi si avvale di
questo presupposto unitario sorvola sul carattere profondamente equivoco e
contraddittorio che col tempo ha assunto il termine «riformismo». Non si deve,
invece, ignorare che all?epoca del Welfare trionfante a metà del secolo
scorso, esso si identificava con il pieno impiego, salari crescenti, una
certezza pensionistica estesa anche oltre la capacità contributiva di alcune
categorie e per talune ben prima della vecchiaia, un sistema sanitario
universale pressoché gratuito, una fiscalità progressiva e redistributrice del
reddito. E soprattutto un retroterra economico di grande sviluppo.Oggi nulla
di tutto ciò regge. La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica hanno
trasformato i dati di fondo. Quello che era economicamente e politicamente
possibile quando l?industria e la finanza erano concentrate in Europa, Usa e
Giappone, non è neppure pensabile in un mondo aperto con centinaia di
milioni di lavoratori industriali e del terziario entrati in Asia e altrove
nell?area della produzione con capitali in movimento ovunque in tempo reale.
Per questo le riforme in Europa non stanno oggi ad indicare «qualcosa di
più» per i lavoratori dipendenti ma «qualcosa di meno»: si dice «riforma
previdenziale» o «riforma sanitaria» ma si declinano, in realtà, ricette
riduttive per salvare il salvabile.

Così la «riforma dei rapporti di lavoro»
neppure ipotizza il pieno impiego ma, al massimo, una regolazione migliorativa
del precariato e della flessibilità. Ne consegue che sotto l?apparente
etichetta unificante del «riformismo» convivono malamente e si combattono
aspramente forze avvinte al vecchio Welfare, tese a rappresentare gli
interessi di quanti ancora, soprattutto per età o per collocazione, riescono
ad usufruirne, e quanti aspirano a ricostruire un Welfare ridotto ma più
sostenibile. Lo spartiacque non è più, quindi, come un tempo tra “rivoluzionari”
e “riformisti” ma tra chi vuole assicurare anche per il futuro un “Welfare”
possibile e chi vuol difendere fino all?ultimo quel che resta delle vecchie
conquiste. L?asprezza del confronto è, tuttavia, analoga. Vi è, peraltro, un
aspetto che può far pendere la bilancia dalla parte dei primi e anch?esso è
richiamato nella “petite phrase” di Veltroni: l?assicurare ai meno tutelati,
e cioè ai giovani, quel minimo di sicurezza sociale di cui sarebbero
altrimenti privati. In questo solo caso il riformismo odierno darebbe
«qualcosa di più».